Con Moustafa
Ieri lo stato italiano ha firmato una pena esemplare sulla pelle abbronzata di un ragazzo incensurato, egiziano, di 22 anni. 4 anni e 8 mesi per Moustafa Elshennawi. Colpevole di resistere.
Fino al 10 febbraio del 2018 Moustafa era un lavoratore della logistica, un facchino iscritto al sindacato Si Cobas, consapevole, come tanti suoi colleghi, che solo con la lotta un lavoratore immigrato può sopravvivere nel ginepraio delle cooperative rosse, bianche e a pallini, in cui vige un regime di sfruttamento tale per cui l’arbitrio dei capetti è destinato a vincere se non ci si organizza e si lotta uniti contro quel sistema. Moustafa, a 20 anni, deve mantenere la sua famiglia, un padre e una madre disoccupati, un fratello e una sorella minorenni e un’altra sorella, solo col suo stipendio da facchino. Abita in una casa umida e malsana nella bassa pavese, dove paga 400 euro al mese ad un padrone che a un certo punto decide di sfrattarlo, forse perché non paga l’affitto. Forse lui, come tanti, si è trovato davanti alla fatidica scelta. Di solito è un padre di famiglia a dover decidere se dar da mangiare alla famiglia, comprare le scarpe, i vestiti, le medicine oppure pagare l’affitto. Questa volta è toccato a un ragazzo di vent’anni. E così è arrivato l’ufficiale giudiziario con un’ingiunzione di sfratto che Moustafa non ha voluto firmare, forse perché non comprendeva cosa ci fosse scritto o forse perché aveva capito che le carte timbrate sono sempre grane per quelli come noi, per quelli come lui. Non si può certo dire che Moustafa abbia molti motivi per avere fiducia nelle istituzioni. Ha vent’anni, ma già ne ha viste tante, compresi gli assistenti sociali che gli hanno portato via il fratello di 15 anni per rinchiuderlo in una comunità, col pretesto che fosse stato abbandonato dalla famiglia, mentre in realtà era con lui. Sa che neanche le forze dell’ordine non sono amiche di quelli come lui. Le ha viste, ne ha sentito parlare. Pestano lui e i suoi colleghi nei tanti picchetti durante gli scioperi che hanno costellato i magazzini della Bassa in questi anni. Sa che difendono il padrone e non i lavoratori che lottano per i propri diritti.
A Piacenza, il 10 febbraio, durante un corteo contro l’apertura della locale sede di Casa pound, vede le forze dell’ordine contrapporsi a lui e ai suoi compagni per difendere i nemici di quelli come lui. Quei razzisti che, nelle notti brave, rincorrono i ragazzini con la pelle nera, o caffellatte, minacciando di volerli smacchiare. Sicuramente ha sentito parlare, Moustafa, di quello che ha fatto un fascista razzista a Macerata pochi giorni prima e, possiamo immaginare, che quel “toccano uno tocca tutti” gli sia risuonato nella testa e gli abbia fatto capire che se un bianco spara a caso su dei cittadini neri e poi si avvolge nel tricolore, i tempi non sono belli per lui e per quelli come lui.. Non deve essere stato difficile, per lui, scegliere da che parte stare, anche perché i fronti erano già fatti. Come sempre. Per un ragazzo di vent’anni che ha già sperimentato la brutalità del sistema fa poca differenza un fascista o un padrone o un pubblico ufficiale. Un attimo che e una giovinezza buttata nel cesso a un egiziano immigrato che già in partenza non aveva niente da perdere. Cosi ha deciso il giudice, accogliendo in pieno le istanze del PM. Il sistema penale e la sua violenza sono innanzitutto questo. Creare equivalenze. Una bilancia. Loro vogliono pesare? E allora pesiamo anche noi. Su un piatto, i 4 anni e 8 mesi per Moustafa Elshennawi, colpevole, nel tentativo di raggiungere la sede di un partitino neo-fascista, di aver colpito un carabiniere ruzzolato per terra mentre i colleghi se la davano a gambe. Qualche acciacco e l’encomio del ministro dell’interno. Sull’altro, i 3 anni e 6 mesi di reclusione per Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri, i quattro poliziotti colpevoli di aver ammazzato di botte, poco lontano, qualche anno prima, un ragazzo poco più giovane di Moustafa, Federico Aldrovandi. Una bara e una vita che non tornerà mai.
Chi ha la memoria corta potrà anche dire che la sentenza esemplare di ieri è tutta colpa di Salvini, ma noi non dimentichiamo che i dispositivi a protezione di tutte le adunate fasciste dello scorso febbraio sono stati comandati e voluti da Minniti, da quel democratico che in molti già rimpiangono, quel democratico che oggi, insieme ad altri democratici, grida all’avvento del governo giallo verde di fascisti, dimenticando che l’agibilità politica agli amichetti di Centinaio e del felpa l’hanno data proprio loro.
Non si sente, infatti, ancora nessuna voce “democratica” indignarsi contro quest’uso spregiudicato della legge, oggi che un tribunale è diventato sede di regolamento di conti tra un ragazzino egiziano e lo stato italiano. Oggi che il grande Minotauro non si è fatto scrupolo di sbranare vita e libertà di Moustafà… tanto per quello che conta. Oggi che ci tocca rispolverare persino un conservatore come Cicerone. Summum ius, summa iniuria, diceva Cicerone. È il paese dei cambi di casacca da capogiro, dei coccodrilli che fino a un minuto prima hanno sbranato i loro figli.
E poi diciamocelo, Salvini o non Salvini, Moustafa era il capro espiatorio perfetto per un delitto imperfetto. Negher, sindacalizzato, forse anche antifascista, violento contro le forze dell’ordine. Il mostro giusto da sbattere in prima pagina. Una nuova versione del black bloc, di quella strana specie odiata tanto a destra quanto a sinistra che va a portare scompiglio tra i bravi manifestanti democratici antifascisti. Black non per la bardatura, ma per il colore della pelle, perché, non lo dimentichino i giudici, Moustafa era a volto scoperto in piazza, la sua pelle era l’unica cosa che copriva la sua faccia. È forse quella una delle sue colpe principali, assieme alla sua rabbia.
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