Enzo Jannacci, un alieno Charlot
Una galleria fitta di personaggi e di brani dove era capace di maneggiare melodramma e jazz, fino a spezzarti il cuore. I suoi lavori con Gaber e Fo
Gli occhiali spessi sopra il naso, un vestitino incravattato che gli stringeva le spalle, la voce sempre sul punto di spezzarsi, l’aria perennemente terrorizzata. In «quella» Milano, anni ’60, Enzo Jannacci era il nostro Charlot. Per via dei scarp de tennis, certo. Ma anche per la galleria di matti, poveracci, licenziati, messa in scena con studiata provocazione cabarettistica lungo il decennio del Boom Economico usando una sola maschera, sempre la stessa: la sua.
C’era il giovanotto che entrava in una balera con le scarpe troppo grosse e ne usciva accompagnato dai carabinieri per aver chiesto un basin – un bacino – a una signorina (Per un basin, 1964). Quell’altro che andava a Rogoredo a cercare la morosa sparita, e le 10mila lire che le aveva prestato; intanto ‘l vusava ‘me ‘n strascee: “Non mi lasciar!” (Andava a Rogoredo, 1962). Giovanni Telegrafista, che della promessa sposa fuggita in città scopre dopo una vita il matrimonio con un altro (Giovanni Telegrafista, 1968, traduzione dal poeta Cassiano Ricardo). Il palo, sguercio e sordo, della Banda dell’Ortiga (1971). E Gigi Lamera che «prendeva il treno per non essere da meno»: per amore si era fatto licenziare dalla fabbrica ma non aveva il coraggio di dirlo (Prendeva il treno, 1965).
Nei recitativi di certe sue canzoni-teatro ai matti regalava una voce da Paperino. E un gusto beckettiano per tutto l’assurdo del mondo. Era capace contemporaneamente di maneggiare i fili del melodramma neorealista, della canzone-canzone ispirata al jazz, a Brel-Brassens, fino a spezzarti il cuore. Il ragazzino terun attaccato ai tram milanesi di Ohe sun chi, le domeniche operaie di Qualcosa d’aspettare (scritta da Fausto Amodei), la lettera del condannato a morte della Resistenza (Sei minuti all’alba, Dario Fo), l’amara felicità matrimoniale di Ti te se no, dove basta una carezza per sentirsi un sciur che g’ha la radio noeva. E Vincenzina davanti alla fabbrica, ancor oggi di un’intensità quasi insostenibile, e fu colonna sonora di uno dei film più noti di Monicelli, Romanzo Popolare.
Tra la maschera e il volto di Enzo Jannacci, la distanza è sempre parsa brevissima. «Non idoneo a essere presentato come interprete di canzoni», questo fu il responso del primo provino alla Rai-tv. Non senza qualche ragione: si mangiava le parole, sembrava piovuto da chissà dove, nessuno capiva bene se fingeva oppure no. La stessa censura alla radio e alla tv, esercitata per esempio su Ho visto un re nella Canzonissima del ’68, oggi ci appare più kafkiana che scandalosa (Jannacci però ci restò giustamente molto male, e abbandonò per qualche anno canzoni e tv per andarsene a studiare chirurgia in Sudafrica).
Una volta approdato in tv, passato da chissà quale buco nella rete del controllo, apparve insomma al pubblico popolare come uno che riassumeva su di sé il crudele destino dei personaggi che andava raccontando, una specie di tragicomica vittima sacrificale del boom economico e del residuo ottimismo dell’epoca. Fu sulla bocca di tutta Italia la mattina dopo che al festival di Sanremo attaccò «Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale». Era il 1968, quando altro sennò? Vengo anch’io no tu no è un monumento assoluto alla crudeltà umana, l’inno di quelli che non possono venire mai da nessuna parte, anche quando putacaso si facesse la rivoluzione. E la capiscono tutti, anche (soprattutto) i bambini.
Si era diplomato al Conservatorio. Alla fine degli anni ’50 aveva già potuto suonare il jazz e il primo rock’n’roll con tutta la faccia tosta dei suoi compari d’avventura: Giorgio Gaber prima di tutti, Adriano Celentano e persino Luigi Tenco. La maschera venne dopo, tra il 1961 e il 63. Con le prime canzoni dadaiste (L’ombrello di mio fratello), che lui chiamava confidenzialmente schizo; la frequentazione del giro degli strehleriani e l’uso brechtiano del dialetto milanese (Ma mi); la scoperta del cabaret al Derby Club e l’esordio in teatro con la regia di Dario Fo. Regia è troppo poco. Dario Fo scrisse per Jannacci dei gioielli assoluti della canzone italiana come Ohe sun chi, Prete Liprando, Ho visto un re. Jannacci lo chiamava maestro. «Poi – aggiungeva – siamo cresciuti e avevamo quasi la stessa età».
E non c’era solo Dario Fo. A costruire il personaggio dà una mano tutta la mitologica Milano di quei pochi primi anni ’60, riunita attorno alle case editrici, alla neonata tv di Corso Sempione e della Fiera, al Il Giorno e alle riviste, a San Siro, alle grandi fabbriche ancora in piedi, a Carosello. Franco Fortini scrive Quella cosa in Lombardia, Qualcosa da aspettare è di Fausto Amodei. Sandro Ciotti firma Veronica, Beppe Viola, anni più avanti, Quelli che. C’è la firma di Marcello Marchesi e Cochi Ponzoni in Ho soffrito per te. L’amico Luciano Bianciardi inventa le note per le copertine dei dischi e invita Jannacci a comparire nella parte di se stesso nella versione cinematografica de La Vita Agra (girata dal romano Lizzani e dal cremonese Tognazzi) – che anzi per «quella» Milano è già un invito alla nostalgia, e che non a caso si chiude con l’ascesa del protagonista bombarolo nel mondo della pubblicità.
Uno Charlot formato Carosello, figlio del Boom e non della Grande Depressione. Una canzone durava poco più di una pubblicità e tutti gli artisti matti potevano campare in quel modo a spese di ragiunatt e cummenda. Jannacci fece le musiche di Unca Dunca per i condizionatori Riello, del pianeta Papalla per i televisori Philco: gli alieni a forma di palla, adorati dai bambini, avevano gli stessi suoi occhiali. Anche in questo sta il mito: tra la Milano dialettale, proletaria, di sciur e terun, di treni e di tram; e la Milano modernista della pubblicità e della televisione, la distanza in quell’attimo di storia è soltanto apparente. I decenni successivi cancelleranno – con le fabbriche – la prima, per lasciare in piedi soltanto le scorie tossiche della seconda, come si sa. A chi visse quegli anni restò il furore, la rabbia, la stessa nostalgia che avvolge come un velo tante canzoni bellissime e note di Jannacci negli anni successivi. «Ringraziatemi da vivo, non da morto, mi da fastidio non poter ricambiare», aveva detto di recente, nel suo solito torrenziale e sconnesso eloquio.
C’era il giovanotto che entrava in una balera con le scarpe troppo grosse e ne usciva accompagnato dai carabinieri per aver chiesto un basin – un bacino – a una signorina (Per un basin, 1964). Quell’altro che andava a Rogoredo a cercare la morosa sparita, e le 10mila lire che le aveva prestato; intanto ‘l vusava ‘me ‘n strascee: “Non mi lasciar!” (Andava a Rogoredo, 1962). Giovanni Telegrafista, che della promessa sposa fuggita in città scopre dopo una vita il matrimonio con un altro (Giovanni Telegrafista, 1968, traduzione dal poeta Cassiano Ricardo). Il palo, sguercio e sordo, della Banda dell’Ortiga (1971). E Gigi Lamera che «prendeva il treno per non essere da meno»: per amore si era fatto licenziare dalla fabbrica ma non aveva il coraggio di dirlo (Prendeva il treno, 1965).
Nei recitativi di certe sue canzoni-teatro ai matti regalava una voce da Paperino. E un gusto beckettiano per tutto l’assurdo del mondo. Era capace contemporaneamente di maneggiare i fili del melodramma neorealista, della canzone-canzone ispirata al jazz, a Brel-Brassens, fino a spezzarti il cuore. Il ragazzino terun attaccato ai tram milanesi di Ohe sun chi, le domeniche operaie di Qualcosa d’aspettare (scritta da Fausto Amodei), la lettera del condannato a morte della Resistenza (Sei minuti all’alba, Dario Fo), l’amara felicità matrimoniale di Ti te se no, dove basta una carezza per sentirsi un sciur che g’ha la radio noeva. E Vincenzina davanti alla fabbrica, ancor oggi di un’intensità quasi insostenibile, e fu colonna sonora di uno dei film più noti di Monicelli, Romanzo Popolare.
Tra la maschera e il volto di Enzo Jannacci, la distanza è sempre parsa brevissima. «Non idoneo a essere presentato come interprete di canzoni», questo fu il responso del primo provino alla Rai-tv. Non senza qualche ragione: si mangiava le parole, sembrava piovuto da chissà dove, nessuno capiva bene se fingeva oppure no. La stessa censura alla radio e alla tv, esercitata per esempio su Ho visto un re nella Canzonissima del ’68, oggi ci appare più kafkiana che scandalosa (Jannacci però ci restò giustamente molto male, e abbandonò per qualche anno canzoni e tv per andarsene a studiare chirurgia in Sudafrica).
Una volta approdato in tv, passato da chissà quale buco nella rete del controllo, apparve insomma al pubblico popolare come uno che riassumeva su di sé il crudele destino dei personaggi che andava raccontando, una specie di tragicomica vittima sacrificale del boom economico e del residuo ottimismo dell’epoca. Fu sulla bocca di tutta Italia la mattina dopo che al festival di Sanremo attaccò «Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale». Era il 1968, quando altro sennò? Vengo anch’io no tu no è un monumento assoluto alla crudeltà umana, l’inno di quelli che non possono venire mai da nessuna parte, anche quando putacaso si facesse la rivoluzione. E la capiscono tutti, anche (soprattutto) i bambini.
Si era diplomato al Conservatorio. Alla fine degli anni ’50 aveva già potuto suonare il jazz e il primo rock’n’roll con tutta la faccia tosta dei suoi compari d’avventura: Giorgio Gaber prima di tutti, Adriano Celentano e persino Luigi Tenco. La maschera venne dopo, tra il 1961 e il 63. Con le prime canzoni dadaiste (L’ombrello di mio fratello), che lui chiamava confidenzialmente schizo; la frequentazione del giro degli strehleriani e l’uso brechtiano del dialetto milanese (Ma mi); la scoperta del cabaret al Derby Club e l’esordio in teatro con la regia di Dario Fo. Regia è troppo poco. Dario Fo scrisse per Jannacci dei gioielli assoluti della canzone italiana come Ohe sun chi, Prete Liprando, Ho visto un re. Jannacci lo chiamava maestro. «Poi – aggiungeva – siamo cresciuti e avevamo quasi la stessa età».
E non c’era solo Dario Fo. A costruire il personaggio dà una mano tutta la mitologica Milano di quei pochi primi anni ’60, riunita attorno alle case editrici, alla neonata tv di Corso Sempione e della Fiera, al Il Giorno e alle riviste, a San Siro, alle grandi fabbriche ancora in piedi, a Carosello. Franco Fortini scrive Quella cosa in Lombardia, Qualcosa da aspettare è di Fausto Amodei. Sandro Ciotti firma Veronica, Beppe Viola, anni più avanti, Quelli che. C’è la firma di Marcello Marchesi e Cochi Ponzoni in Ho soffrito per te. L’amico Luciano Bianciardi inventa le note per le copertine dei dischi e invita Jannacci a comparire nella parte di se stesso nella versione cinematografica de La Vita Agra (girata dal romano Lizzani e dal cremonese Tognazzi) – che anzi per «quella» Milano è già un invito alla nostalgia, e che non a caso si chiude con l’ascesa del protagonista bombarolo nel mondo della pubblicità.
Uno Charlot formato Carosello, figlio del Boom e non della Grande Depressione. Una canzone durava poco più di una pubblicità e tutti gli artisti matti potevano campare in quel modo a spese di ragiunatt e cummenda. Jannacci fece le musiche di Unca Dunca per i condizionatori Riello, del pianeta Papalla per i televisori Philco: gli alieni a forma di palla, adorati dai bambini, avevano gli stessi suoi occhiali. Anche in questo sta il mito: tra la Milano dialettale, proletaria, di sciur e terun, di treni e di tram; e la Milano modernista della pubblicità e della televisione, la distanza in quell’attimo di storia è soltanto apparente. I decenni successivi cancelleranno – con le fabbriche – la prima, per lasciare in piedi soltanto le scorie tossiche della seconda, come si sa. A chi visse quegli anni restò il furore, la rabbia, la stessa nostalgia che avvolge come un velo tante canzoni bellissime e note di Jannacci negli anni successivi. «Ringraziatemi da vivo, non da morto, mi da fastidio non poter ricambiare», aveva detto di recente, nel suo solito torrenziale e sconnesso eloquio.
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