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Narcos: la bellezza di una menzogna

“Un cane ringhia sulla soglia della casa dove alloggio a Guapì. Non l’avevo mai udito ringhiare prima.
Guardo fuori in strada. Ci sono due soldati di pattuglia, armati, con le tute mimetiche di ordinanza.
Mi colpisce il pensiero che quel cane dà voce a qualcosa che molti di noi sentono ma non manifestano.
Che succederebbe se tutti ringhiassimo quando passano i soldati?Un’intera città che ringhia!
Quanto sarebbe appropriato rispondere a tono al ringhio dello Stato, ripetendolo, ringhio per ringhio,
assistendo al suo ingigantirsi nella pienezza di una preistoria biologica. La scrittura, in fondo,
non è che un altro modo per rizzare il pelo sul collo. Quando sei sbattuto contro un muro di foresta,
hai la percezione nettissima di quella cosa chiamata Stato. Per me è più che l’intensificarsi di un’antinomia
che svela qualcosa di nascosto. Per me è storia naturale. E’ storia naturale dello Stato”.

Michael Taussig, Cocaina

 

“Narcos” racconta una storia di gangster con i suoi archetipi. Qui però ad essere incarnato non è il mito della lotta tra il bene e il male. Più realisticamente il racconto configura una lotta tra il male e il “diversamente bene”. Tra il male assoluto e il male relativo. Il narcotraffico da una parte e chi lo combatte mutuandone suo malgrado i modi “sbrigativi” dall’altra. Questo può accadere perché il linguaggio cinematografico di intrattenimento ha ormai superato un certo manicheismo per approdare a una mistificazione più sottile che sembra avvicinarci a una verità superiore quando invece ce ne allontana subdolamente, allo stesso modo in cui ha più capacità di irretirti un moderno e democratico quotidiano rispetto a una “Pravda” sulla cui impostazione redazionale non potevano sussistere dubbi (nomen omen). Fatta questa pedante premessa, la serie non è affatto male. Posto che non sono all’altezza di darne una valutazione estetica, fuorché apprezzare l’evidenza di una splendida fotografia, ritengo che “Narcos” sia una serie che tiene botta per tutte le puntate, che è pensata per proseguire, che si presta senza difficoltà al cosiddetto binge watching – visione continuativa. Per contro ho trovato spesso ridondante se non disturbante la scelta del voice over che è quasi un narratore onnisciente incarnato da un parzialissimo poliziotto della DEA. E qui entriamo nel vivo della critica.

Trattandosi di una serie che è stata addirittura criticata perché concederebbe troppo al linguaggio del docu-film e che utilizza in alcuni punti materiali di archivio siamo senza dubbio di fronte a una scelta di campo: narrare dal punto di vista di un poliziotto della DEA. Non del potere, non degli Usa e nemmeno delle classi dirigenti colombiane (trattate in verità con una certa indulgenza) ma della DEA. Addirittura in qualche modo contrapponendola alla CIA, che in maniera più diretta incarnerebbe i mali e il doppiogiochismo della politica. La DEA è il “diversamente bene”. Gioca duro, gioca sporco ma è come noi bravi cittadini. Vuole il bene. Si contrappone alla politica. Siamo di fronte a una lettura paradigmatica. Una mistificazione che caratterizza un’epoca, tanto più in quei paesi (l’Italia è uno di quelli) dove la magistratura e le forze di polizia hanno, tra le altre cose, condotto una dura lotta contro le mafie o le narcomafie. La politica è zozza e lo stato è debole. Non se ne può più della litania dello stato debole di fronte alla criminalità! Ragionamenti simili farebbero rizzare i capelli in testa a grandi studiosi del fenomeno mafioso: Anton Block, Henner Hess… Studiosi cui si rimproverano in genere alcune cose ma che avevano compreso che le mafie venivano consolidandosi contestualmente alla crescita dell’impresa capitalistica e dello Stato.

Pablo Escobar non viene detronizzato in nome della legalità ma per fare posto al cartello di Cali, storicamente legato al grande latifondo colombiano e all’establishment politico conservatore. I corleonesi in Italia vengono distrutti per frammentarne il potere in più centri: più deboli, più controllabili. La cosiddetta war on drugs è una tecnica di governo tra le altre. In taluni casi la più efficace. La storia di Escobar è quella di un bandito sociale – nell’accezione di Hobsbawm – che vendeva droga, aveva organizzato una banda di paramilitari (il MAS) e che voleva fare il presidente della repubblica. La sconfitta di Escobar apre la strada a un ventennio in cui militari e paramilitari sono indistinguibili, la cocaina è la maggiore fonte di reddito del paese e viene commerciata fin dall’ultimo dei funzionari, il potere politico è essenzialmente il prodotto di ingerenze nordamericane, narcotraffico, sfruttamento capitalistico del territorio. Che ci importa sapere quanto la DEA sia stata usata e quanto invece abbia usato quei processi per rafforzarsi? Conta la razionalità politica che presiedeva a determinate scelte e gli obiettivi che perseguiva. La storia è qui impietosa. Escobar avrebbe potuto restare al suo posto se avesse ceduto qualcosa al cambiamento ma fa l’errore di sfidare il potere perché pensa ancora di essere il potere e non vuole vivere all’ombra del potere altrui.

La mistificazione può celare in taluni casi un meccanismo mimetico. Occorrono allora molte semplificazioni e un capro espiatorio. Le semplificazioni in “Narcos” sono molte quando non sono vere e proprie falsificazioni. Per esempio per l’omicidio di Galan, il campione di una modernità liberale che non arriverà mai a quelle latitudini, è attualmente in galera il diretto antagonista politico di Galan ovvero Santofimio Botero, all’epoca leader di Alternativa Liberal. Sono stati inquisiti i più alti dirigenti di polizia e dell’esercito. Escobar era sicuramente interessato a togliere di mezzo uno che tirava dritto. Ma anche più interessato era quel coacervo di potere e corruttela incarnato dalla tradizionale classe dirigente colombiana: militari, narcotrafficanti, dirigenti politici, latifondisti. In quegli stessi anni, tanto per dire, furono assassinati altri due candidati alla presidenza per la Unión Patriótica: Jaime Pardo Leal nel 1987, e Bernardo Jaramillo nel 1990. La Colombia era scossa da attentati che avevano l’obiettivo di costringere il Parlamento al respingimento della legge sull’estradizione ma anche dai massacri dei guerriglieri, degli indios, dei sindacalisti, di un intero partito politico. Che Escobar fosse il mandante dell’assalto al Palazzo di Giustizia, poi, è una cosa quasi inaudita. Che possa aver finanziato per interessi contingenti l’M19 è cosa da dimostrare ma sarebbe comunque un fatto di tutt’altro ordine. Tra l’altro non ne conseguirebbe in alcun modo la descrizione caricaturale che nella serie viene data di una formazione armata non marxista che aveva strategia e obiettivi politici precisi. Come dicevamo, di semplificazione in semplificazione e di falsificazione in falsificazione si arriva al capro espiatorio: Pablo Escobar, immolato sull’altare di una ricostruzione storica che assolva i vivi e lasci in pace i morti, purché siano usciti vittoriosi dal tritacarne della storia. Siamo di fronte a una narrazione che snobba la carne e il sangue delle vittime del processo storico che griderebbero troppo forte per non complicare il quadro. Così, si può tranquillamente dire che gli Usa abbiano giocato sporco in Colombia; meno agevole è raccontarne i risvolti materiali: i desplazados, le torture, gli omicidi efferati, le fosse comuni. Si può dire che non attenessero alla narrazione ma anche il contrario. Questione di scelte. Questione di posizioni.

 

Abbiamo voluto aggiungere alla nostra riflessione il contributo di Cristina Vargas, antropologa colombiana da molti anni a Torino, registrato questa mattina in diretta ai microfoni di Radio Blackout

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da: http://radioblackout.org

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