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Perché crollano le banche? Quando la crisi bussa col conto

Al centro delle preoccupazioni la bomba: 350 miliardi di crediti deteriorati che tichettano nei forzieri numerici degli istituti. Un’enormità che corrisponde al 17,1% del PIL italiano e che, soprattutto, si situa ben al di sopra della media europea. Secondo i dati dell’EBA, se nell’UE i crediti spazzatura sono il 5,6% del totale, l’Italia si attesta su una media del 16,7%, con punte 32% proprio al Monte dei paschi. I 350 miliardi sono divisibili in “incagli” (150  miliardi) e “sofferenze” (200 miliardi) secondo una distinzione manierista tra soggetti insolventi temporaneamente o in maniera definitiva (tanto la luce è sempre in fondo in tunnel…). In teoria sono crediti che dovrebbero essere acquistati da una bad bank appositamente creata per fungere da pattumiera dove buttare questa bomba che continua a crescere (+ 2 miliardi rispetto al mese d’ottobre scorso secondo i dati diffusi oggi dall’ABI) e che rischia di creare ogni giorno di più un fuggi fuggi generale al primo (foss’anche falso) campanello di allarme.

Il condizionale è d’obbligo perché, nonostante i quasi 380’000 euro di soldi pubblici che si è intascata la Boston consulting per i suoi consigli in materia, le trattative tra governo italiano e Bruxelles sulla creazione della bad bank sembrano ancora essere in alto mare contribuendo ad alimentare nervosismo. Pesano inoltre sui mercati diversi fattori.

Il primo riguarda l’incertezza sul reale valore del pattume: quanto valgono effettivamente i crediti deteriorati? Gli istituti italiani li hanno iscritti in media al 44% del valore nominale ma il decreto salvabanche del dicembre scorso ha valutato le esposizioni di Banca Etruria & co a soltanto il 17%. Una differenza non da poco sapere se 200 miliardi di sofferenze ormai ne valgono 88 o soltanto 34.

Il secondo concerne proprio gli effetti, diretti e indiretti, del “decreto Salvabanche” di dicembre e delle disastrose conseguenze della normativa bail-in. Al di là dei balli degli sciamani del rating del credito privato, ciò che conta è la percezione del rischio da parte dei risparmiatori. Ed è ovvio che le gesticolazioni di fine anno di Renzi & soci non avrebbero ridato fiducia al più credulone degli obbligazionisti: chi sa che ormai si ritroverà col culo per terra con le nuove norme di salvataggio europeo sta correndo ai ripari vendendo i propri titoli. L’abbandono dei bond bancari da parte della famiglie segue una traiettoria di medio periodo che continua dal 2012 a ritmo serrato e solo rispetto a l’anno scorso si contano 57 miliardi di bond in meno. Ma i dati non prendono ancora in conto proprio l’effetto Banca Etruria che sembra essere più che importante: le prime sedute dell’anno sul mercato delle obbligazioni subordinate sono state catastrofiche e hanno accellerato vertiginosamente questo trend già avviato.

In più ci sono le “tensioni” tra il governo italiano e Bruxelles. Il premier ha ormai capito che nel contesto della decomposizione dell’UE e dell’anti-europeismo crescente deve fare un minimo di voce grossa con la commissione se vuole restare a galla. Semplici boutade contro Junker a favor di telecamere che però stanno costando care a Renzi che, c’è da star sicuri, risponderà prima di subito ai sacrosanti appelli alla responsabilità europea.

Ma l’analisi della cause contingenti e le retoriche della truffa rischiano di occultare il dato di fondo. La crisi del settore creditizio è il conto, dilazionato, di una stagnazione dell’economia italiana che dura ormai sostanzialmente dall’inizio degli anni 2000 a cui si aggiunge un mercato immobiliare il cui valore non fa che scendere dal 2007. Lo sfasamento tra facilità dell’accesso al credito (ovviamente, per alcuni…) e perdurare della crisi si ripercuotono inevitabilmente sulle esposizioni delle banche. Nel magico mondo degli zerovirgola dei nostri governanti la ripresa è arrivata, garantita dalla deregolamentazione del mercato del lavoro e dai regali fiscali agli imprenditori. Peccato che, anche a voler prendere per buone le ottimistiche previsioni degli yesmen renziani, di ciò che della crisi si è lasciata dietro nessuno si è preoccupato. Un atteggiamento che era possibile fino a quando le conseguenze si facevano sentire solo su disoccupati, senza casa, piccoli subfornitori falliti e precari. Ora che si ripercuotono sugli attivi delle banche, i nodi vengono al pettine, a riprova del fatto che viviamo in una sistema in cui le sofferenze bancarie verranno sempre prima di quelle delle persone.

Sullo sfondo un economia mondiale bloccata. L’inflazione (e i consumi) in Europa non ripartono nonostante i migliaia di miliardi di euro regalati a costo zero alle banche col quantitative easing; l’economia cinese è al minimo storico dopo 25 anni ed evidentemente non riesce a far virare il transatlantico verso i consumi interni come vorrebbero i dirigenti di Pechino; l’aumento dei tassi della FED sta avendo forti ripercussioni su alcuni paesi emergenti che avevano massicciamente preso a prestito dollari praticamente gratis fino a qualche settimana fa; della guerra dei prezzi sul petrolio si vedono solo gli effetti negativi dell’economia dei paesi produttori e sull’inflazione senza che il consumo aumenti di alcunché vista la mancanza di reddito sempre più diffusa anche nei grandi poli occidentali. Le disuguaglianze intanto galoppano con sessantadue  esseri umani che posseggono ricchezze tali da pareggiare quelle dei 3,5 miliardi di persone più povere del pianeta, a riprova che chi sta sopra non conosce crisi.

Il minimo sarebbe una bella rivoluzione potrebbe pensare qualcuno…

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