
Israele arma l’Isis a Gaza. Alcune riflessioni sulle forme storiche della resistenza
Non si è prestata sufficiente attenzione ad una notizia che sta circolando negli ultimi giorni da diverse fonti: Israele starebbe fornendo armi ad una banda criminale legata all’Isis all’interno della Striscia di Gaza.
La gang capeggiata da Yasser Abu Shabab avrebbe stabilito una base fortificata in una zona di Rafah controllata dall’esercito israeliano. Abu Shabab è noto per i suoi legami con l’ISIS. La sua banda criminale sarebbe coinvolta nel saccheggio di aiuti sotto la protezione di Israele. L’anno scorso, The New Arab ha riferito che Abu Shabab, tra gli altri, lavorava insieme a centinaia di criminali sotto la protezione delle forze di occupazione israeliane vicino al valico di Kerem Shalom, il principale punto di ingresso per i convogli di aiuti. Proviene dalla tribù beduina dei Tarabin, che si estende dal Sinai al sud di Gaza e al deserto del Negev, ed è stato identificato in una nota delle Nazioni Unite come “la principale figura influente dietro il saccheggio diffuso e organizzato” dei convogli di aiuti a Gaza. Adesso la sua gang si presenterebbe come una forza di sicurezza che afferma di proteggere la limitata assistenza umanitaria che entra nella Striscia con tanto di uniformi e armi da guerra.
L’opposizione israeliana ha denunciato alcuni giorni fa che il governo sionista sta fornendo armi e finanziamenti alla gang di Abu Shabab con l’obiettivo di creare una milizia da opporre ad Hamas all’interno della Striscia. Israele non è nuovo ad operazioni di questo genere: già Hamas a suo tempo aveva goduto di finanziamenti israeliani transitati attraverso il Qatar. La logica di Israele era quella di sostenere segretamente il principale competitor dell’OLP e di Fatah all’interno della politica palestinese per sabotare la leadership del tempo. Un’evoluzione di quanto gli USA avevano applicato in Afghanistan durante l’invasione russa, con flussi di denari ed armi verso i talebani, ma con alcuni elementi di novità. Per Israele non si trattava di finanziare una resistenza autoctona (qualunque essa fosse) contro un nemico esterno, ma di impedire che il popolo palestinese fosse rappresentato da un quadro politico unitario e che le lotte interne alla resistenza indebolissero la sua capacità di opporsi alla colonizzazione ed al regime di apartheid.
L’operazione ha funzionato per un certo tempo: le lotte intestine alla politica palestinese, il progressivo allontanamento tra la Cisgiordania amministrata da Fatah e la Striscia di Gaza controllata da Hamas, le divisioni sugli accordi di Oslo e la conseguente semplicità con cui Israele ha potuto disattenderli completamente senza una risposta interna ed internazionale, la progressiva mutazione dell’ANP in una burocrazia corrotta e complice dell’occupazione; tutti questi elementi hanno garantito a Israele di portare avanti pressoché nel silenzio la sua lunga campagna di pulizia etnica e disciplinamento biopolitico nei confronti del popolo palestinese.
Ma il governo israeliano non aveva considerato due elementi fondamentali: in primo luogo Hamas non era semplicemente un partito islamista, ma come chiarisce Paola Caridi nel suo libro a fianco del revival religioso ad essere centrale era il nazionalismo palestinese, in molti casi più importante della cornice religiosa in cui era collocato. Inoltre molti militanti di Hamas venivano da altre formazioni della resistenza palestinese da cui erano rimasti delusi, portando con sé il proprio bagaglio di esperienze e visioni. In secondo luogo Israele ha sottovalutato un aspetto fondamentale: a prescindere dalle “forme esplicite” che prende un movimento come quello generale della resistenza palestinese, le “forme implicite” si continuano a muovere sotterranee condizionando quelle “esplicite” esistenti o/e generandone di nuove alle date condizioni oggettive e soggettive in cui il movimento si trova a muoversi. Non a caso Hamas si è sempre preoccupata di curare la dialettica tra il ceto politico, l’organizzazione e la popolazione palestinese più in generale consapevole della parabola delle formazioni precedenti. Ancora Paola Caridi sottolinea il cambiamento di lessico nel percorso politico di Hamas, dove da una prevalenza dei temi religiosi si è passato via via a l’utilizzo più frequente di categorie, come quella del colonialismo, dell’occupazione e del sionismo tipiche del nazionalismo palestinese. Hamas è stata in un certo grado un veicolo in cui si è coagulata in forme esplicite differenti a seconda delle diverse fasi una parte consistente del programma palestinese contro l’occupazione. Non è possibile ad oggi capire quale sarà il destino di Hamas, e se ci sarà, ma ciò che pare certo è che la resistenza palestinese troverà nuove forme, nuovi lessici, nuove prospettive che si tradurranno in forme storiche nuove o vecchie, ma sicuramente differenti rispetto alla fase precedente.

Il finanziamento alla gang di Abu Shabab, anche se apparentemente può ricordare quanto accaduto con Hamas, è qualcosa di radicalmente differente. Questa formazione appartiene alla tradizione degli accaparratori, quel mefitico fenomeno che durante i periodi di guerra attraverso la violenza e il controllo armato estrae profitto dalla rapina e dall’accumulo di risorse che dovrebbero essere destinate alla popolazione assediata. E’ tra le più vomitevoli forme di accumulazione che per sua natura è immediatamente “contro” il proprio popolo. L’obiettivo di Israele nel sostegno a questa gang è quello di rompere la solidarietà di una popolazione assediata e imporre una rigida gerarchia della fame che conduca i palestinesi di Gaza ad un individualismo armato e ad una lotta di tutti contro tutti per la sopravvivenza. L’altra evidenza che emerge ancora una volta è che l’Isis e le formazioni ad esso associate sono di fatto una pedina degli USA ed Israele in ogni scenario in cui si trovano. Un “partito dell’ordine” che si basa sulla sopraffazione, la rapina e la violenza utilizzato per spargere kaos e divisione nella regione. Che si tratti della Siria, dell’Iraq o della Palestina la loro funzione è quella di rompere ogni vincolo solidale ed impedire ogni itinerario di emancipazione imponendo la legge del più forte con il beneplacito dei propri padrini, che a tempo debito li molleranno per riprendere il controllo. Le forme esplicite del Califfato, della minaccia all’Occidente non sono altro che uno specchietto per le allodole, di cui da tempo sono consapevoli in molti nei territori dove si muovono queste formazioni. La gang di Abu Shabab così come le altre bande associate all’Isis sono delle forze controrivoluzionarie. Per questi motivi è fondamentale osservare i fenomeni non solo nelle loro forme esplicite, ma nei loro contenuti impliciti, nei rapporti materiali che li sostengono.
Infine, se ce ne fosse bisogno, la complicità di questa gang con Israele si inserisce nella tradizione dei sistemi coloniali, dove, secondo determinati interessi di classe, una parte della popolazione viene cooptata dall’occupante per porsi a garanzia della continuità delle gerarchie coloniali. Abu Shabab o chi per lui nella visione israeliana si candida ad essere l’interlocutore che una volta ripulito potrà rappresentare a favore di telecamera il volto “dialogante” della politica palestinese.
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