Elezioni in Sardegna. Trionfa il non voto ma il PD commissaria anche l’Isola
Da più parti ribattezzato il Mario Monti sardo, Pigliaru così commentò la lettera inviata nel 2011 dalla BCE all’Italia: “L’elenco stilato il 5 agosto scorso da Draghi e Trichet nella lettera a Berlusconi basta e avanza per fare chiarezza tecnica sulle questioni principali: si tratta, in sostanza, di liberalizzare i servizi pubblici locali e i servizi professionali; di ridurre la rigidità della contrattazione salariale, per riconoscere differenze fra aziende e fra territori; di adottare la flexsecurity proposta da Pietro Ichino per avere più occupazione insieme a più garanzie per chi perde il lavoro; di mettere ordine nel sistema pensionistico, rendendo più rigorosi i criteri di idoneità per le pensioni di anzianità”.
Un programma di privatizzazioni e abbattimento del costo del lavoro tramite precarizzazione e apprendistato per le giovani generazioni viene sponsorizzato dalla sobria figura del docente universitario, eticamente integerrimo, promotore del merito e delle competenze. Una bella favola di un PD che per affermarsi deve rispolverare la retorica moralista dell’avocare a sé la difesa dei baluardi democratici contro le barbarie da fine impero delle satrapie berlusconiane. A guardar bene, però, se il povero Maggiordomo Cappellacci – dileggiato anche da Padron Berlusconi in campagna elettorale – rappresentava gli interessi delle consorterie del capitale di rapina d’oltremare, di questo spirito predone Pigliaru ne fa politica di sistema, educata al manuale delle buone maniere e soprattutto a quello della scuola liberista ma… formalmente democratica!
Se l’importante è salvare le forme sembra però che siano proprio queste a non reggere più. È giusto la fidelizzazione a queste forme democratiche che entra pesantemente in crisi. Alta, altissima l’astensione, specie nelle regioni più pesantemente colpite dalla crisi, come il Sulcis. Si tratta di una disaffezione verso la classe dirigente dell’Isola che si acuisce anche a partire dagli avvisi di garanzia che hanno colpito decine e decine di consiglieri regionali tra centro-destra e centro-sinistra nell’ultimo anno, indagati per peculato.
La coalizione del centro-destra ha preso 220.000 voti in meno rispetto alle elezioni regionali del 2009. Un’emorragia di consensi che ha travolto anche il centro-sinistra, orfano 130.000 voti rispetto alle precedenti consultazioni regionali.
Se da un lato ci si poteva attendere un’alta percentuale di astensione tra le comunità dell’interno abbandonate a sé stesse nel post-alluvione, il dato fa palesare la diffidenza della popolazione anche verso le prospettive di medio-lungo termine su una ripresa millantata a parole e solo in campagna elettorale, di un’economia di depredazione del territorio incentivata nei decenni sia dalla componente berlusconiana sia dai democratici.
La forte incidenza del voto disgiunto – con la preferenza espressa alle liste ma non al candidato governatore – conferma come il voto di scambio resti la forma base e scontata di relazione con lo strumento elettorale per fette intere di proletariato sardo ormai disilluso. Il voto resta un legittimo canale suppletivo di un welfare polverizzato, utile a redistribuire reddito, favori e facilitazioni con il consenso al candidato di turno attore nella scacchiera delle complesse – ma sempre più sfilacciate – reti clientelari che reggono le “istituzioni democratiche” nei territori.
Ma è proprio il non aver risolto il difficile rebus della redistribuzione dei feudi ad aver negato la rimonta a Cappellacci. La secessione di Mauro Pili, ras del Sulcis iglesiente, candidato solitario con la lista Unidos, ha sottratto a Cappellacci un buon 5% di consensi che avrebbero permesso, se Pili fosse rimasto in quota Forza Italia, la riconferma del governatore uscente.
Dunque, nonostante una campagna elettorale giocata interamente con la promessa del paese della cuccagna della zona franca e l’approvazione di un piano paesaggistico nell’ultima seduta della legislatura, alla fine il colpo di scena finale di Cappellacci non c’è stato. Ma, in ultimo, la sconfitta della coalizione di centro-destra non sembra affatto rilanciare il Partito Democratico nell’Isola, quanto piuttosto lo costringe ad avvinghiarsi allo scoglio di un governo ancor meno legittimato e circondato da mari decisamente tempestosi.
E l’alternativa? Michela Murgia, a capo della coalizione Sardegna Possibile, supera di poco il 10% e fallisce l’obiettivo di mettere in crisi gli equilibri del blocco liberal-governista Cappellacci-Pigliaru. La Murgia forse riuscirà ad arrivare in Consiglio per il rotto della cuffia. La legge elettorale sarda infatti, oltre ad attribuire il 60% dei seggi alla coalizione del candidato vincitore purché superi il 40%, pone uno sbarramento al 10% per le coalizioni e al 5% per le liste che corrono da sole. Questo meccanismo mette al palo anche tutti gli altri concorrenti: dal Movimento Zona Franca di Gigi Sanna, al Fronte Unidu Indipendentista, con candidato Pier Franco Devias, attestatosi all’1%.
Le forze raccoltesi attorno alla Murgia e che hanno partecipato alla costruzione del suo programma, anche dove positive e di rinnovamento, si bruciano attorno al minoritarismo del semplice cartello d’alternativa. Le forze vive, comprese quelle dei tanti comitati territoriali di lotta, che hanno appoggiato la scrittrice di Cabras hanno scelto di sacrificare una temporalità autonoma della propria maturazione politica in favore di un sovranismo progressista e progressivo ma privo di mordente, incapace di commisurare la “buona proposta” alle dure regole del gioco ma soprattutto incapace di radicare la “buona proposta” in comportamenti sociali di contrapposizione all’elemento istituzionale. La novità del “prodotto politico partecipato” di per sé non è bastata.
Al di là dei toni più raffinati e meno grossolani Sardegna Possibile ha fatto leva su temi trasversali, spesso assimilabili all’elettorato a cinque stelle: cura del territorio, riscatto delle competenze e delle qualità inespresse nella gioventù isolana. Eppure l’opzione Murgia non ha raccolto i favori dell’elettorato grillino, orfano a sua volta di una candidatura propria per i dissidi interni al M5S sardo. L’istanza antagonista antisistemica – o semplicemente anticasta, se vogliamo – presente nel voto grillino alle politiche di un anno fa (che pure in Sardegna registrò un considerevole exploit) non è infatti stata tradotta in alcuna maniera dalla Murgia, troppo preoccupata a salvare il profilo propositivo, civile e civista di un’idea di buon governo. Così il patrimonio del voto cinque stelle sardo è stato consegnato in gran parte all’astensione confermando come non ci sia margine di maturazione dei movimenti territoriali se non a partire dalla netta contrapposizione all’orizzonte governista.
Il flop di Sardegna Possibile si è trascinato dietro le solite fastidiose nenie di una sinistra dei giusti avvilita dal mondo. Valentina Sanna, capolista di Comunidades, lista di Sardegna Possibile, ha lamentato che “l’astensionismo registrato, con un sardo su due che non è andato a votare, è un dato che deve preoccupare: è evidente che in troppi hanno scarsa fiducia nella propria capacità di cambiare le cose o poco interesse.” Forse l’attenzione eccessiva e l’attesa attorno al fenomeno Murgia le hanno fatto dimenticare che Sardegna Possibile non deteneva alcun monopolio dell’alternativa e della trasformazione sociale in Sardegna.
Dichiarazioni di questo tipo possono essere lette come una sostanziale mancanza di polso riguardo al fatto che, in molti territori, la materialità della crisi non faccia in alcun modo balenare l’idea che una opzione di riformismo illuminato verso un sovranismo non meglio precisato sia una prospettiva non solo lungi dall’essere contemplata, ma che per molti versi appare come una ulteriore tessera di quel mosaico di un sistema rappresentativo di cui diffidare perché strutturalmente lontano da bisogni sociali impellenti. Difficile, in particolar modo per i sardi, affidarsi a promesse, quando la posta delle scelte personali è tanto alta da dover cominciare a tenere in considerazione per molti nuclei familiari l’emigrazione forzata di alcuni componenti come, questa sì, prospettiva immediata.
Probabilmente è da questi fattori immediati, dalla necessità della contrapposizione praticata collettivamente, che si può e deve ripartire con una politica radicata nel territorio che, tenendosi distante dagli interessi di comodo delle grosse strutture politiche, può tornare a vedere che il disinteresse verso l’opzione elettorale può e deve divenire stimolo per una dialettica del conflitto in grado di far maturare nuova soggettività resistente, nuove appartenenze, nuove condizioni di possibilità. Lo capiscono bene molti giovani che nell’ultima stagione, a partire dalla scuole, hanno cominciato a porre l’accento sulle questioni per loro improrogabili, non facendo mera opinione ma provando ad essere parte della soluzione attiva di queste, individuando controparti specifiche e senza avere paura di sbagliare raggiungendo il palazzo del Consiglio regionale come per un assedio a un luogo nemico piuttosto che come un traguardo…
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