Per una vera transizione ecologica bisogna cambiare strada (e ministro)
Il governo, conscio dell’emergenza climatica globale, ha pensato bene di dotarsi di un Ministero della Transizione Ecologica e ha chiamato a gestirlo in qualità di ministro una personalità competente, come il ministro Cingolani. Su di lui si stanno addensando ultimamente molteplici critiche, ma Cingolani competente lo è davvero, i numeri li sa comprendere e gestire, conosce i modelli matematici, e si è occupato di problemi connessi con la struttura della materia. La sua competenza fa sì che si renda conto dei rischi che si stanno correndo in relazione con il mutamento climatico, ma soprattutto con la potenziale scarsità di risorse, soprattutto energetiche, e di tanto in tanto manifesta le sue preoccupazioni in pubbliche dichiarazioni ai giornali.
Di Angelo Tartaglia da Volere la Luna
E dunque? Dov’è il problema? Beh, già molti hanno osservato che sembra esserci una netta scollatura fra gli allarmi lanciati, le preoccupazioni espresse e le azioni di governo. Il problema non è, in questo caso (a differenza che in altri), la competenza, ma il sistema degli a-priori e delle invarianti. Mi spiego: i guai che stiamo attraversando e che attraverseremo sempre più sono strutturalmente connessi con i meccanismi dell’economia corrente, con la spinta continua verso la crescita dei consumi di qualsiasi cosa (e quindi anche di energia) e pertanto, se se ne vuole venire a capo, occorre certo affinare tecniche e tecnologie, ma è indispensabile mettere mano a quei meccanismi, per esempio considerando che la massimizzazione del profitto non coincide affatto con l’interesse generale né è compatibile con le leggi fisiche di conservazione.
Ora, il fatto è che, per Cingolani (come per Draghi) c’è qualcosa che viene prima di qualsiasi considerazione scientifica e razionale sul sistema mondo; qualcosa che è assolutamente indiscutibile. Si tratta appunto del modello economico corrente, sintetizzabile nel mercato globale in cui si compete per massimizzare i profitti e alimentare la crescita perenne. Qualunque cosa si faccia occorre innanzi tutto non disturbare il divin mercato.
Questo orientamento d’altra parte si può a volte cogliere nelle vicende personali di ciascuno. Quando si parla di scienza, pura o applicata che sia, si possono incontrare persone che decidono di dedicarvisi perché vogliono capire cose che fino a quel momento nessuno ha ancora capito, oppure trovare soluzioni tecnologiche a problemi che sono aperti, oppure semplicemente perché vogliono saperne di più sul mondo materiale. Se poi si dimostra di saper veramente concorrere a progressi in questi ambiti, questo potrà (non necessariamente dovrà) produrre risultati positivi anche per la carriera degli interessati o delle interessate. Anche i ricercatori sono esseri umani per cui nulla di strano se alle motivazioni strettamente scientifiche si mescoleranno anche aspirazioni più o meno forti riguardo al “far carriera”: le università sono piene di esempi in cui la qualità si abbina con la carriera, ma anche in cui la carriera sopravanza la qualità scientifica, grazie a cordate, sotterfugi e giochi di potere.
Vi sono però dei casi in cui, in maniera organica e fin dal principio, la competenza è strumentale rispetto al fine primario della “carriera”: sapere non vale di per sé, ma serve per scalare le gerarchie professionali e sociali. A occhio direi che questo è il caso di Cingolani: la sua storia è una successione di salite verso livelli dirigenziali via via più elevati di vari enti scientifici a volte neocostituiti, per poi passare al mondo dell’industria, ivi incluso il settore militare, nel caso di Leonardo. Va da sé che per lui l’economia su cui ha puntato per il conseguimento di posizioni di vertice debba essere indiscutibile e certo non intende cooperare a metterne in discussione i meccanismi fondamentali, con buona pace delle considerazioni scientifiche relative a ciò che è o non è sostenibile. Di qui una certa simpatia per il nucleare, tatticamente rigirata nel senso dell’importanza di promuovere la ricerca del settore; di qui la promozione dell’idrogeno, che sta molto a cuore dei grandi gruppi che si occupano oggi di fonti fossili e che vorrebbero transire verso qualcosa che di quelle fonti continui a valersi o che comunque richiede impianti molto simili, come taglia e complessità, a quelli in uso.
Di qui la scarsa sostanziale promozione, in termini di investimenti, delle cosiddette “rinnovabili”. I fondi pubblici, nazionali ed europei, così come le agevolazioni, sono prevalentemente orientati verso i grandi operatori con posizioni importanti e spesso dominanti sul mercato dell’energia; certamente non verso la promozione dell’autoproduzione diffusa da parte di piccoli operatori o addirittura diretti consumatori/produttori: questi bisogna nella retorica promuoverli, ma nella sostanza evitare che possano disturbare il divin mercato. Eppure chi sappia un minimo leggere dati e numeri si rende facilmente conto che massicci investimenti distribuiti nel campo delle rinnovabili potrebbero in poco tempo produrre quella transizione ecologica che pomposamente compare nella denominazione del ministero, ma che è per ora lontanissima nei fatti e certamente non va d’accordo col rilancio delle trivellazioni, con le centrali a carbone (“giustificate” dalla guerra) e nemmeno con i mega impianti di fotovoltaico su migliaia di ettari a terra. Il divin mercato privilegia i grandi investimenti pubblici concentrati: tanto denaro pubblico in poche mani (private) in modo da produrre interessantissimi livelli di profitto a corto termine.
Gli interlocutori privilegiati di Cingolani sono i grandi marchi dell’industria; quelli vengono consultati e con loro si concerta. L’economia (quella economia) viene prima e se poi ci stiamo avvicinando a un tipping point climatico (punto critico che comporta un brusco tracollo del sistema) pazienza! Su questa strada temo che quella sarà la vera “transizione ecologica” che potremo aspettarci. Oppure cambiamo strada (e ministro).
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