Anno 16 dopo Genova: in fuga dalla prigione della memoria
“In questi sedici anni non si è riflettuto a sufficienza”, il capo della polizia Gabrielli esordisce così in un’intervista che campeggia in apertura su Repubblica e che occupa poi le prime due pagine interne del quotidiano: “il G8 di Genova fu una catastrofe”.
Se le gioca tutte, lo sbirro. Tira in ballo il valore dell’autocritica inseguendo il senso comune. Come si dice di solito? “Vedete, un uomo di potere è all’altezza del suo ruolo se ammette i suoi errori”, “se davanti a una cattiva gestione ci si dimette, ne va della credibilità delle istituzioni”… “al posto di De Gennaro mi sarei dimesso”, fa rima alla vox populi Gabrielli.
I più onesti sbotteranno contro l’ipocrisia, i più ingenui apprezzeranno. Noi vorremmo dire che siamo stanchi della loro ossessione. Genova fu una sfida collettiva, risolta in una battaglia e in una sconfitta. Non la fiera dei carnefici su vittime inermi. A sedici anni di distanza la ferita che resta aperta è prima di tutto quella dello strappo tra polizia italiana e compatibilità democratica. Questo proccupa chi sta a presidio delle istituzioni o chi crede alla dialettica politica da queste articolata. Allora quel velo strapppato va ricucito alimentando il rammarico per la macelleria, la condanna dei comportamenti “sopra le righe”della polizia impazzita, la condanna della catastrofe. Certo, ci fu violenza ed efferatezza, ma soprattutto come verità disvelata dentro un conflitto, quello dello scontro delle giornate di Genova. È questo ciò che va rimosso per ricucire lo strappo: la resistenza, la risposta, la battaglia che ci fu attorno alla rappresaglia poliziesca.
È il labirinto della memoria dove la rincorsa a ristabilire una credibilità del gioco democratico a tutela dell’ordinarietà dei rapporti di potere vigenti si accompagna alla costruzione delle vittime degli eccessi della polizia e della loro (e nostra) impotenza come eredi di una sconfitta. Tanti dirigenti di polizia hanno fatto carriera su Genova. Non insistiamo neanche troppo su questo dato che ratifica un meccanismo normale in ogni corpo di servizio: chi rischia merita la promozione. Perché questo è in fin dei conti l’altro lato delle violenze poliziesche a Genova: oltre la sevizia ci fu il suo uso per ribaltare un equilibrio saltato. Corsero il rischio di farla grossa ma per averla vinta. Insomma, gira e rigira, lo dice anche Gabrielli: “a Genova saltò tutto, a partire dalla capacità – anche da parte del Movimento lamenta il capo della polizia – di poter in qualche modo governare e garantire per l’intera piazza”. Questa facoltà andava ristabilita.
Il fantasma di Genova per i tutori dell’ordine è il timore del ritorno di questa minaccia smarrita, l’eventualità che un governo di quella e di ogni contestazione saltasse. Per cacciare i nostri di fantasmi bisogna tornare a riconquistare la carne dei loro fantasmi, iniziando a non essere le figurine delle vittime nella scatola di ricordi di Gabrielli. Il resto è memoria collettiva, rabbia inestinta, volontà di rinnovare la sfida.
A Carlo e a tutti i resistenti di quella battaglia
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