Licio Gelli, l’uomo che morì lasciando più macerie che misteri
Basterà, naturalmente, non lasciarsi prendere dalla mitologia della “fonte di archivio che cambia la storia”, come già accaduto per gli archivi del Kgb o della Stasi. Da oltre vent’anni entrambi sono disponibili, comunque più agli storici che agli strateghi, e niente è davvero cambiato della lettura dei fatti della guerra fredda o della seconda guerra mondiale. La pubblicazione dei diari di Goebbels, comprati dall’archivio di stato di Mosca, per capirsi, al massimo ha fruttato una causa sui diritti d’autore. In Italia, paese che ama buttarla in commedia, si inscenò invece la vicenda della lettera falsa di Togliatti, con tanto di ordine di fucilazione di soldati italiani dell’ottava armata in Russia. Occhetto, allora segretario del neonato Pds, la definì “agghiacciante”, anticipando Antonio Conte di vent’anni, prendendo le distanze da Togliatti prima che si scoprisse –come ammesso poi da Repubblica e Corriere- che si trattava di un clamoroso falso. Del resto nella sinistra istituzionale si è sempre privilegiata la lotta politica grazie ai documenti di archivio –si veda la vicenda della lettera di Ruggero Grieco a Gramsci usata come elemento di scontro, e nei decenni, tra Pci e Psi- affascinati dall’idea che la storia documentaria, che ricostruisce le relazioni personali e le cerchie di potere, facesse davvero la politica. Per non parlare della versione adrenalina della ricerca d’archivio, la giallistica, che dell’intrattenimento sui documenti, letti in versione mistero perennemente irrisolto, ha fatto un grosso mercato. Poi che la politica italiana, la cui subcultura storicistica continua a permanere in latenza, abbia ancora maggiore dimestichezza con gli archivi che con il trattamento dei dati è risaputo. Solo Renzi, che comunque i dati li pettina piuttosto che citarli, in questo ha rappresentato una rottura. E stiamo parlando di colui che è stato rappresentato dall’Economist come un bambino con il gelato in mano non dell’ Hyman Minsky della politica.
Gelli è comunque la riprova, senza alimentare mitologie da società trasparente, che finire nel cono di luce dei media fa conoscere davvero i personaggi. Sempre se non si presta troppa attenzione alle trasmissioni scandalistiche, naturalmente.
La vicenda di Gelli, proprio perchè tipica di una certa Italia quella che è stata tra affari e potere in un bel pezzo di ‘900, è lineare. Questo signore di Arezzo è stato infatti sempre nella scia di quelli che considerava gli snodi di potere: fascista convinto, volontario in Spagna e camicia nera dichiarata; antifascista per il breve passaggio che è servito per il traghettamento nell’Italia democristiana; imprenditore e “consulente” dei servizi segreti durante il periodo centrista; poi organizzatore di reti di potere, la più famosa fu la loggia massonica P2 durante lo scontro di classe degli anni ’60 e ’70 nel quale bisognava “contenere i rossi” con ogni sforzo. In un certo senso, il metodo di lavoro di Gelli degli anni ’50 –mettere assieme imprenditoria, politica e servizi- si replica anche negli anni successivi. E persino nell’altro continente, quello sudamericano, dove il metodo di lavoro, assieme ai profitti, si replica per combattere guerriglia e movimenti di liberazione. Non è un caso quindi che l’apice del potere di Gelli stia nel periodo in cui è forte, e drammatica, la contrapposizione tra sinistre di classe e stato. Nella P2 di Gelli, già da prima della vicenda Moro, vi sono così imprenditori, pezzi di istituzioni, servizi e di mondo bancario. Quello che serve per alimentare, stavolta al massimo, le sinergie imprenditoria-politica che sono sempre state il core business di Licio Gelli.
Con lo sgonfiarsi del periodo dell’emergenza, già dai primissimi annni ottanta, si sgonfia anche la fase più acuta del potere di Gelli. Anche perchè non vi era più ragione –economica, politica e militare- di tenere in piedi un simile centro di potere. Il mondo stava cambiando e la moltiplicazione dei centri di potere, essenziale nelle società che uscivano dal fordismo, non necessitava certo del primato di vecchi arnesi, di antiquati metodi di centralizzazione del “lavoro” della guerra fredda. Così la P2 viene alla luce, assieme ai coinvoglimento di Gelli nello scandalo Ior, nella morte di Calvi, nel depistaggio sulla strage di Bologna, nell’uccisione del giornalista Pecorelli ed altri episodi. Certo Gelli rappresentava un potere forte ma, una volta venuta meno la strategicità (di tipo golpista in Argentina, di tipo emergenziale in Italia) ha subito un ridimensionamento.
Questo non significa che il potere di Gelli venga totalmente meno, e non solo perchè il “venerabile” è riuscito a dribblare sentenze e processi, si pensi al particolare del più famoso iscritto alla P2, Silvio Berlusconi. Il tycoon di Mediaset, poi più volte presidente del consiglio, non solo non negò l’iscrizione alla P2 ma la definì anche un “club con le migliori persone del paese”. Segno che il metodo di lavoro di Gelli –unire imprenditoria, politica e servizi anche per la più sfrenata accumulazione di capitali- non solo aveva arricchito Berlusconi, all’epoca più interessato al capitale che al governo, persino creato una rete di relazioni utile, e spendibile pure negli anni ’90 e successivi.
Certo l’immaginario del direttore d’orchestra -l’idea di Gelli burattinaio dell’Italia è da paese nostalgico della propria fase rurale che non smanella l’immaginario da fiera strapaesana- è dura a morire. Non rende conto nè del tipo di rischio che davvero la P2 ha rappresentato –un misto tra potere dittatoriale e comitato d’affari sempre pronto a riprodursi- nè del tipo di complessità delle società italiane dell’ultimo quarantennio: pronte a subire questo tipo di poteri come ad esserne autonome come troppo complesse per non disgregarlo. In fondo lo stesso Gelli, all’inizio del secolo nuovo, lo ha riconosciuto: “il vero potere oggi sono i mass media”. Qualcosa nel vecchio schema di potere non funzionava più, ormai era chiaro: Murdoch era un tipo di personaggio irraggiungibile per Gelli e Berlusconi, apprendista del potere ai tempi della P2, mostrava autonomia proprio grazie alle tv.
Le ultime dichiarazioni di Gelli, come quella del piano di rinascita democratica finalmente compiuto, hanno il sapore delle ultime sceneggiate del mestierante che proprio non vuole saperne di lasciare il palcoscenico. Il piano di rinascita nazionale, il solito schema autoritario buono per tutte le stagioni, era proprio un residuato bellico della guerra fredda. Un tipo di potere che, con la perdita di sovranità monetaria e la crescita della governance multilivello, sarebbe stato svuotato nella sua ragione d’essere in poco tempo. In una delle sue ultime interviste Gelli ha mostrato nostalgia dei vecchi soci (Andreotti, Cossiga) e rimpianto per l’antico capo (chiamato, col solito fare poetico, Il Duce). Ma nessuna simpatia per Renzi (“un bambinone”). E una frase, detta sette mesi prima della morte che qualifica la persona per sempre: “non nascondo che non mi dispiace vedere soffrire il popolo”. Quando neanche le oltre novantacinque primavere stemperano le pulsioni sadiche verso la gente si può parlare, senza problemi, di una vita sbagliata che non rimpiange nessuno.
Oggi non c’è nessun mistero sul passato di Gelli che possa dirci qualcosa sul presente e, meno che mai, sul futuro. Gelli arriva al fine vita lasciando sul campo, questo si, più macerie che misteri. Lesioni della democrazia, morti, stragi, sangue e metodi dittatorali innestati in comitati d’affari tra schiavisti. Metodi e comitati di cui tutti, in qualche modo si sono serviti. Quella delle macerie fatte da Gelli è la grande tragedia degli ultimi decenni non quella dei misteri da serial televisivo, magari messo in piedi da qualche mago della fotografia, di quelli che vincono gli Emmy Award.
da SenzaSoste
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