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Boeri all’attacco dell’Università: la legge del più forte

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Ad un anno dallo scoppio della pandemia, l’ormai duratura fase di convivenza con il virus non sembra aver trovato un compromesso con il mondo della scuola e dell’università.

Senza addentrarsi nel bieco dibattito “apertura vs chiusura” è innegabile che il virus Covid-19 non lasci molto spazio a misure intermedie, la mobilità e l’assembramento di milioni di persone legate all’indotto scolastico è una variabile che aiuta la diffusione del Covid-19.

La fasciazione delle regioni è uno strumento utile alla manifattura, al consumo produttivo ma di certo non ha rappresentato un mezzo per dare stabilità all’accesso alle strutture scolastiche.

Si potrebbero scrivere pagine sulla drammaticità della situazione, di quanto i presidi scolastici rappresentino una delle ultime forme di welfare garantito alla popolazione.

Quello che ci preme qui sottolineare è che questa tragedia si inserisce in un mondo della formazione martoriato da anni di tagli, favori al privato, gerarchizzazione della qualità, discriminazione geografica.

L’abbandono scolastico così come il numero di laureati sono classifiche che ci vedono da decenni occupare le posizioni più mediocri del ranking europeo.

Vale sempre la pena ricordare che quest’anno nel mezzo di una pandemia gli istituti secondari si sono presentati con più di 200.000 posti vacanti. Cattedre poi colmante da un esercito di giovani precari, spesso neo-laureati, usati come carne da cannone per tappare le falle di un’sistema che è privo di risorse.

E i concorsi ordinari e straordinari? Non se ne sa niente, aspettate tempi migliori.

Tuttavia, di scuole secondarie se ne parla, magari male, spesso a sproposito senza consultare chi ci lavora e vive, ma se ne parla, fa audience.

L’università nel dibattito pubblico dell’ultimo anno non è praticamente esistita. Un luogo di contorno al mercato del lavoro da sospendere temporaneamente in attesa di tempi migliori, di nuovo.

Qualche sconto sulle tasse e qualche borsa di medicina in più questo è il risultato ottenuto dal Ministro Manfredi (Rettore Orientale di Napoli).

Sembra una vita fa, ma forse qualcuno ricorderà che il Prof. Manfredi fu nominato ministro nel gennaio 2020, qualche settimana prima del Covid. Il suo predecessore, Lorenzo Fioramonti (5 Stelle) nell’autunno 2019, appena nominato con il Conte II, minacciò che se l’università non fosse stata finanziata per 3 miliardi, poca robba, nella legge di bilancio 2020 lui si sarebbe dimesso.

Avranno riso tutti al governo, ma il signor Fioramonti si dimise veramente nel gennaio 2020, notizia che ovviamente passò rapidamente in secondo piano, e non c’era ancora il Covid.  

Passato meno di un anno il Prof Manfredi si è fatto da parte e con Draghi si sa sono arrivati i migliori, così Maria Cristina Messa è la nuova ministra.

Qualche parola su di lei l’avevamo già spesa qui.

La sua prima uscita pubblica è stata l’inaugurazione di un centro ENI per l’innovazione a Milano, eh figuriamoci. In quella sede ha affermato che in Italia sarebbero necessari 50mila ricercatori in più e che la spesa percentuale del PIL allocata in ricerca dovrebbe essere incrementata del 33% da 1.4% al 2.1%.

Le solite parole, parole, parole, ma sia mai entrare nel merito di come dovrebbero essere distribuite queste risorse, sia pure vengano stanziate.

Per fortuna della ministra Messa ci hanno pensato Tito Boeri a ricordare al governo Draghi come risolvere il problema dell’Università italiana.

L’ex presidente Inps, insieme a Roberto Perotti economista della Bocconi, anche qui figuriamoci hanno pubblicato su “La Repubblica” (17/03/2021) un lungo testo dal titolo: L’università italiana continua a non premiare la ricerca, e già tremano i polsi.

L’articolo si apre con un minimo comun denominatore sensato: l’università ha bisogno di investimenti e c’è il rischio questi possano arrivare con il Recovery Fund.

Il loro contributo al dibattito è su come distribuirli e qui subentra la già applicata mortifera ricetta dell’allocazione meritocratica.

Sostengono che il sistema odierno distribuisca in maniera eccessivamente egualitaria le risorse senza badare al merito stabilito dal sistema “peer review” e della VQR.

Riportiamo un estratto:

Ma è importante partire da un dato di fatto: la ricerca ad alto livello non può essere distribuita uniformemente tra atenei e dipartimenti; non tutti gli atenei possono essere “eccellenti”. E questo per almeno due motivi. Il primo è l’esternalità da aggregazione: due buoni cervelli nello stesso posto si stimolano a vicenda e producono ricerca ancora migliore, lasciati separati a interagire con colleghi mediocri languono. Il secondo sono i costi fissi: soprattutto nelle scienze “dure”, il costo di laboratori e attrezzature all’avanguardia può essere sopportato solo dagli atenei più grandi. Meglio avere un’attrezzatura costosa, ma all’avanguardia in un solo ateneo che un’attrezzatura più a buon mercato distribuita su due atenei.

Gli eccellenti con gli eccellenti, gli altri prendessero una laurea qualunque tanto dovrete guadagnare 1.200 euro al mese con contratti precari senza welfare per decenni.

Questi sono i pilastri su cui costruire il futuro dell’università, aumentare la disparità e le possibilità di formazione. Più soldi ai politecnici del nord e se chiudiamo la facoltà di lettere di Cosenza chissene frega. Esattamente la politica potenziata dalla Riforma Gelmini, anch’essa tornata in auge nella posizione di Ministra degli affari regionali, stendiamo un velo pietoso.

L’articolo prosegue con una comparazione, anch’essa già sentita, il confronto tra noi e il sistema inglese. In Inghilterra l’università sono pubbliche e costano circa 9 mila sterline l’anno (10-11 mila euro) e i master top a Londra si aggirano tra le 20 e le 35 mila sterline annue. Un’sistema di costosissime rette basato sul debito individuale e familiare come unica opzione di accesso alla formazione universitaria. Infatti come dimostrano i dati da loro pubblicati le rette rappresentano il 40% del bilancio universitario inglese rispetto a poco più del 20% di quelle italiane.

Si sono dimenticati di dire che proprio questo sistema britannico sta vivendo la sua peggiore crisi, con università di Londra come SOAS che hanno annunciato centinaia di licenziamenti a causa del crollo delle iscrizioni dovuto alla pandemia.

E’ incredibile come i fautori del disastro economico-sociale degli ultimi 15 anni, schiacciati e smentiti da due crisi pesantissime, quella del 2007-08 e quella odierna, continuino a propinarci la gerarchizzazione, il debito e il merito come panacea dei mali dell’università pubblica italiana.

Come si nota da questo intervento di Boeri e Perotti, la classe dirigente italiana si sta preparando a mangiare e mal-distribuire tutte le risorse sbloccate dalla Commissione Europea tramite il Recovery Fund. Vogliono accaparrarsi fino all’ultimo centesimo, se possibile dando il colpo di grazia alle istituzioni scolastiche intese come presidio locale e autonomo di ricerca e cultura.

Vogliono monopolizzare le risorse e scaricare chi già sta indietro rieditando una cultura meritocratica che non è altro che discriminazione verso chi non ha i mezzi.

La scuola e l’Università devono tornare ad essere un fronte di lotta, non per feticcio della loro storica rilevanza ma perché continuano a rappresentate un ganglo fondamentale dell’ampia partita sulla distribuzione di risorse e povertà.

Bisogna riguadagnare terreno.

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