In ricordo di Paolo Pozzi
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Una morte vale quanto un’altra morte. Alla fine dobbiamo tutti arrenderci a questa oggettività: il nostro ritorno nel tempo, è prima di tutto, un rientrare nell’ordine delle cose, la conferma inevitabile che altro non può essere, che altro non può accadere. Eppure, è anche giusto, per chi continua a vivere, pensare, credere che a una fine si può attribuire un significato speciale, un valore superiore, capace di rendere più ricco di senso questo “non esserci più”. Ciò vale soprattutto per la scomparsa di un amico, di un compagno, di una persona con cui si ha avuto un rapporto, una relazione umana in cui sono stati fondamentali e si sono agitati, si sono condivisi – a volte come in un grande sogno, ma spesso anche nella realtà di quei giorni, di quegli anni – i grandi temi e le grandi lotte per la giustizia sociale, l’uguaglianza e la libertà della persona, il riscatto dal lavoro, l’assalto alla “metropoli” del capitale e delle istituzioni, il diritto ad essere altri e altrove.
È per questo che oggi la scomparsa di Paolo ci segna e ci colpisce come un qualcosa che ci appartenga, che faccia parte del nostro essere o essere stati. Paolo è stato, è al centro della nostra vita di allora: come ciascuno di noi è stato, è al centro della sua. In questo momento, poco conta il resto, a poco servono gli anni che alla fine ci stanno separando “dall’epoca dei fatti”, dalle cronache (di storia non ci è ancora permesso di parlare) di allora. In questo momento, lui è ancora in via Disciplini, e noi siamo con lui intorno al tavolone su cui faceva, facevamo Rosso. Noi siamo alla Face, e lui è a Fizzonasco con noi, a Quarto Oggiaro, all’Assolombarda. E sì, anche a Fossombrone, e al G12 e al G8, sui blindati che ululavano da Rebibbia al Foro Italico, da San
Vittore, dietro le sbarre delle aule bunker, e di fronte a noi ci sono Santiapichi e Abbate, Cusumano e Spataro.
Ecco dunque che la sua fine, la sua scomparsa improvvisa, evento imprevisto e carico di dolore soprattutto per Laura e Irene, è qualcosa che sentiamo anche come “atto tragico” che ci appartiene, che è anche nostro, che oltre a essere nella natura e nell’ordine delle cose, attiene anche a tutti noi, alla sparsa ma sempre unita comunità dei suoi amici, dei suoi compagni, di tutti coloro che con lui hanno condiviso e sognato il più grande dei sogni.
I/le compagni/e di Paolo – 8 gennaio 2015
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Sull’esperienza e le lotte degli anni Settanta, Paolo Pozzi, oltre a altri interventi, ha scritto un libro: Insurrezione, pubblicato nel 2007 da DeriveApprodi: .
Ecco l’inizio dell’introduzione del libro:
Questa è una storia degli anni Settanta.
Allora c’era un movimento fatto di donne e uomini che pensavano di cambiare il mondo. In modo radicale. Con una rivoluzione.
Quelle donne e quegli uomini pensavano che cambiarlo potesse anche essere divertente. Anzi o era divertente o non valeva la pena. Tutto e subito. Non si poteva rimandare nulla a dopo.
La parte più radicale di quel movimento erano gli autonomi.
Poi quel movimento è stato preso in una morsa ed è rimasto stritolato. Molti si sono fermati o sono stati fermati. Molti dal movimento sono passati alle formazioni armate. Molti hanno pensato che l’unica giustizia era quella proletaria. Alcuni, non pochi, si sono pentiti, cioè sono diventati delatori.
È quindi anche una storia terribile. È una storia fatta di vivi, morti e morti ammazzati. È una storia dolorosa per il dolore arrecato e sofferto.
È una storia che narra di giovani. Io ora sono un uomo che va verso i sessanta. Ma mi rivedo giovane e penso: ce l’hanno fatta pagare ma ci siamo divertiti un casino.
Questa storia comincio a scriverla nel carcere speciale di Fossombrone nel 1982. Quaderno e matita.
Poi il quaderno me lo porto a Rebibbia, dove vengo trasferito.
Francone (Tommei, ndr.) mi presta la sua Olivetti Lettera 22 e io ricomincio da capo. Il patto è chiaro: tutti i giorni lui vuol leggere e dare il suo giudizio: Hemingway, passabile, fa cagare. I “fa cagare” vengono subito strappati in faccia all’autore.
Il lavoro si rallenta di molto durante le udienze del processo. La scrittura langue. Nell’estate dell’84 ci dò la botta finale. Ma mi liberano e il legame con il mio spietato critico cessa. Il dattiloscritto me lo porto a Milano nei sacchi neri della spazzatura che raccolgono i miei effetti personali. Pubblicarlo? E da chi?
Poi Francone esce anche lui. Una sera di quindici anni fa mi porta a casa Sergio, detto Sergino perché ai tempi dell’autonomia era quasi un bambino. Sergio dice: mi piace un casino, siamo proprio noi.
Piano piano comincia a pubblicare singoli capitoli della storia su riviste, libri ecc. Poi l’anno scorso si fa vivo. E mi dice: pubblichiamo tutto. Io dico di sì. Eccola qua.
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