Quegli studenti che sconvolgono il Cile
di Fabio Bozzato per Il Manifesto
Un’altra grande folla di giovani ha invaso ieri le strade di Santiago e delle più importanti città del Cile. Con loro i docenti e persino i rettori. Hanno bissato il successo deI 30 giugno, quando nella sola capitale si erano ritrovati in 200 mila. Chiedono la riforma radicale del sistema scolastico e universitario, la fine dell’indebitamento a cui questo sistema li costringe, la revisione degli accessi selettivi e paranoici, la fine del business dei privati. Chiedono un sistema pubblico. Dopo quattro mesi sono 700 gli istituti e le facoltà occupate. Persino il più esclusivo dei collegi, il Saint George, è in sciopero, perché «non potevamo stare a guardare», dice una ragazzina dall’accento cuico, cioè ricco e snob.
Il movimento degli studenti ha sorpreso tutti ed ammutolito il mondo politico cileno. Neanche i «pinguini» del 2006 c’erano riusciti, i liceali che affrontarono l’allora presidente socialista Michelle Bachelet, messi in riga con un po’ di lacrimogeni e qualche solenne promessa non mantenuta. Oggi, che alla Moneda da un anno c’è il primo inquilino di destra, Sebastián Piñera, di questi ragazzi si dice: «non hanno più paura». Lo si sente ripetere ovunque. Corre di casa in casa, da tweeter alle mail. Ma di cosa non hanno più paura?
Pinochet se n’è andato ormai ventidue anni fa, l’età di questi manifestanti. Hanno sfiducia di Piñera, come il 60% dei cileni, rivelano i sondaggi, percentuale che sale ad oltre l’80% rispetto al minstro dell’educazione, Joaquín Lavín, un (ex?) ultrà pinochettista, ritenuto «incapace di gestire l’incarico». Loro, invece, incassano l’appoggio dell’81,9% del paese. Per certi versi è come se avessero già vinto, in questo lungo inverno australe, anche se nei fatti non hanno ancora portato a casa i risultati della vittoria. I ragazzi del Cile non hanno più paura: che poi sono le stesse parole contagiose delle primavere arabe. È il mondo globale, bellezza.
Sono ironici: in centinaia si sono ritrovati in un flash mob per coreografare Thriller, il pezzo di Michael Jackson, per dire quanto si sentono zombie. E sono radicali: sono i primi a dire, in massa, dopo vent’anni di transizione democratica, che il sistema di istruzione cileno è classista e costoso. È come rompere un tabù e raccontare a tutti un segreto tenuto nascosto al paese dai governi di centro-sinistra della Concertación, che mai, in vent’anni, hanno messo in discussione i dogmi super-liberisti imposti dai militari e dai Chicago boys fin dagli anni ’80.
Questi ventenni possono dirlo dati alla mano. Il Cile da un anno è entrato infatti nell’Ocse, tanto sono considerati elevati i suoi indici di sviluppo economico. Primo in Sudamerica a riuscirci, quell’ingresso è il vanto di imprenditori e politici. E gli studenti lo hanno preso sul serio. Dalla sede del Fech, la mitica federazione studentesca nata nel 1906 e protagonista di mille storie di resistenza, hanno divulgato i dati sul sistema scolastico: «Abbiamo le tasse più alte dei paesi Ocse, dopo Usa, Canada e Australia, nonostante i redditi siano tra i più bassi della lista. Si arriva a quasi 1000 dollari al mese. Per poterselo permettere, la maggior parte attinge al credito d’onore o accede alle borse di studio che coprono le tasse, ma che lo Stato paga alle banche private. Il tasso? il 5,8% di interesse». Ad esempio, se uno ha un debito di 25 milioni di pesos, dopo vent’anni finirà per pagarne 45. E ancora. Mentre nella media Ocse gli Stati concentrano la spesa per l’88,4% al sistema pubblico e l’8,7% a quello privato, in Cile le percentuali sono del 59,7% e del 40,1%. «Il nostro è l’unico paese al mondo dove per legge lo Stato non può finanziare preferenzialmente il comparto scolastico pubblico», ripetono i giovani della Fech.
Un sistema perverso, dunque, che si è rivelato costoso per le casse pubbliche e pure per le famiglie. Si calcola che queste ultime si facciano carico dell’85% delle spese per mandare i figli alle scuole superiori e si indebitano vertiginosamente: «in media, il costo di uno studente universitario rappresenta oltre il 40% delle entrate familiari», sottolineano. Ma il sistema scolastico cileno è anche un grande business per i privati. Per legge è vietato ricavarne utili e infatti sono tutte fondazioni le 25 università riconosciute. Ma i proprietari sono azionisti di società immobiliarie che lucrano sulla vendita o l’affitto dei terreni e poi sulla costruzione. Per questo una città come Santiago è zeppa di edifici e campus nuovissimi. Lo stesso ministro Lavín è tra i fondatori di una di queste un ateneo, la Universidad del desarrollo. Lui giura di aver venduto tutta la sua quota azionaria, ma messo alle strette in tivù dal popolare giornalista Fernando Villegas, ha esitato a confermare guadagni ed azioni in società parallele.
Nonostante abbia perso ogni credibilità, lui continua ad usare toni aggressivi contro gli studenti in piazza. Quando aveva la loro età, a qualche anno dal golpe del ’73, Lavín era già decano della Facoltà di scienze economiche nella città di Concepción. Una carriera fulminante, per questo cinquantottenne convinto pinochettista e numerario dell’Opus Dei. «Il ministro non è un interlocutore valido», ripete Paloma Muñoz, del coordinamento studenti medi.
Nessuno in Cile avrebbe pensato di poter contestare il sistema scolastico, «persino moltissimi studenti si sentivano garantiti dalla selezione rigida e orgogliosi delle loro università», racconta Carolina, che ha appena finito la sua facoltà d’arte. «Prima era considerato giusto, l’avevamo introiettato come qualcosa di normale. Eravamo figli di una generazione devastata da una sconfitta colossale. Oggi non abbiamo più paura», ripete Jorge che l’università l’ha abbandonata per l’impossibilità di pagarla.
Ma qui gli studenti non hanno più paura nemmeno a dichiarare il debito che hanno con lo Stato e con le banche, alla faccia del noto pudore cileno: Daniel Beth Madanaga ha creato il sito yodebo.cl, «per mostrare al paese che abbiamo un volto, oltre che dei debiti»: sono 4900 persone che gli hanno inviato la loro foto e la cifra.
La denuncia dell’enorme debito cui sono esposte le famiglie ha fatto guadagnare al movimento un consenso enorme. La signora Julia vive a Talagante, vicino a Santiago. Famiglia modesta, dopo il golpe se n’era andata in Argentina per fuggire alla furia della repressione. Ci racconta quanto sia stato difficile e ora dice di essersi «emozionata di fronte a così tanti ragazzi e così determinati. Non ci potevo credere». Sono centinaia i genitori in piazza, alcune donne affrontano i poliziotti, gli parlano della loro rabbia e della loro povertà. È il paese intero che si è mosso.
Il presidente Piñera intanto, sempre più in difficoltà, ha presentato il suo Gane, il Gran acuerdo nacional por la educación, come lo definisce tra il retorico e il marketing, destinandoci 4 miliardi di dollari. Gli studenti lo hanno già rifiutato, perché «non è che la continuazione di quello che c’è, con un po’ di soldi in più. Noi chiediamo un nuovo patto per il futuro», ribadisce categorico Patricio, della Universidad de Los Lagos.
Molti chiedono increduli se è vero che anche in Europa e in Italia ci sia qualcuno che pensa di trasformare il sistema educativo su quel modello. In vista della marcia di ieri, venti giovani portavoce delle varie organizzazioni hanno scritto una lettera aperta: «Il nuovo Cile non ha il volto dei vecchi operai né degli antichi impiegati pubblici. Eppure siamo i loro figli, ci è toccato un paese diverso e siamo determinati a cambiarne il destino». A questo punto la signora Julia non trattiene le lacrime.
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