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In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie. Intervista con Carmen Pisanello

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In nome del decoro. Dispositivi estetici e politiche securitarie (Ombre Corte 2017) è un breve saggio di Carmen Pisanello che sviscera l’insieme di deliri retorici e pratici che hanno come fine il rinchiuderci dentro le nostre case, azzerare gli spazi di socialità e spingerci verso un modello orwelliano di società in cui il lavoro, l’abitazione e il televisore diventano l’unico mondo possibile. Per dirla con Pangloss, il maestro del Candido di Voltaire, il migliore dei mondi possibili.

Da Una banda di Cefali

Oggi sicurezza e decoro camminano a braccetto come dichiara la quarta di copertina del libro: «Ormai anche in Europa lo spazio urbano viene sottoposto a rigidi controlli e a sorveglianza, diviso in zone più o meno accessibili, così come viene diviso in campi semantici opposti: da un lato l’ordine, la pulizia, l’uniforme, l’autorizzato, dall’altra il disordine, lo sporco, l’informe, l’abusivo». Pisanello analizza la politica del decoro partendo dai media e dall’infotainment che hanno bruciato il cervello di migliaia di persone creando ad hoc una serie di paure che attraversano la nostra società. Il coronavirus ha di certo sparigliato le carte in gioco, ma restano alcuni punti fermi del continuo bombardamento mediatico, come l’evergreen paura dell’immigrato, mentre si aggiungono new entry complesse e ancora più spaventose ad esempio Blue Whale, il gioco online che indurrebbe i ragazzini a prove sempre più difficili fino al suicidio. Decoro e sicurezza si fondono in un unico grande magma di paure e notizie. Depurare le strade dalle scritte, dai ragazzi che bevono birre e fumano gli spinelli, per la borghesia significa depurarle dal conflitto. Da che mondo e mondo, se uno è sporco, vestito male e con un brutto taglio di capelli non può che portar guai. L’ideologia del decoro amplifica l’idea che la colpa del degrado umano e architettonico sia sempre di chi sta peggio di noi. Ritorna alla mente il concetto di destra e sinistra di Gilles Deleuze: la persona di destra vede le ingiustizie del mondo e si chiude per non farle entrare nel suo giardino, quella di sinistra vede le stesse ingiustizie, ma vuole risolverle partendo dal proprio mondo. O almeno dovrebbe essere così, visto che i primi deliri securitari e le prime guerre al diverso sono state lanciate da un’icona della sinistra dell’inizio degli anni 2000, Sergio Cofferati. L’ex segretario della CGIL che riuscì a portare in piazza tre milioni di persone contro l’abolizione dell’art.18 e poi diventò sindaco di Bologna promettendo ascolto. Nel giro di pochi mesi divenne, invece, l’alfiere della legalità, della lotta al degrado, della guerra ai giovani a cui pure Bologna, città universitaria per eccellenza, deve moltissimo. Noi, che abbiamo vissuto quegli anni bolognesi, ricordiamo la repressione, le multe e gli arresti, ma anche il paternalismo spiccio di quella giunta che non voleva che le persone bevessero nelle piazze: “Perché l’alcool fa male”, ma le stesse bevande potevi trangugiarle seduto a un tavolino al triplo del prezzo senza alcun effetto problema per il tuo fegato. La parola “decoro” spesso nasconde solo interessi di bottega o l’inizio di una grande speculazione urbanistica all’interno di un quartiere considerato degradato. L’ultimo esempio di questo genere è stato lo sgombero dello spazio pubblico autogestito Ex mercato 24 nel quartiere della Bolognina, a Bologna appunto. In un quartiere multietnico e ricco di esperienze indipendenti, l’applicazione forzata dell’estetica borghese – con tanto di street artists pagati dal comune –  ha di fatto coperto un vero e proprio sacco edilizio, in nome di una riqualificazione che non significa altro che cemento e soldi per costruttori e banchieri, e voti per politici opportunisti. Eppure, esistono degli esempi di resistenza a queste logiche, ad esempio, il quartiere Langunillas di Malaga, altra città sottoposta a una cura gentrificante molto dura. A tal proposito, consiglio di dare un’occhiata alla pagina facebook: Langunillas-El futuro estay muy “Grease”. Ma torniamo al libro e alla sua autrice. Carmen Pisanello si è laureata in Scienze dell’Informazione Editoriale Pubblica e Sociale con una tesi sul concetto di decoro fra media e filosofia. Oggi si occupa di media, inclusione sociale e progettazione per terzo settore. Ha pubblicato per DonnaWomanFemme, Zona Letteraria, ed altri. Nel 2016 ha vinto il premio Building Apulia per Scrittori under 30. Il suo nuovo libro s’intitola Scrivere sui muri con le illustrazioni di Elias Taño (Momo Edizioni), edito anche in Spagna come “Rayar los muros” (Edicions Bellaterra).

scrivere sui muri

Carmen Pisanello, Elias Taño, Scrivere sui Muri, Momo Edizioni

Il tuo saggio inizia con un’analisi del nuovo rapporto tra cittadini e i nuovi e vecchi media. Che c’entra con il decoro?

In nome del decoro è un saggio a cui ho cominciato a lavorare nel 2016, mentre scrivevo la mia tesi di laurea magistrale in media studies. In quel periodo sui giornali si scriveva molto di “crociate contro il degrado” e si alimentava una narrazione distorta della legittima richiesta di sicurezza dei cittadini, ossia, per come la intendo io, una sicurezza intesa come sostegno economico, presenza di servizi, di promozione sociale e culturale. La narrazione mediatica invece spingeva molto una narrazione in cui la richiesta di sicurezza veniva intesa come incolumità fisica, alimentando sentimenti di paura e concentrandosi su specifici “nemici” della sicurezza, che paradossalmente poi erano sempre gli ultimi di questa società: persone con esistenze difficili, che non hanno potuto o voluto vivere entro o semplicemente reggendo ritmi e aspettative tipici della società neoliberista occidentale e conducono vite con condotte particolari, spesso incomprensibili ai più. Sto parlando di senza fissa dimora, prostitute, persone con patologie mentali o patologie di dipendenza da sostanze, migranti, giovani che fanno parte di gruppi politici o artistici, e così via. Si è trattato di una battaglia che si è condotta sui giornali e in particolare sfruttando la potenza dei nuovi media di condivisione, che è una cosa piuttosto scontata dato che viviamo in un antropocene fondato sul concetto di informazione. Quindi sono partita da lì, analizzando da un punto di vista semiotico il dibattito.

Che cosa s’intende con ideologia del decoro? 

Il concetto di ideologia del decoro per  me è un concetto provocatorio che va a sottolineare l’uso politico che è stato fatto della narrativa dicotomica decoro/degrado, una narrativa di opposti inconciliabili che serviva esattamente a questo, a dividere la città e le persone con un racconto estremamente superficiale degli epifenomeni, girandosi poi dall’altra parte quando si trattava di discutere le cause che portavano le persone a dormire per strada, a utilizzare sostanze stupefacenti e in generale a vivere ai margini. Per non parlare della criminalizzazione che è stata fatta persino di fenomeni artistici/creativi come il writing e l’arte urbana. In realtà penso che il decoro non meriti affatto di essere definito un’ideologia. Esattamente come per il fascismo, dietro al concetto di decoro non c’è un’idea strutturata, un presupposto teorico e un ideale inteso come finalità che costituisce un programma, ma si tratta soprattutto di uno strumento di controllo e repressione, poiché l’ideale di ordine e pulizia che viene proposto non può essere realizzato, se non a discapito della nostra umanità. L’ideologia del decoro non esiste perché tale pulizia è soprattutto una narrazione mediatica, che si nutre della mancanza di comprensione delle ragioni altrui e a sua volta la alimenta. Serve in particolare a nascondere le cause di tali marginalità sociali, perché una loro comprensione andrebbe a intaccare non solo interessi più grandi come il valore economico rappresentato dallo stato di determinati quartieri o zone urbane, ma anche le fondamenta del sistema economico in cui viviamo, produttore di povertà e marginalizzazione. Questo ideale irraggiungibile di pulizia e perfezione è un perfetto strumento di controllo sociale, perché ci misura (e quindi ci giudica)  in continuazione come imperfetti, ci rende deboli perché ci fa sentire inadatti e infine ci fa scaricare la nostra frustrazione verso “nemici” che possiamo additare come più marginali, sbagliati e imperfetti di noi.

Chi colpisce la guerra al degrado?

Non si può rispondere a questa domanda senza prima chiedersi: che cos’è il degrado? Perché bisogna “fargli guerra”? In questo modo si pone una questione molto articolata, a cui si può rispondere seguendo le varie manifestazioni di questa narrazione, che appaiono come frammenti di un assetto che è culturale, politico ed economico. Se la contrapposizione simbolica fra bianco e nero, pulito e sudicio, puro e impuro, è un refrain  nel discorso politico culturale delle destre di questo Paese e non solo, il soffiare su sentimenti di aggressività e paura nei confronti di tale diversità è un agire politico (anche quando è messo in pratica a livello mediatico) che assicura voti e un enorme potere repressivo. Proprio qui si manifesta il  pericolo: nel momento in cui si aggredisce la non conformità (multando, respingendo, carcerando, ecc.), ma questo accade senza chiedersi il perché di tale diversità e senza alcuna assunzione di responsabilità politiche, allora stiamo assistendo a una separazione sempre più netta delle parti sociali e stiamo autorizzando strumenti di controllo sociale sempre più capillari. Tale separazione si incardina sul mancato riconoscimento reciproco, sulla mancata accettazione della diversità: è l’isolamento dell’essere umano contemporaneo, incastrato nella routine della produzione neoliberale e del controllo biopolitico. Una solitudine che paradossalmente diventa “unità” davanti alla costruzione di un nemico comune, di un capro espiatorio selezionato accuratamente: l’indifendibile, l’incolpabile, il disturbatore, colui o colei che con il suo comportamento “indecoroso” non solo non soddisfa gli standard produttivi, ma porta avanti condotte moralmente inaccettabili, in alcuni casi anche per sua deliberata scelta. In mancanza dei perché, un senzatetto è uguale ad un writer che non è diverso da una prostituta o da un ultras o da uno “straniero”. Intendiamoci, la morale di cui parliamo è una morale perbenista, fatta soprattutto di etichette, che non si indigna tanto per il malaffare, tanto quanto per il fatto che tale malaffare non sia “mondato” da un consistente ritorno economico.

Stavamo vivendo (o vivevamo) in un’epoca in cui il turismo e le gentrificazione si stavano mangiando anche una città recalcitrante a questo fenomeno come Napoli. Adesso c’è chi tira un sospiro di sollievo perché i prezzi delle case si abbasseranno, le strade saranno meno affollate e, più filosoficamente, l’autogetrificazione della gente stessa si è fermata; e poi ci sono quelli che si stracciano le vesti per paura che in certe zone risanate grazie al turismo ritorni il degrado. Cosa ne pensi?

Penso che siamo in un’epoca in cui le cose cambiano troppo rapidamente per sapere se potremo tirare sospiri di sollievo. Potenzialmente non possiamo sapere che aspetto avranno i centri delle nostre città fra tre anni. In qualsiasi caso, anche se i centri città rimanessero vuoti di turisti e negozi, ciò accadrebbe a causa di un mancato potere d’acquisto generale, perciò il “degrado” dovrebbe essere l’ultimo dei problemi in caso di default economico del Paese.

Cosa pensi delle attuali norme securitarie per il contenimento del virus? Pensi che ci abitueremo ad esse e le chiusure delle piazze e i coprifuochi diventeranno una norma applicabile a piacimento dal sindaco di turno?

La tendenza della società contemporanea è quella di cedere libertà personali in cambio di garanzie di protezione e sicurezza. Succede con tutto: le città oggi sono piene di telecamere, sono rarissimi i luoghi dove non si viene osservati, accettiamo che comportamenti fuori dalla norma (ma che di fatto non fanno del male a nessuno) vengano perseguiti con pene severe come la carcerazione, persino quando deleghiamo a Google Maps il percorso da fare, siamo terribilmente impauriti e preferiamo che qualcuno “controlli la situazione” al posto nostro. La pandemia ha dato una bella accelerata a tutto questo, la paura dell’altro si è materializzata, come in un incubo. Solo che è tutto vero. Se faremo presto ad abituarci a tutto ciò, se avremo paura non solo dell’altro, ma anche di autodeterminarci, di comprendere quali regole sono accettabili e quali insopportabili, dipende solo da noi. Penso sia soprattutto una questione di consapevolezza.

Il tuo ultimo libro Scrivere sui muri è un libro per bambini “di tutte l’età” perché pensi che le scritte sui muri siano un argomento che può riguardare anche i più piccoli?

Perché è qualcosa che cominciamo a fare da bambini, una specie di necessità espressiva che poi viene mediata, più o meno dolorosamente, nell’incontro con l’autorità. Prima quella familiare e poi con le diverse forme di autorità con le quali ci confrontiamo crescendo. Spesso queste forme di autorità non comprendono che frenare questi istinti espressivi ci porta solo ad essere degli esseri umani più insoddisfatti, più tristi e più grigi. L’espressione creativa o artistica è una manifestazione tipicamente umana come il gioco, quando la sopprimiamo per conformarci a certe regole morali o sociali ci procuriamo un enorme sofferenza. Questo è qualcosa che i bambini forse sanno anche meglio di noi. Per questo è un libro per tutte le età, dobbiamo ricordarci di essere stati bambini.

Intervista a cura di Claudio Metallo

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