
Israele, oltre Israele
Ovvero di come dentro la democrazia borghese risieda il seme della barbarie.
Ora che la pulizia etnica della Palestina è ormai apertamente dichiarata, si levano alcune timide voci nello Stato d’Israele così come nel resto dell’Occidente che condannano l’operato del governo Netanyahu dopo averlo difeso indefessamente per anni. Cosa è cambiato? Nulla, la strategia degli israeliani è da tempo quella del genocidio. Lo è stata da prima del sette ottobre, se pure in delle forme meno apertamente brutali: la trasformazione della Striscia di Gaza in una prigione a cielo aperto, l’azione dei coloni in Cisgiordania, il controllo materiale e biopolitico su ogni aspetto della vita della popolazione palestinese non sono altro che le premesse del massacro in corso.
Le voci che si levano oggi, più che un improvviso risveglio, sembrano ben che vada un tentativo di lavarsi la coscienza. Ma più che altro, ancora una volta, vorrebbero fare dei distinguo tra un presunto progetto sionista “buono” e una sua degenerazione incarnata da Netanyahu e dall’ultradestra israeliana. Il punto è che l’azione del governo sionista sta mostrando al mondo la vera natura del regime colonialista, sta incrinando ulteriormente la narrazione sulla presunta superiorità del modello democratico borghese ed occidentale.
Giungono le notizie degli spari a Jenin contro una delegazione diplomatica composta da 25 ambasciatori europei, arabi, cinesi, giapponesi, indiani e di altre parti del mondo giunti in Palestina per verificare le violazioni dei diritti umani dei palestinesi da parte dell’IDF. Si leva forte l’indignazione nelle cancellerie europee, ma questa è solo l’ennesima violazione del diritto internazionale da parte d’Israele. Anche in questo campo la strage di Gaza ha dimostrato che il diritto internazionale vale solo quando può essere usato come una clava dai paesi occidentali, ma non significa nulla quando a rivendicare i propri diritti sono le popolazioni oppresse.
Il governo di Netanyahu prova a giocare la sua partita fino in fondo trascinando de facto l’amministrazione Trump e l’apparato Usa, in buona parte compiacente, nel pantano di una situazione di guerra senza un obiettivo preciso, se non la pulizia etnica della Striscia di Gaza. Ma ben oltre Israele prepara già le sue prossime mosse. Il sabotaggio dell’accordo Stati Uniti-Iran è parte di questa strategia, come anche il lancio alle ortiche di un possibile accordo Usa-Hamas in cambio della liberazione degli ostaggi. La carta della “soluzione finale” sembra essere ormai la cruda realtà di oggi, ennesimo passo di un genocidio che porta con se la creazione di un nuovo modello di controllo per la società capitalista. Gaza o quel che ne resta, vuole essere ristrutturata secondo una strategia di pianificazione tutto volto ad impedire qualsiasi forma di resistenza. Forme di annientamento, come elevare a bersaglio privilegiato l’infanzia e la maternità, sono parte di questa strategia complessiva.
Il Re è nudo, ciò che sanno bene all’interno del governo israeliano è che questa è una biforcazione chiave del progetto sionista. Qualsiasi alternativa ad una politica imperialista, colonialista ed espansionista in Medio Oriente in nome del Grande Israele significa la fine del sionismo nelle sue forme storiche. Cedere significherebbe dover riconoscere le cause sistemiche che hanno portato al sette di ottobre, accettare che i palestinesi abbiano dei diritti, una soggettività. Il genio è ormai uscito dal vaso e l’unico itinerario disponibile che hanno i sostenitori del sionismo è quello della guerra permanente per il predominio nella regione. A meno di sconvolgimenti interni di portata significativa, o di una rottura effettiva tra gli Stati Uniti ed Israele (che per la politica USA nella regione a lungo termine potrebbe risultare una variabile impazzita) la guerra con l’Iran non è questione di se, ma di quando, e dopo quella, ammesso che ci sia un dopo, chissà quanti altri “quando”.
Non bisogna cadere in errore, quella di Israele non è una “eccezione”, ma è una dinamica che caratterizza, con differenze di intensità e pervasività, la fase di crisi delle democrazie borghesi. Lo stato sionista è giunto prima al completamento di questa parabola perché il suo sistema di sviluppo si basa interamente sul colonialismo interno ed il sistema di apartheid, ma anche i paesi dove questo rapporto è esternalizzato, totalmente o in parte, stanno lentamente ed inesorabilmente scivolando sulla china della barbarie. Le strategie di annientamento, di disciplinamento biopolitico, con il ricatto della sete e della fame, delle popolazioni ribelli o “eccedenti” si esprimono in tutta la loro brutalità a Gaza, ma si presentano in forme edulcorate qui da noi già oggi: senza fare paragoni impropri misure come il daspo urbano per limitare l’accesso alla città che conseguenze hanno se non creare dei ghetti? Imporre che le opere di messa in sicurezza del territorio in Val di Susa rientrino nelle compensazioni del TAV che i comuni sono obbligati a firmare cos’è se non un ricatto nei confronti della possibilità di vita sui territori? Forse è anche per questo che la causa palestinese risuona nei cuori di così tante e tanti in tutto il mondo.
Tutto ciò avviene di fronte a fenomeni sociali e conflitti che neanche lontanamente ricordano l’intensità di altri periodi della storia recente.
In questo cielo tetro però si intravedono segnali positivi: una gran parte della popolazione non si beve più le narrazioni della politica e dei media quando si parla di Palestina ed esercita un proprio punto di vista autonomo. In questo caso, come in quello della guerra in Ucraina non è bastato il bombardamento mediatico, la distribuzione di patenti di filorusso o l’uso spregiudicato della categoria di antisemitismo per ricondurre l’opinione pubblica dentro gli steccati. La distanza tra chi comanda e chi subisce si allarga sempre di più, alcuni iniziano ad accorgersene e cercano di correre ai ripari con posizionamenti dell’ultimo minuto, privi di credibilità e profondità politica. Si va formando lentamente tra gli oppressi un nuovo senso comune internazionale che forse può maturare a lungo andare in un nuovo internazionalismo.
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