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CONTROPOTERE NELLA CRISI – reddito, soggettività, aut/organizzazione

La temperatura politica del paese sembra congelata da un governo di larghe intese in grado, perlomeno in questa fase di passaggio, di normalizzare e governare le incrinature che si erano manifestate sul piano elettorale. Lo stesso M5S, alla prova dei fatti, ha mostrato di aver paura più di una piazza arrabbiata che del sistema dei partiti. I sussulti di chi sta in basso non mancano ma si esprimono in gesti individuali di disperazione piuttosto che nella ricerca di una soluzione comune di lotta.

Le illusioni di entrare in un periodo di “instabilità” sono state bruscamente cancellate dalla capacità d’azione di professionisti della Politica che assumono consapevolmente la frattura prodottasi tra questa e la restante Società, perseguendo con chiarezza i propri interessi di parte, sacrificando il consenso alle necessità sistemiche di governabilità e tenuta delle istituzioni. Se gli elettori diminuiscono, la Politica risponde che si può benissimo governare con la metà degli aventi diritto, come insegna il modello anglo-sassone. Questo il non-plus-ultra che la Democrazia può offrire al momento! Il passaggio in corso, verso un’esplicita governance tecnocratica, penalizza tanto la Destra quanto la Sinistra – entrambe un freno per la velocità di valorizzazione – ma è quest’ultima che sembra soffrire maggiormente della perdita dei propri  punti di riferimento. Si assiste così all’affannosa ricerca del “nuovo” in ceti politici vecchi che non trovano di meglio che continuare ad appellarsi alla Costituzione formale del 1948, costruita su un patto sociale tra Lavoro e Capitale che non corrisponde più ai rapporti di forza e alla materialità dei bisogni odierni. Anche chi blatera di una “Costituente dei beni comuni” come nuovo orizzonte politico per la ricostruzione di una sinistra che si vorrebbe all’altezza dei tempi, sembra dimenticarsi troppo disinvoltamente che, in fondo alla strada, c’è sempre un guardiano che vigila sull’applicazione delle misure europee di turno. Sembrano scordarsi che i processi attraverso cui si valorizza oggi il Capitale necessitano di una velocità di applicazione e una violenza di espropriazione che non può stare dietro alle pastoie burocratiche e parlamentariste.

Le mediazioni politiche e sociali che regolavano ieri lo scambio tra Capitale e Lavoro sono oggi un limite per questo processo infinito e interminabile: una vecchia legge, un diritto pensato come acquisito per sempre, consuetudini di vita tollerate e su cui un tempo si chiudeva un occhio per governare senza troppe turbolenze sono altrettanti ostacoli da rimuovere. Questo non significa che gli apparati che presiedevano ieri a questo scambio siano del tutto inutili oggi. Il recente accordo tra Cgil-Cisl-Uil, Confindustria e Governo – che sancisce di diritto l’ineleggibilità dei delegati scelti in basso e l’esclusione dal tavolo delle trattative dei sindacati potenzialmente conflittuali – è l’esempio lampante di quale ruolo possono ancora avere quegli istituti: farsi soggetto attivo ma subordinato di una cogestione sindacato-padronato, rinunciando a qualunque ipotesi di difesa di interessi contrastanti. Non si tratta del tradimento dei confederali, che non hanno fatto altro che evolvere linearmente su una prospettiva tracciata da tempo. Qui è la strategia della Fiom (e del mondo che ad essa guarda) che si mostra in tutta la sua miopia strategica: questa pretesa fuori tempo massimo di confinare ai tecnicismi della rappresentanza sindacale la portata di ogni conflitto; l’ostinazione con cui s’ignora il mondo del non lavoro e il dibattito sul reddito; l’incapacità di allestire una comunicazione paritaria con i movimenti. La questione dei rapporti di forza fuori e dentro il lavoro, si risolve nel problema ridotto (e padronale) di governance dentro il mondo del lavoro. Ignorando che la piazza e le sue turbolenze restano una variabile indipendente che andrebbe più consapevolmente utilizzata come risorsa strategica.

 

Cambiare prospettiva

 

Qualche segnale in contro-tendenza arriva, non a caso, da un pezzo di mondo del lavoro da sempre al di fuori delle protezioni confederali. Il recente ciclo di lotta sulla logistica ha aperto spiragli interessanti perché, se al centro della contesa ci sono le istanze di sempre (paghe, ritmi, diritti sindacali), i comportamenti di questo peculiare segmento di classe hanno rimesso al centro l’odio per i padroni e il bisogno di ottenere qualcosa in più di una giusta misura dello sfruttamento. Altro dato importante, si è assistito ad un uso operaio del sindacato, laddove l’ennesimo sindacato di base ha funzionato negando  il proprio ruolo di rappresentanza e supplenza delle lotte, mettendosi invece al loro servizio. Non sappiamo quanto questa lotta possa rappresentare un effettivo modello di ricomposizione complessiva della classe ma registriamo intanto che, per la prima volta dopo molti anni, si è esplicitato e praticato l’interesse di una parte, attirando a sé altri pezzi della composizione sociale proletaria e precaria.

A partire da queste considerazioni ci sembra che la questione dell’accesso al reddito debba essere radicalmente ripensata, provando ad andare oltre la litania del “reclaim” quanto del rifiuto di principio di un qualsivoglia livello vertenziale. Non si risolve una questione tanto profonda e spinosa pretendendo di aggirarla con petizioni ideologiche che contrappongono sterilmente reddito a salario. Su questo punto non abbiamo soluzioni pronte in tasca ma la questione, ci sembra, debba essere ripensata in termini più generali, ponendo in termini sociali e culturali prima ancora che politici la questione della ricchezza e della sua ripartizione contro la presunta priorità del lavoro. Cosa significa oggi rendere produttivo il lavoro, se il termine di paragone è il costo di un operaio in Cina o nelle Filippine? Qual è il ruolo dello Stato quando una quota consistente della popolazione è pensata come eccedenza e costo?

Dobbiamo allora individuare non solo i nemici dichiarati (Bce, Fmi, governi dell’austerity) ma anche i falsi amici. Alcune frazioni del capitale sono oggi in disaccordo sulle strade da intraprendere. Agli integralisti del pareggio di bilancio si alternano – un po’ più in basso nella gerarchi sistemica – quelli che vogliono affidare al solo mondo del lavoro il compito di portare il paese fuori dalla crisi. Su una cosa sono però tutti d’accordo: schiacciare sempre più in basso il costo della forza-lavoro, renderla iper-produttiva (innanzitutto di se stessa) e disciplinarla alla competitività ferina del tutti contro tutti. Ogni spazio residuo di socialità deve essere reso produttivo attraverso il consumo; bisogni e desideri collettivi vanno sottomessi alla spietata logica della loro realizzazione monetaria; la cooperazione sociale va valorizzata ma sotto una ben precisa guida; se esprime autonomia e fini suoi propri, divergenti da quelli del capitale, va smembrata e ricomposta altrimenti.

Proprio quando il neo-liberismo mostra i suoi limiti, mancando alle proprie promesse fondate sull’ideologia dell’individuo proprietario, il capitalista collettivo raddoppia la posta, mostrandosi ancora capace di egemonia discorsiva: la colpa è sempre dei proletari che vivono al di sopra dei loro mezzi; un territorio vivibile e uno spazio urbano pubblico sono un lusso che non ci spossiamo permettere; la privatizzazione di tutto il vivente è una necessità dello “sviluppo” ecc. Il ritornello meritocratico, pur denso di ambivalenze alle nostre latitudini, gioca qui il suo ruolo pernicioso perché naturalizza la dimensione storicamente determinata del capitalismo. “Merito”, “lavoro”, “solvibilità”, “competitività”, “produttività”, “interesse generale” sono le parole con cui si organizza un discorso a noi nemico.

Se queste sono le (finte) alternative, il nostro compito non è quello di pensare alla migliore uscita dalla crisi entro le coordinate di questo sistema quanto organizzare la minaccia potenziale che di questo sistema e delle sue coordinate potrà e vorrà un giorno fare a meno. Non è affar nostro pensare alla migliore legge per un reddito di miseria ma è nostro interesse tessere le fila di quel tot% che non ha già da oggi reddito e prospettive accettabili. «Un tempo più che di dialettica capitale/lavoro si parlava opportunamente di una dialettica aperta capitalisti/proletari». Ripartiamo da qui!

 

Su chi puntiamo… e come?

 

Un’ipotesi forte deve prendere corpo intorno al soggetto giovanile come portatore di bisogni suoi peculiari e irriducibili alla razionalità economica capitalistica. Destinatario di tutte le mode e prototipo su cui si modella la valorizzazione attraverso il consumo (soprattutto distruttivo) esso è però anche un potenziale soggetto con autonomia e rivolto ad alterità, proprio perché le sue forme di vita e i suoi desideri non coincidono interamente col lavoro.

Se scuola e università affinano la loro duplice funzione di produttività e disciplinamento (poiché l’offerta di lavoro è scarsa – non la produzione di ricchezza – inventano sempre più soglie attraverso cui si gerarchizza e seleziona la forza-lavoro) queste mantengono anche una semplice funzione di parcheggio. Frustrazioni, progetti, aspettative, desideri, tran-tran quotidiani convivono qui in uno stare insieme dei corpi. Il venir meno delle precedenti possibilità di consumo aumenta la necessità dello stare insieme: il muretto, il parco, la scalinata, il cortile ridiventano luoghi potenziali del conflitto.

Una certa rappresentazione banalizzante ci consegna un’immagine di apatia giovanile in cui sembra prevalere la rassegnazione e l’assuefazione alle sole logiche performative della moda (come se non fosse quello stesso sistema che così li rappresenta a volerli tali!). Anche su questo piano uno sguardo militante attento deve sapere cogliere anche i più piccoli segnali di discontinuità: studenti e precari che frequentano una piazza non vogliono più la presenza delle guardie e la permanenza in quel luogo assume un altro significato, sempre più giovani scelgono consapevolmente di occupare case per sottrarsi al ricatto dell’affitto, alle manifestazioni aumenta la voglia di “fare casino”, ecc. Piccole cose ma preziose, che testimoniano di un potenziale cambiamento di prospettive per minoranze consistenti.

 

Tutti questi nodi sono percorsi trasversalmente da una domanda che per noi resta centrale: il rapporto tra spontaneità dei comportamenti e ruolo delle soggettività (aut)organizzate. Chi gioca la prima contro le seconde si consegna all’inefficacia e si autocelebra in un’ideologia delle “intensità”. Il problema sta nel rendere e crescenti le aspettative, i bisogni ma anche i desideri espressi da questi soggetti, incrociandoli con le resistenze e le lotte di una composizione più vasta e statisticamente maggioritaria.

Dal micro al macro la questione non tarderà a porsi in tutta la sua urgenza. La Grecia è vicina e ci sta ad indicare tutta una serie di impasse e difficoltà che prima o poi incontreremo nel nostro cammino. C’impone anche una certa fretta, perché una volta applicate una serie di misure economiche e sociali, tempo ed energie di questi soggetti e della più generale composizione di classe in cui sono inserite saranno risucchiate nel lavoro di sopravvivenza e la scorciatoia fascista (non come spauracchio ma come variabile) può sempre porsi come soluzione seducente per una parte del proletariato.

Le parole d’ordine dell’autonomia come punto minimo e del contropotere come obiettivo intermedio, in direzione di una futura ed effettiva trasformazione degli assetti sociali (rivoluzione?) sono punti cardinali del nostro muoverci. Ma vanno costantemente reinterrogate, situandole nel contesto cangiante in cui ci troviamo ad agire. Non orpelli identitari o significanti vuoti ma metodo, direzione, progetto (in costruzione).

 

 

Antagonist* vs la crisi

 

Di questo e molto altro ancora vorremmo discutere con i compagni e le compagne che ci raggiungeranno a Torino (il 22 e 23 giugno, presso il centro sciale askatasuna) per una due giorni di confronto, elaborazione e proposta politica che guardi al prossimo autunno.

 programma di massima:

Sabato 22 giugno

h 16: tavola rotonda        

h 19  cena

Domenica 23 giugno   

h 10: tavoli di discussione su ambiti specifici
h 13: pranzo            

h 15: assemblea plenaria conclusiva

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