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Contagio sociale – Guerra di classe micro-biologica in Cina

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Davanti ai fatti delle ultime settimane legati al diffondersi in forma pandemica del virus COVID-19 ha destato da più parti interesse il contributo della rivista cinese Chuang del quale riportiamo la traduzione in italiano a cura del blog il Pungolo Rosso. Il testo, pubblicato a fine febbraio, ha il merito di considerare la diffusione del virus entro le dinamiche di sviluppo e crisi capitalistica tratteggiando, non solo in riferimento a COVID-19, una sorta di storia sociale dei cicli epidemiologici sotto l’espansione capitalistica. Come uno shock da crollo, l’epidemia, giustappunto come epidemia alle condizioni della produzione capitalistica e della sua riproduzione sociale, porta allo smottamento di più livelli della realtà sistemica, risalendoli minacciosamente. Sotto questo profilo altro punto di forza del testo è certamente quello di fornire una lettura delle strategie di gestione della crisi da parte dell’apparato cinese al fine di governare il fenomeno comprendendo le implicazioni che dal contagio biologico del virus conducono al contagio sociale degli effetti dello stesso. Un “salto di specie” che coinvolge il medesimo ambiente: le catene del valore globale, dal loro livello di realtà microbiologico, passando per la vita umana proletaria e le connessioni macroeconomiche che la determinano a livello globale. Un laboratorio, quello cinese, da conoscere per cogliere le tendenze di sviluppo di questa crisi anche dalle nostre parti.

Come una rivoluzione tramata dall’ignoto – nel regno tra la vita e la non vita del virus –  dall’8 marzo il contagio sociale ha investito anche l’Italia. Il “paese bloccato” lamentano gli affezionati dell’interesse generale, una quotidianità sospesa per la generalità delle dimensioni proletarie. Senza certezze. Da un giorno all’altro la normale riproduzione sociale capitalistica sconvolta. Una crisi economica come precipitato di una pandemia. Oppure l’inverso? L’elaborazione di Chuang obbliga a interpretare congiuntamente questi elementi verso un materialismo dell’ultra-materia, microbiologico, ambientale, ecologico. Lo scontro di questi giorni in Italia, dalle rivolte nelle carceri agli scioperi, in significativa continuità, nelle fabbriche, descrive i caratteri e le proporzioni del contagio sociale in atto. Chi paga i costi del Coronavirus? Al netto dell’incapacità delle istituzioni statali di garantire la sicurezza sociale e le stesse condizioni dell’accumulazione quando l’umano rimane indispensabile per mandare avanti fabbriche e servizi essenziali bisogna “stare a casa” o “andarsene a casa”, voltando le spalle anche a ciò, che si dice, non va fermato ma che fa numero sul PIL? Mutare una traiettoria di governo di questa crisi e piegarla in rottura verso nuovi rapporti verso gli scenari che verranno. C’è questo spazio? Nonostante l’urgenza di pensare forme della politica che riaggreghino una domanda comune a partire dall’isolarsi per mettersi in salvo dal contagio? Per un comunismo della tecno-natura pienamente politicizzato, per fare il verso alle tesi di Chuang. Il contributo che segue aiuta insomma a fissare alcune urgenze analitiche dentro una crisi vorticosa che già avanza le prime risposte in difesa di un interesse macro-proletario sotto attacco e che vedrà il loro intensificarsi nelle prossime settimane anche solo come effetto del contagio sociale innescato dall’epidemia.

La fornace Wuhan

Wuhan è conosciuta volgarmente come una delle “quattro fornaci” (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, che condivide con Chongqing, Nanchino e alternativamente Nanchang o Changsha, tutte città molto trafficate con una lunga storia, situate lungo o in prossimità della valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan è anche letteralmente ricoperta di fornaci: l’enorme agglomerato urbano costituisce una sorta di nucleo produttivo per l’acciaio, il cemento e altre industrie legate all’edilizia in Cina, il suo paesaggio è punteggiato dagli altiforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie di ferro e acciaio di proprietà statale, ora prostrate dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso ciclo di ridimensionamento, privatizzazione e generale ristrutturazione, che negli ultimi cinque anni ha provocato numerosi scioperi e proteste. La città è sostanzialmente la capitale cinese della produzione per l’edilizia, il che significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica mondiale, durante gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dalla concentrazione dei fondi di investimento nella costruzione di infrastrutture e di immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla, con un’offerta eccessiva di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, in questo modo, ha avuto essa stessa una rapidissima espansione urbana. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019 l’area totale dedicata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma adesso questa fornace, che dopo la crisi [del 2008] è stata il motore dell’economia cinese, sembra che si stia raffreddando, proprio come le fornaci delle sue fonderie di ferro e acciaio. Anche se questo processo era già iniziato, non è più una semplice metafora economica, poiché la città, un tempo così movimentata, è stata isolata per oltre un mese, con le sue strade svuotate da un ordine del governo: “Il più grande contributo che potete dare è di non riunirvi e di non provocare caos ”, è questo che si legge sulla prima pagina del Guangming Daily, un quotidiano gestito dal  Dipartimento di propaganda del Partito comunista cinese. Adesso, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li contornano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno volge al termine con il Capodanno lunare e la città vegeta a causa dell’imposizione di una vasta quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque si trovi in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato “SARS-CoV-2” e la sua malattia “COVID-19”) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è bloccato, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono confinate nelle loro case in tutto il paese. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa è stata prolungata per un mese per rallentare la diffusione dell’epidemia. Le fornaci cinesi sembrano aver smesso di bruciare, o almeno sono state ridotte a carboni ardenti. In un certo senso, però, la città è diventata un altro tipo di fornace, perché il coronavirus brucia attraverso la massa della sua popolazione ovviamente come una febbre.

A torto, l’epidemia è stata incolpata di tutto, dalla fuoriuscita di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan, a causa di una cospirazione o di un incidente – una affermazione discutibile diffusa dai social media, in particolare tramite messaggi paranoici postati su Facebook da Hong Kong e Taiwan, ma ora sostenuta da organi di stampa conservatori e dagli interessi militari in Occidente – alla propensione dei cinesi a mangiare cibi “sporchi” o “strani”, poiché l’epidemia virale è collegata a pipistrelli o serpenti venduti in un “mercato umido” semi-illegale, specializzato in fauna selvatica e altri animali rari (sebbene questa non sia la fonte ultima dell’epidemia). Entrambe queste spiegazioni sono una testimonianza dell’evidente atteggiamento bellicista e orientalista che caratterizza i rapporti sulla Cina [provenienti da Occidente], e numerosi articoli hanno sottolineato questo fatto fondamentale. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi unicamente sulla questione della percezione del virus in ambito culturale, dedicando molto meno tempo a scavare più a fondo nelle dinamiche di gran lunga più brutali che sottostanno all’accanimento dei media.

Una variante leggermente più complessa include almeno le conseguenze economiche, anche se ne ingigantisce  in modo retorico le potenziali ripercussioni sul piano politico. In questo caso, troviamo i soliti sospetti, che vanno dai classici politicanti che partono alla caccia del dragone cinese fino alla finta reazione scioccata dei piani alti del liberalismo: le agenzie di stampa, dalla National Review al New York Times, hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una “crisi di legittimità” per il PCC, nonostante nell’aria ci sia a malapena un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità, che sta nel comprendere le dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe non essere notato da giornalisti con portafogli azionari più grossi dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante l’appello del governo a isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette, invece, a “riunirsi” per far fronte alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno l’epidemia causerà un rallentamento del tasso di crescita del PIL della Cina, portandolo al 5%, al di sotto del già stagnante 6% dell’anno scorso -il tasso più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4 percento o anche oltre, e che ciò potrebbe innescare una specie di recessione globale. Da qui è sorta una domanda in precedenza inconcepibile: cosa succederà effettivamente all’economia globale quando la fornace cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile prevedere quale sarà la parabola finale di questa vicenda, ma quanto sta accadendo ha già prodotto a livello collettivo un processo piuttosto raro: interrogarsi sulle questioni e informarsi sui fatti della società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80.000 persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana sotto il capitalismo per 1 miliardo e 400 milioni di persone, intrappolate in un momento di precaria auto-riflessione. Questo momento, anche se pieno di paura, ha indotto tutti a interrogarsi contemporaneamente su alcune questioni profonde: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? In un modo strano, l’esperienza soggettiva è in qualche maniera simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, imposto dall’alto verso il basso e, soprattutto, nella sua non volontaria iperatomizzazione, illustra i dilemmi fondamentali del nostro stesso presente politico asfissiato in maniera evidente, così come gli autentici scioperi di massa del secolo scorso hanno messo in luce le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero ma svuotato dei suoi caratteri collettivi, e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico, che economico. Questo fatto già di per sé la rende degna di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono delle prevedibili assurdità, uno dei passatempi preferiti di The New Yorker e The Economist. Nel frattempo, i media stanno ricorrendo alle usuali procedure di insabbiamento, in cui editoriali apertamente razzisti pubblicati nei siti degli organi di stampa tradizionali sono avversati da una marea di articoli sul web che polemizzano contro l’orientalismo e su altre questioni ideologiche. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, affronta la politica di contenimento e le conseguenze economiche dell’epidemia – senza approfondire le questioni legate in primo luogo a come tali malattie vengono prodotte, e ancora meno a come si diffondono. Anche questo, tuttavia, non è abbastanza. Ora non è proprio il momento per esercizi stilistici da “marxisti alla Scooby-Doo”, togliendo la maschera ai cattivi per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus fin dall’inizio! Non sarebbe molto più acuto di quello che fanno i commentatori stranieri che in maniera altrettanto grossolana vanno alla ricerca di un cambio di regime. Certamente il capitalismo ne ha la colpa – ma in che modo, esattamente, la sfera socio-economica si interfaccia con quella biologica e quali lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza?

In questo senso, l’epidemia offre due opportunità di riflessione. In primo luogo, ci dà la possibilità di riesaminare le questioni sostanziali sul modo in cui la produzione capitalistica si rapporta al mondo non umano a un livello più fondamentale: in breve, come il “mondo naturale”, compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza fare riferimento al modo in cui la società organizza la produzione (perché, in effetti, i due ambiti non sono separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che include in sé il potenziale di un naturalismo pienamente politicizzato. In secondo luogo, possiamo usare ugualmente questo momento di isolamento per una sorta di nostra riflessione sullo stato presente della società cinese. Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si interrompe in modo inaspettato, e un rallentamento di questo tipo può rendere visibili le tensioni fino a quel momento occultate. Andiamo quindi ad esplorare entrambe queste questioni, e a mostrare non solo come sia l’accumulazione capitalistica a produrre tali epidemie, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, poiché rende visibili alle persone le potenzialità e le dipendenze invisibili del mondo che le circonda, offrendo allo stesso tempo una scusa ulteriore per estendere ancor più i sistemi di controllo nella vita di tutti i giorni.

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La produzione di epidemie

Il virus che è all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), così come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, l’influenza aviaria e ancora prima l’influenza suina, è germogliato dall’incrocio tra economia ed epidemiologia. Non è un certo caso che così tanti di questi virus abbiano preso il nome di animali: la diffusione di nuove malattie tra la popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zoonotico, che è un modo tecnico per dire che queste infezioni passano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è condizionato da fattori come la vicinanza e la regolarità del contatto, che costruiscono l’ambiente in cui la malattia è costretta ad evolversi. Quando questa interfaccia tra uomo e animale cambia, si modificano anche le condizioni in cui si evolvono queste malattie. Sotto le quattro “fornaci” [le quattro città cinesi, tra cui Wuhan, di cui si è detto all’inizio], quindi, si trova una fornace ancora più importante, che sta alla base degli hub industriali di tutto il mondo: la pentola a pressione evolutiva costituita dall’agricoltura e dall’urbanizzazione proprie del capitalismo. È questo il substrato ideale nel quale le epidemie nascono, si trasformano, compiono dei balzi zoonotici sempre più devastanti, e poi sono veicolate in modo aggressivo attraverso la popolazione umana. A ciò si aggiungono dei processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, in cui ceppi “selvaggi” vengono più di recente in contatto con persone spinte a incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus, nelle sue origini “selvagge” e nella sua improvvisa diffusione attraverso un nucleo fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta le due dimensioni della nostra nuova era di epidemie politico-economiche.

L’idea di base qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra come Robert G. Wallace, il cui libro Big Farms Make Big Flu, pubblicato nel 2016, spiega in maniera esauriente la connessione tra il settore agroalimentare capitalistico e l’eziologia delle recenti epidemie, che vanno dalla SARS all’Ebola [i]. Queste epidemie possono essere raggruppate in due categorie: la prima trova la sua origine nel cuore della produzione agro-economica, la seconda nel suo entroterra. Nel tracciare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace riassume diversi fattori chiave della geografia per quelle epidemie che hanno origine nel cuore della produzione:

“I paesaggi rurali di molti dei paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività produttive agroalimentari non regolamentate che premono contro le bidonvilles periubane. La trasmissione non controllata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare delle caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socio-ecologici, che includono specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti di host, di modalità di allevamento del pollame e di misure per la salute degli animali” [ii].

Ovviamente, questa diffusione è guidata dai circuiti globali delle merci e dalle migrazioni regolari di manodopera che sono propri della geografia economica capitalista. Il risultato è “una sorta di selezione demica sempre più intensificata”, attraverso cui il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempo più breve, consentendo alle varianti più adatte di superare le altre.

Ma questo è un punto facile da chiarire, ed è già presentato comunemente nella stampa tradizionale: il fatto che la “globalizzazione” consente la diffusione di queste malattie in modo più rapido, anche se con un’aggiunta importante, e cioè che lo stesso processo di circolazione stimola anche una mutazione più rapida del virus. La vera questione, tuttavia, viene prima: prima che la circolazione migliori la resilienza di queste malattie, la logica di base del capitale permette di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui, e posizionarli in ambienti ipercompetitivi, che favoriscono l’emergere dei fattori specifici che causano le epidemie, come la rapidità dei cicli di vita dei virus, la capacità di compiere salti zoonotici tra le specie portatrici e la capacità di far evolvere rapidamente dei nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite prima fornisce meno tempo al virus per diffondersi. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene dei livelli di intensità deboli, che ne facilitano una larga propagazione nella popolazione. Ma in alcuni ambienti, funziona molto di più la logica inversa: quando un virus ha numerosi ospiti della stessa specie nelle immediate vicinanze, e specialmente quando questi ospiti possono già avere dei cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio per la sua evoluzione.

Ancora una volta, il caso dell’influenza aviaria è un esempio saliente. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato “l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] nelle popolazioni di uccelli selvatici, fonte ultima di quasi tutti i sottotipi di influenza”. [iii] All’opposto, le popolazioni domestiche raggruppate insieme in allevamenti industriali sembrano avere una relazione evidente con tali focolai, per ovvi motivi:

“Le monocolture genetiche di animali domestici rimuovono qualsiasi forma di difesa immunitaria in grado di rallentare la trasmissione. Popolazioni più numerose e più dense favoriscono tassi di trasmissione più elevati. Queste condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, che è lo scopo di qualsiasi produzione industriale, procura un rinnovo continuo dell’approvvigionamento di soggetti vulnerabili, il carburante per l’evoluzione della virulenza.” [iv]

E, naturalmente, ognuna di queste caratteristiche è una conseguenza della logica della concorrenza industriale. In particolare, il rapido tasso di “throughput” in tali contesti ha una dimensione eminentemente biologica: “Non appena gli animali industriali raggiungono la giusta massa vengono uccisi. Le infezioni da influenza residente devono raggiungere rapidamente la loro soglia di trasmissione in un dato animale […] Più rapidamente vengono prodotti i virus, maggiore è il danno per l’animale”[v].

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai attraverso l’abbattimento di massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana, che ha provocato la perdita di quasi un quarto dell’offerta mondiale di carne di maiale – può avere l’effetto non intenzionale di aumentare ulteriormente questa pressione selettiva, inducendo l’evoluzione di ceppi iper-virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche, spesso in seguito a periodi di guerra o a catastrofi ambientali che accrescono la pressione sulle popolazioni di bestiame, l’aumento dell’intensità e della virulenza di tali malattie ha innegabilmente seguito la diffusione della produzione capitalistica.

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Storia ed eziologia

Le epidemie sono in gran parte l’ombra dell’industrializzazione capitalista, e allo stesso tempo ne fungono da precursore. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America è un esempio fin troppo semplice da citare, poiché la loro intensità è stata rafforzata dalla separazione delle popolazioni per un lungo lasso di tempo dovuta alla geografia fisica – e queste malattie, nonostante tutto, avevano già acquisito la propria virulenza grazie alle le reti mercantili pre-capitalistiche e all’urbanizzazione precoce in Asia e in Europa. Se, invece, guardiamo all’Inghilterra – il paese che ha visto sorgere il capitalismo prima nelle campagne, attraverso la cacciata dalle terre della massa dei contadini, sostituiti da monocolture di bestiame – vediamo i primi esempi di queste epidemie chiaramente capitalistiche. Tre diverse pandemie si sono verificate nell’Inghilterra del XVIII secolo, dal 1709 al 1720, dal 1742 al 1760, e dal 1768 al 1786. All’origine di ciascuna di queste epidemie c’è stato il bestiame importato dall’Europa, infettato dalle normali pandemie pre-capitaliste che seguivano i periodi di guerra. Ma in Inghilterra la concentrazione del bestiame aveva iniziato ad avvenire in modi nuovi, e l’introduzione di bestiame infetto andava quindi a dilaniare la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto avvenisse in Europa. Non è un caso, quindi, che il centro dei focolai di epidemie fossero i grandi caseifici di Londra, che rappresentarono l’ambiente ideale per l’intensificazione del virus.

Alla fine, i focolai sono stati contenuti attraverso l’abbattimento selettivo precoce su piccola scala  combinato con l’applicazione di moderne pratiche mediche e scientifiche, in un modo sostanzialmente simile a quello utilizzato oggi per reprimere queste epidemie. Questo è il primo esempio di quello che diventerebbe un modello che imita quello della crisi economica stessa: collassi sempre più intensi che sembrano spingere l’intero sistema verso un precipizio, ma che alla fine vengono superati attraverso una combinazione tra il sacrificio di massa che ripulisce il mercato/la popolazione e l’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso le moderne pratiche mediche combinate con i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura non sufficiente, ma che aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.

Ma questo esempio proveniente dalla patria del capitalismo deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno avuto alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove i risultati sono stati molto più devastanti. L’esempio che ha avuto il maggiore impatto storico è probabilmente quello dello scoppio della peste bovina in Africa negli anni 1890. La data in sé non è una coincidenza: la peste bovina aveva colpito l’Europa con un’intensità che seguiva da vicino la crescita dell’agricoltura su larga scala ed era tenuta sotto controllo solo dall’avanzata della scienza moderna. Ma la fine del XIX secolo ha visto anche l’apice dell’imperialismo europeo, incarnato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa in Africa orientale dagli italiani, che cercavano di raggiungere le altre potenze imperialiste colonizzando il Corno d’Africa attraverso una serie di campagne militari. Queste campagne si sono concluse per lo più con un insuccesso, ma la malattia si diffuse in seguito tra la popolazione indigena di bestiame e finì per aprirsi un varco per il Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista delle colonie, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, auto-proclamatosi suprematista bianco. Non si può negare che, uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu quello di provocare una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Questo spopolamento è stato poi seguito dalla colonizzazione invasiva della savana da parte dei rovi, che hanno creato un habitat per la mosca tse-tse, che porta la malattia del sonno e impedisce il pascolo del bestiame. Questo ha permesso di limitare il ripopolamento della regione dopo la carestia e ha aperto la strada all’ulteriore diffusione delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a indurre periodicamente crisi agricole e a produrre le condizioni catastrofiche che hanno permesso al capitalismo di oltrepassare i suoi primi confini, sono state una persecuzione anche per il proletariato nel centro stesso dell’industrializzazione. Prima di venire a numerosi esempi più recenti, vale la pena sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha niente di specificatamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano avere origine in Cina non sono culturali, sono legate a dei fattori di geografia economica. Questo risulta perfettamente chiaro se confrontiamo la Cina con gli Stati Uniti o con l’Europa dell’epoca in cui Stati Uniti ed Europa rappresentavano il centro nevralgico della produzione globale e dell’occupazione industriale di massa [vi]. E il risultato è sostanzialmente identico, presenta le stesse identiche caratteristiche. Le ecatombi di bestiame che avvenivano nelle campagne, si combinavano nelle città con pratiche sanitarie di pessima qualità e una contaminazione generalizzata. È questo che è stato al centro dei primi sforzi per riformare in senso liberal-progressista le zone abitate dalla classe operaia, come testimonia l’accoglienza del romanzo The Jungle, di Upton Sinclair, scritto originariamente per documentare la sofferenza dei lavoratori immigrati nel settore della lavorazione della carne, ma ripreso dai liberali più ricchi, preoccupati dalle violazioni delle norme sulla salute e dalle condizioni generalmente poco igieniche in cui veniva preparato il loro cibo.

Questa indignazione liberale rispetto alla “sporcizia”, con tutto il razzismo che implica, definisce ancora oggi quella che potremmo considerare come la lettura ideologica adottata automaticamente dalla maggior parte delle persone di fronte agli aspetti politici di qualcosa come le epidemie di coronavirus o di SARS. Ma i lavoratori hanno poco controllo sulle condizioni in cui lavorano. Fatto ancora più importante, se è vero che le condizioni insalubri e scarsamente igieniche escono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Queste condizioni sono l’ambiente in cui normalmente si lavora o si vive negli insediamenti proletari vicini, e, a livello di popolazione, queste condizioni portano a un declino della salute offrendo condizioni ancora più favorevoli alla diffusione delle molte epidemie del capitalismo. Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Si tratta di uno dei primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria) e per lungo tempo si è pensato che in qualche modo questa epidemia fosse qualitativamente differente dalle altre varianti dell’influenza, dato l’elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa lettura sembra essere vera solo in parte (a causa della capacità dell’influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca sulla storia dell’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, con ogni probabilità il suo alto tasso di mortalità è stato causato principalmente dalla malnutrizione generalizzata, dal sovraffollamento delle città e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che hanno incoraggiato non solo la diffusione dell’influenza stessa, ma anche la coltura di superinfezioni batteriche oltre alla super-infezione virale di fondo. [vii]

In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga rappresentato come un’anomalia imprevedibile per il carattere del virus, ha avuto un “aiuto” altrettanto importante dalle condizioni sociali. L’influenza si diffuse rapidamente grazie al commercio e alla guerra mondiale, a quel tempo legati ai rapidi cambiamenti degli imperialismi che sono sopravvissuti alla prima guerra mondiale. E anche qui ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare sul luogo e sul modo in cui è stato prodotto un ceppo di influenza così mortale: sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che il virus abbia avuto origine tra i maiali o il pollame allevati a livello domestico, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo sono particolarmente degni di nota, poiché gli anni successivi alla guerra furono una sorta di punto di svolta per l’agricoltura americana, che ha visto l’applicazione generalizzata di metodi di produzione di tipo industriale sempre più meccanizzati. Queste tendenze si intensificarono solo negli anni ’20 e l’applicazione massiccia di tecnologie come la mietitrebbia portò sia ad una graduale monopolizzazione [della produzione agricola], che al disastro ecologico, che, combinati insieme, causarono la crisi del “Dust Bowl” [la crisi delle tempeste di sabbia che colpirono gli Stati Uniti centrali e il Canada tra il 1931 e il 1939] e l’emigrazione di massa che ne seguì. L’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato l’allevamento industriale non era ancora apparsa, ma le forme più elementari di concentrazione e produzione intensiva, che avevano già creato epidemie di bestiame in Europa, erano ormai diventate la norma. Se le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo possono essere considerate il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, e l’epidemia di peste bovina in Africa nel 1890 il più grande degli olocausti epidemiologici causati dall’imperialismo, l’influenza spagnola può essere considerata la prima delle epidemie del capitalismo che ha colpito il proletariato.

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Letà dell’oro

I parallelismi con l’attuale caso cinese sono particolarmente rilevanti. Il COVID-19 non può essere compreso senza tener conto dei modi in cui gli ultimi decenni di sviluppo della Cina all’interno del sistema capitalistico globale e attraverso di esso, hanno plasmato il sistema sanitario del paese e lo stato della salute pubblica in generale. L’epidemia, per quanto nuova, è quindi simile ad altre crisi della sanità pubblica che l’hanno preceduta, che tendono a prodursi quasi con la stessa regolarità delle crisi economiche e ad essere considerate in modo simile da parte della stampa popolare – come se fossero casuali, degli eventi del tipo “cigno nero”, assolutamente imprevedibili e senza precedenti. La realtà, tuttavia, è che queste crisi sanitarie ricorrono secondo schemi caotici e ciclici, resi più probabili da una serie di contraddizioni strutturali integrate nella natura della produzione e della vita proletaria entro il regime capitalistico. Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il coronavirus è stato originariamente in grado di prendere piede e propagarsi rapidamente a causa di un diffuso degrado dell’assistenza sanitaria di base presso l’insieme della  popolazione. Ma proprio perché questo degrado ha avuto luogo nel mezzo di una crescita economica spettacolare, è stato oscurato dallo splendore di città scintillanti e di fabbriche enormi. La realtà, tuttavia, è che in Cina le spese destinate a beni pubblici come l’assistenza sanitaria e l’istruzione rimangono estremamente basse, mentre la maggior parte della spesa pubblica è stata indirizzata verso infrastrutture in “mattoni e malta”: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione.

Nel frattempo, la qualità dei prodotti del mercato interno è spesso pericolosamente bassa. Per decenni l’industria cinese ha prodotto esportazioni di alta qualità e di alto valore, realizzate secondo i più alti standard globali per il mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. Ma i beni destinati ai consumi sul mercato interno hanno standard incredibilmente scadenti, il che provoca regolari scandali e alimenta una profonda sfiducia da parte della popolazione. In molti casi si avverte un innegabile eco che ricorda The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’Età dell’oro americana. Il più grosso caso avvenuto di recente, lo scandalo del latte alla melanina del 2008, ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedaliero di decine di migliaia di persone (anche se i colpiti sono stati forse qualche centinaio di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno scosso con regolarità il pubblico: nel 2011, quando è stato scoperto che l’olio recuperato dalle trappole per grassi dei canali di scolo veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il paese, o nel 2018, quando dei vaccini difettosi uccisero diversi bambini, e in seguito un anno dopo, quando dozzine di persone sono state ricoverate in ospedale in seguito alla somministrazione di falsi vaccini anti HPV. Storie meno pesanti sono anche più diffuse e costituiscono un panorama familiare per chiunque viva in Cina: preparato per zuppe istantanee in polvere tagliato con sapone in modo da contenere i costi; imprenditori che vendono maiali morti per cause misteriose ai villaggi vicini; pettegolezzi dettagliati su quali negozi di strada hanno maggiori probabilità di farti ammalare.

Un tempo, prima dell’incorporazione pezzo per pezzo della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del “sistema danwei”, erano cioè legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente, ma non esclusivamente, nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali gestite da un abbondante personale di “medici scalzi“. I successi dell’assistenza sanitaria dell’era socialista – come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione – furono tanto sostanziali che persino i critici più severi del paese dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, che ha afflitto il paese per secoli, è stata sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, salvo ripresentarsi con vigore nel momento in cui il sistema sanitario socialista ha iniziato a essere smantellato. La mortalità infantile è crollata e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande Balzo in avanti, l’aspettativa di vita è salita da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni ’80. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse su scala generale, e così pure le informazioni di base sulla nutrizione e sulla salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali rudimentali – tutto ciò era gratuito e accessibile a tutta la popolazione. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali – sebbene limitate – a una vasta fetta della popolazione, permettendo la costruzione di un solido sistema sanitario dal basso in condizioni di grave povertà materiale. Vale la pena ricordare che tutto ciò è avvenuto in un momento in cui la Cina era un paese più povero, a livello di reddito pro capite, della media dei paesi dell’Africa subsahariana di oggi.

A partire da quel momento [inizio anni ’80] una combinazione di trascuratezza e privatizzazione ha notevolmente degradato questo sistema, proprio mentre la rapida urbanizzazione e una produzione industriale non regolamentata di beni per uso domestico e alimentare rendevano tanto più necessaria la generalizzazione dell’assistenza sanitaria – per non menzionare l’altrettanto importante necessità di stabilire chiare norme in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza. Oggigiorno la spesa pubblica cinese per la difesa della salute è, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, di 323 dollari pro capite. Questa cifra è bassa anche in comparazione con quella di altri paesi a “reddito medio-alto”, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con conseguenti numerosi scandali analoghi a quelli sopra menzionati. Nel frattempo, gli effetti di questa situazione ricadono con maggiore forza sulle centinaia di milioni di lavoratori emigranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città natale rurale (luogo in cui, sotto il sistema hukou, sono residenti permanenti indipendentemente della loro effettiva residenza, il che significa che le risorse pubbliche rimanenti non sono accessibili altrove).

Apparentemente, la sanità pubblica sarebbe dovuta essere sostituita alla fine degli anni Novanta con un sistema più privatizzato (sebbene gestito tramite lo stato), in cui una combinazione di contributi – tanto da parte delle imprese quanto da parte dei dipendenti – avrebbe dovuto sostenere i costi dell’assistenza medica, delle pensioni e dell’assicurazione sulla casa. Ma questo regime di previdenza sociale è stato minato da una sistematica carenza di fondi, nella misura in cui i contributi “dovuti” da parte dei datori di lavoro spesso semplicemente non sono versati, facendo sì che la stragrande maggioranza dei lavoratori debba pagare di tasca propria. Secondo l’ultima stima nazionale disponibile, solo il 22% dei lavoratori emigranti interni aveva un’assicurazione medica di base. Il mancato versamento di contributi al sistema di previdenza sociale non è, tuttavia, un semplice atto malevolo da parte di padroni individualmente corrotti, è invece ampiamente dovuto al fatto che i margini di profitto ridotti non lasciano spazio alle indennità sociali. Nei nostri calcoli abbiamo scoperto che in un hub industriale come Dongguan chiedere di sborsare le somme al momento non pagate necessarie per garantire ai lavoratori la previdenza sociale, dimezzerebbe i profitti industriali e porterebbe molte aziende al fallimento. Per compensare le enormi lacune esistenti, la Cina ha istituito un regime medico supplementare di carattere basilare a copertura di pensionati e lavoratori autonomi, sistema che paga in media solo poche centinaia di yuan per persona all’anno.

Questo sistema medico assediato produce di per sé delle terribili tensioni sociali. Numerosi membri del personale medico vengono uccisi ogni anno e dozzine vengono feriti negli attacchi di pazienti arrabbiati o, più spesso, dei familiari dei pazienti che muoiono durante le cure. L’attacco più recente è avvenuto alla vigilia di Natale, quando a Pechino un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente, che riteneva che sua madre fosse morta per le cure ospedaliere scadenti. Un sondaggio condotto tra i medici ha rilevato che un incredibile 85% di loro aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro, del 2015, ha rilevato che il 13% dei medici in Cina era stato aggredito fisicamente nel corso dell’anno precedente. I medici cinesi visitano ogni anno il quadruplo dei pazienti rispetto i loro colleghi statunitensi, ma sono pagati meno di $ 15.000 all’anno – in termini relativi si tratta di una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760 USD), mentre negli Stati Uniti il salario del medico medio (circa 300.000 USD) è quasi cinque volte più del reddito pro capite (60.200 USD). Prima della sua chiusura (nel 2016) e l’arresto dei suoi creatori, l’ormai defunto blog di censimento dei disordini di Lu Yuyu e Li Tingyu riportava le notizie di diversi scioperi e proteste da parte degli operatori sanitari ogni mese [viii]. Nel 2015 – l’ultimo anno per il quale sono presenti per intero i dati da loro meticolosamente raccolti – erano riportati 43 eventi del genere. Hanno anche registrato dozzine di “incidenti da cure mediche [proteste]” ogni mese, protagonisti familiari di pazienti, con 368 registrati nel 2015.

In tali condizioni di massiccio disinvestimento pubblico dal sistema sanitario, non sorprende che il COVID-19 abbia preso piede così facilmente. In combinazione con il fatto che nuove malattie trasmissibili emergono in Cina al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni affinché tali epidemie continuino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica per la popolazione proletaria hanno permesso che il virus prendesse piede e, da lì, si diffondesse rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di distribuzione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso sia stato prodotto.

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Non c’è più una natura selvaggia

Nel caso dell’epidemia in corso, la storia è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono così chiaramente associati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini esatte del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da suini, che sono uno dei tanti animali domestici e selvatici commerciati nel mercato di Wuhan, che sembra essere l’epicentro dell’epidemia, nel qual caso la causa potrebbe essere più simile ai casi di cui sopra di quanto non appaia. Più probabile, tuttavia, sembra essere l’origine del virus dai pipistrelli o forse dai serpenti, gli uni e gli altri solitamente prelevati in natura. Anche in questo caso esiste tuttavia una qualche relazione con il sistema agro-industriale, dal momento che il declino della disponibilità e della sicurezza della carne di maiale a causa dell’epidemia di peste suina africana ha fatto sì che l’aumento della domanda di carne sia spesso soddisfatto dalla vendita di carne di selvaggina “selvatica” in questi mercati del pesce. Ma si può davvero affermare, anche senza che esista un legame diretto con l’agricoltura industriale, che gli stessi processi economici sono in qualche modo complici di questa epidemia?

La risposta è sì, ma in modo diverso. Ancora una volta, Wallace indica non una, ma due vie principali attraverso le quali il capitalismo contribuisce a sviluppare e scatenare epidemie sempre più mortali. La prima, delineata sopra, è quella direttamente legata all’industria, in cui i virus vengono gestiti all’interno di ambienti industriali che sono stati pienamente inclusi nella logica capitalistica. La seconda è indiretta, e si sviluppa attraverso l’espansione e l’estrazione capitalista nell’entroterra, dove virus precedentemente sconosciuti vengono essenzialmente raccolti dalle popolazioni selvatiche [animali] e poi distribuiti lungo i circuiti dei capitali globali. Le due vie non sono del tutto separate, è ovvio, ma il secondo caso sembra essere quello che descrive meglio l’emergere dell’attuale epidemia [ix]. In questo caso, la crescente domanda di corpi di animali selvatici per consumo, per uso medico o (come nel caso dei cammelli e della MERS) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali costituite da beni “selvaggi”. In altri casi le catene di valore agro-ecologiche preesistenti si estendono semplicemente in sfere precedentemente “selvagge”, cambiando le ecologie locali e modificando l’interfaccia tra l’umano e il non umano.

Wallace stesso è chiaro su questo punto, spiegando diverse dinamiche che creano malattie più gravi nonostante i virus stessi già esistano in ambienti “naturali”. L’espansione della stessa produzione industriale “potrebbe spingere gli alimenti selvatici sempre più capitalizzati in profondità provenienti dall’ultimo dei  paesaggi primari [ancora non toccati], andando a pescare una più ampia varietà di agenti patogeni potenzialmente protopandemici”. In altre parole, man mano che l’accumulazione di capitale si estende a nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili dove entreranno in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – il tutto mentre questi stessi animali stanno diventando merci vendibili, dal momento che “anche le specie di sussistenza più selvagge vengono inserite in catene del valore agricole”. Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a questi animali e questi ambienti, e ciò “può aumentare l’interfaccia e lo spillover tra le popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata”. Ciò dà al virus maggiori opportunità e risorse per mutare in un modo che gli consente di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di spillover biologico. La stessa geografia dell’industria non è ad ogni modo mai così nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industriale monopolistica fa uso di fattorie sia su larga scala che su piccola scala: “in una fattoria [azienda agricola] di un imprenditore ai margini della foresta, un animale da cibo può catturare un agente patogeno prima di essere spedito in un impianto di lavorazione carni situato nell’anello esterno di una grande città. “

Il fatto è che la sfera “naturale” è già sussunta da un sistema capitalistico completamente globale che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare gli ecosistemi pre-capitalisti [x] sino al punto che quelli ancora intatti non funzionano più come avrebbero potuto fare in passato. Anche qui ci si trova di fronte a un ulteriore fattore causale, poiché, secondo Wallace, tutti questi processi di devastazione ecologica riducono “il tipo di complessità ambientale con cui la foresta interrompe le catene di trasmissione”. In realtà, quindi, è erroneo pensare a tali aree come alla naturale “periferia” di un sistema capitalista. Il capitalismo è già globale e già totalizzante. Non c’è più un limite o un confine al di là del quale c’è qualche sfera rimasta allo stato naturale, non capitalista; né esiste una grande catena di sviluppo in cui i paesi “arretrati” seguono quelli che li precedono nel loro cammino lungo la catena del valore; né c’è un qualche spazio autenticamente selvaggio in grado di essere preservato in una sorta di condizione pura, incontaminata. Al contrario, il capitale non ha che un retroterra ad esso subordinato e completamente inserito nelle catene del valore globali. I sistemi sociali che da ciò derivano – dal presunto “tribalismo” fino alla rinascita delle religioni fondamentaliste in senso anti-moderna – sono prodotti interamente contemporanei e sono di fatto quasi sempre collegati, spesso in maniera abbastanza diretta, ai mercati globali. Lo stesso si può dire dei sistemi biologici ed ecologici che ne risultano, poiché le aree “selvagge” sono in realtà immanenti a questa economia globale, sia in un senso astratto in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia nel senso diretto di essere collegati a quelle stesse catene del valore globali.

Questo fatto produce le condizioni necessarie per la trasformazione di ceppi virali “selvaggi” in pandemie globali. Ma il COVID-19 non è certo il peggiore di questi. Un’illustrazione ideale del principio di base – e del pericolo globale – si riscontra invece nel caso dell’ebola. Il virus ebola [xi] è un chiaro caso di un serbatoio virale esistente che si riversa nella popolazione umana. Le prove attuali suggeriscono che i suoi ospiti originari sono diverse specie di pipistrelli nativi dell’Africa occidentale e centrale, che agiscono come vettori ma non sono essi stessi colpiti dal virus. Questo invece non è vero per gli altri mammiferi selvatici, come primati e duiker [l’antilope africana], che contraggono periodicamente il virus e soffrono di focolai rapidi e ad alto tasso di mortalità. L’ebola ha un ciclo di vita particolarmente aggressivo al di fuori delle specie che ne sono portatrici sane. Attraverso il contatto con uno di questi ospiti selvaggi, anche gli esseri umani possono essere infettati, con risultati devastanti. Si sono verificate diverse importanti epidemie e il tasso di mortalità nella maggior parte dei casi è stato estremamente elevato, quasi sempre superiore al 50%. Il più grande focolaio registrato, che è continuato sporadicamente dal 2013 al 2016 in diversi paesi dell’Africa occidentale, ha provocato 11.000 morti. Il tasso di mortalità per i pazienti ospedalizzati durante il focolaio era compreso tra il 57 e il 59%, ed è stato  molto più elevato per tutti coloro che sono rimasti senza accesso agli ospedali. Negli ultimi anni, diversi vaccini sono stati sviluppati da società private, ma meccanismi di approvazione lenti e severe limitazioni legate ai diritti di proprietà intellettuale si sono combinati con la diffusa mancanza di un’infrastruttura sanitaria nel produrre una situazione in cui i vaccini hanno fatto poco per fermare la più recente – e al momento la più lunga – epidemia di questo tipo, concentrata nella Repubblica Democratica del Congo (RDC).

La malattia viene spesso presentata come se si trattasse di qualcosa di analogo a un disastro naturale – nella migliore delle ipotesi casuale, nella peggiore imputata alle pratiche culturali “poco igieniche” dei poveri che vivono nelle foreste. Ma il contesto temporale entro il quale si sono sviluppate le due grandi epidemie menzionate (2013-2016 in Africa occidentale e 2018-presente nella RDC) non è casuale. Entrambe si sono verificate proprio quando l’espansione delle industrie primarie ha spostato ulteriormente le popolazioni che vivono nelle foreste e sconvolto gli ecosistemi locali. In effetti, questo sembra essere vero per la maggioranza dei casi più recenti, poiché, come spiega Wallace, “ogni epidemia di ebola sembra connessa a cambiamenti nell’uso del suolo di natura capitalista, a partire dal primo scoppio a Nzara, in Sudan nel 1976, dove una fabbrica finanziata dagli inglesi filava e tesseva cotone locale”. Allo stesso modo, le epidemie del 2013 in Guinea si sono verificate subito dopo che un nuovo governo aveva iniziato ad aprire il paese ai mercati globali e vendere grandi estensioni di terra a conglomerati agroalimentari internazionali. L’industria dell’olio di palma – nota per il suo ruolo nella deforestazione e nella distruzione ecologica in tutto il mondo – sembra essere stata particolarmente colpevole, poiché le sue monocolture da un lato devastano le barriere ecologiche che aiutano a interrompere le catene di trasmissione; dall’altro attraggono le specie di pipistrelli che servono come serbatoio naturale per il virus. [xii]

Nel frattempo, la vendita di grandi appezzamenti di terra a società commerciali agroforestali comporta sia l’espropriazione delle popolazioni che abitano le foreste, sia l’interruzione delle loro forme locali di produzione e di raccolto dipendenti dall’ecosistema. Questo spesso costringe i poveri delle zone rurali a spingersi più all’interno nella foresta, mentre le loro relazioni tradizionali con quell’ecosistema vengono distrutte. Il risultato è che la loro sopravvivenza dipende sempre più dalla caccia alla selvaggina o dalla raccolta di flora e legname locali per la vendita sui mercati globali. Tali popolazioni diventano quindi i bersagli contro i quali sono indirizzate le ire delle organizzazioni ambientaliste globali, le quali le denigrano bollandole alla stregua di “bracconieri” e “taglialegna illegali”, indicandole come responsabili della deforestazione e della distruzione ecologica, cause che sono invece all’origine della loro necessità a intrattenere questo tipo di commercio. Spesso, il processo prende una svolta molto più oscura, come in Guatemala, dove dopo la fine della guerra civile i paramilitari anticomunisti sono stati trasformati in forze di sicurezza “verdi”, con il compito di “proteggere” la foresta dal disboscamento illegale, dalla caccia e dal narcotraffico, ovvero gli unici mestieri disponibili per i residenti indigeni, che erano stati spinti a tali attività proprio a causa della repressione violenta che avevano dovuto affrontare da parte di quegli stessi paramilitari durante la guerra. [xiii] Da allora tale modello è stato riprodotto in tutto il mondo, applaudito su post dei social media nei paesi ad alto reddito che celebrano l’esecuzione di “bracconieri” (spesso catturata dalla telecamera) da parte di presunte forze di sicurezza “verdi”. [xiv]

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Il contenimento come espressione dell’arte di governo

Il COVID-19 ha attirato l’attenzione globale con una forza senza precedenti. L’ebola, l’influenza aviaria e la SARS, ovviamente, hanno avuto tutte la loro quota di frenesia mediatica. Ma questa nuova epidemia ha generato un diverso tipo di capacità di resistenza. In parte, ciò è quasi certamente dovuto alla scala spettacolare della risposta del governo cinese, che si traduce in immagini altrettanto spettacolari di megalopoli vuote che sono in netto contrasto con la normale immagine mediatica della Cina come sovraffollata e super-inquinata. Questa risposta è stata anche una fonte golosa per l’abituale speculazione sull’imminente crollo politico o economico del Paese, anche in forza dell’ulteriore impulso in tale direzione dato dalle continue tensioni determinate dallo stadio iniziale della guerra commerciale con gli Stati Uniti. Questa situazione, combinata con la rapida diffusione del virus, gli dà il carattere di una minaccia immediatamente globale, nonostante il suo basso tasso di mortalità. [xv]

A un livello più profondo, tuttavia, ciò che sembra più affascinante della risposta dello stato cinese è il modo in cui questa risposta è stata rappresentata nei media, come una sorta di prova generale melodrammatica della mobilitazione totale nella contro-insurrezione interna. Questo ci dice realmente qualcosa sulla capacità repressiva dello stato cinese, ma sottolinea anche la più profonda incapacità di quello stato, rivelata dalla sua necessità di fare un così pesante affidamento su una combinazione tra le misure di propaganda totale implementate attraverso ogni aspetto dei media e le mobilitazioni della buona volontà  della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe alcun obbligo materiale da prendere in carico. Sia la propaganda cinese che quella occidentale hanno sottolineato la reale capacità repressiva della quarantena; la prima la racconta come un caso di efficace intervento del governo davanti ad un’emergenza; la seconda come l’ennesima espressione di tendenze totalitarie da parte della Cina in quanto stato distopico. La verità non detta, tuttavia, è che l’aggressività stessa della repressione indica un’incapacità più profonda dello stato cinese, che a sua volta è ancora in costruzione.

Questo stesso fatto ci dà un’idea della natura della Cina, mostrando come essa stia sviluppando nuove e innovative tecniche di controllo sociale e di risposta alle crisi, che possono essere implementate anche in condizioni in cui i meccanismi statuali siano scarsi o inesistenti. Tali condizioni, nel frattempo, offrono un quadro ancora più interessante di come la classe dirigente di un determinato paese potrebbe rispondere nel caso in cui delle crisi generalizzate e l’insurrezione attiva causassero malfunzionamenti di analoga natura, e questo anche in stati più strutturati. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarse connessioni tra i diversi livelli del governo: la repressione dei medici “informatori” da parte di funzionari locali a discapito degli interessi del governo centrale, meccanismi di segnalazione ospedaliera inefficaci e fornitura estremamente scarsa di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, diversi governi locali sono tornati – pur a ritmi diversi – alla normalità, quasi completamente al di fuori del controllo dello stato centrale (tranne nello Hubei, l’epicentro). Al momento della stesura del presente documento [26 febbraio 2020], sembra quasi del tutto casuale quali porti siano operativi e quali località abbiano riavviato la produzione. Ma questa quarantena-bricolage ha fatto sì che le reti logistiche interurbane da città a città fossero interrotte, dal momento che qualsiasi governo locale sembra apparentemente in grado di impedire ai treni o ai camion merci di passare attraverso i suoi confini. E questa incapacità di livello base del governo cinese lo ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

L’apparato dello stato nazionale ha iniziato a mettersi concretamente in moto il 22 gennaio, quando le autorità hanno esteso le misure di risposta alle emergenze in tutta la provincia di Hubei e hanno dichiarato al pubblico di avere l’autorità legale per istituire strutture di quarantena, oltre a “procurarsi” tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie al contenimento della malattia, o alla creazione di blocchi e al controllo del traffico (conferendo le forme dell’ufficialità a delle pratiche che in ogni caso erano già allora in atto). In altre parole, il pieno dispiegamento delle risorse statali è iniziato in realtà con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, un disastro di tale gravità metterebbe a dura prova la potenza di qualsiasi stato (vedi, ad esempio, la risposta agli uragani negli Stati Uniti). Ma, dall’altro, ciò ripete un modello comune nell’arte di governo tipica della Cina, in base al quale lo stato centrale, privo di strutture di comando formali ed esecutive efficienti che si estendono fino al livello locale, deve invece per un verso fare affidamento su una combinazione di appelli alla mobilitazione ampiamente pubblicizzati rivolti ai funzionari e ai cittadini locali, mentre per un altro deve ricorrere alla somministrazione di dure punizioni ex post a coloro che hanno risposto in maniera inadeguata (il tutto all’insegna di misure anticorruzione). L’unica risposta veramente efficace si è verificata in aree specifiche in cui lo stato centrale concentra la maggior parte del suo potere e della sua attenzione, in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare. Entro la mattina del 24 gennaio, la città era già in un vero e proprio blocco completo, senza treni in entrata o in uscita quasi un mese dopo che il nuovo ceppo del coronavirus era stato rilevato per la prima volta. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e mettere in quarantena chiunque a propria discrezione. Oltre alle principali città di Hubei, dozzine di altre città in tutta la Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno indetto blocchi di varia entità sui movimenti di persone e merci in entrata e in uscita dai loro confini.

In risposta all’appello alla mobilitazione da parte dello stato centrale, alcune località hanno preso le loro strane e severe iniziative. Le più spaventose si sono registrate in quattro città della provincia di Zhejiang, dove sono stati rilasciati passaporti locali a trenta milioni di persone, permettendo a un solo individuo per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato la chiusura di ogni quartiere e disposto che interi condomini fossero soggetti alla quarantena per 14 giorni se si fosse individuato al loro interno un singolo caso confermato del virus. Nel frattempo, centinaia di persone sono state arrestate o multate per avere “diffuso voci infondate” sulla malattia, e alcuni di coloro che sono fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di prigione – e le carceri stesse stanno vivendo un grave focolaio, a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate anche in un ambiente che è stato progettato per un facile isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia le misure prese in casi estremi di contro-insurrezione, richiamando chiaramente le azioni dell’occupazione militare-coloniale in luoghi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai prima d’ora erano state prese su questa scala, né in megalopoli di questo tipo, che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta attuata con queste misure repressive offre quindi una strana sorta di lezione per coloro che hanno in mente la rivoluzione mondiale, dal momento che si tratta essenzialmente di una prova per le reazioni che in una tale circostanza lo stato metterebbe in atto.

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L’immagine di un checkpoint di quarantena locale che stava girando sui social media cinesi

Incapacità

 

Questa particolare repressione beneficia del suo apparente carattere umanitario, con lo stato cinese in grado di mobilitare una grande quantità di gente del posto nell’aiuto a quella che è, essenzialmente, la nobile causa di frenare la diffusione del virus. Ma, come c’è da aspettarsi, questo tipo di repressione può ritorcersi contro i suoi fautori. La controinsurrezione è, dopotutto, una sorta di guerra disperata portata avanti solo quando più solide forme di conquista, la pace sociale e l’integrazione economica sono diventate impossibili. È un’azione costosa, inefficiente e retrograda, che svela la più profonda incapacità di qualsivoglia potere sia incaricato di dispiegarla – siano essi gli interessi coloniali francesi, il decadente impero americano, o altri poteri. Il risultato della repressione è quasi sempre una seconda insurrezione, ferita dal contraccolpo della prima e fattasi ancora più disperata. Qui, la quarantena difficilmente potrà mostrarsi per quello che realmente è: guerra civile e controinsurrezione. Ad ogni modo, la repressione si è, a modo suo, ritorta contro sé stessa. Con gran parte dello sforzo dello stato concentrato sul controllo delle informazioni e sulla incessante propaganda dispiegata attraverso ogni possibile apparato mediatico, le turbolenze si sono espresse in gran parte all’interno di quelle stesse piattaforme.

La morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi che ha denunciato i pericoli del virus, il 7 febbraio scosse i cittadini rinchiusi nelle loro case in tutto il paese. Li era uno degli otto medici vittime della retata della polizia per aver diffuso “informazioni false” all’inizio di gennaio, prima di contrarre lui stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia degli internauti e una dichiarazione di rammarico da parte del governo di Wuhan. La gente sta iniziando a percepire che lo stato è composto da funzionari e burocrati maldestri, che non hanno idea di cosa fare ma che conservano ancora la faccia tosta per farlo. [xvi] Questo fatto è stato inequivocabilmente dimostrato quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di stato che il suo governo aveva ritardato il rilascio di informazioni critiche sul virus dopo che si era verificato un focolaio. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella indotta dalla mobilitazione totale dello stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde fessure che si celano dietro l’autoritratto che il governo dipinge di sè. In altre parole, in circostanze come queste, le incapacità strutturali dello stato cinese sono state rese evidenti a un numero crescente di persone che in precedenza avrebbero preso la propaganda del governo per oro colato.

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Il video qui sopra, girato da un abitante di Wuhan e condiviso con Internet occidentale via Twitter a Hong Kong, è il simbolo adatto ad esprimere il carattere fondamentale delle misure prese dallo stato. [xvii] Le riprese  mostrano, in sostanza, un certo numero di persone – che sembrano essere dottori o soccorritori – mentre, indossando l’equipaggiamento protettivo completo, si scattano una foto con la bandiera cinese. La persona che gira il video spiega che costoro frequentano la zona esterna a quell’edificio ogni giorno per varie operazioni fotografiche. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, e addirittura usano una delle tute per pulire l’auto. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza tante cerimonie la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarlo fino in fondo per non farlo vedere. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima di essere censurati: piccoli colpi di scena nella rappresentazione esibita dallo stato.

A un livello più fondamentale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare le prime ripercussioni economiche nella vita privata delle persone. L’aspetto macroeconomico di questo processo è stato ampiamente reso noto, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla continua stagnazione in Europa e al recente calo di uno dei principali indici di salute economica degli Stati Uniti che mostra l’improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente dipendenti dalle reti di produzione cinesi stanno ora prendendo in considerazione le loro clausole di “forza maggiore”, che consentono di ritardare o annullare le responsabilità di entrambe le parti coinvolte in un contratto commerciale quando tale contratto diventa “impossibile” da eseguire. Sebbene al momento sia improbabile, la semplice possibilità che questo accada ha causato una cascata di richieste di ripristino della produzione in tutto il paese. L’attività economica, tuttavia, si è rimessa in moto in maniera frammentaria: tutto ha ripreso a funzionare senza intoppi in alcune aree, mentre è ancora indefinitamente sospeso in altre. Stando alle ultime disposizioni promulgate dalle autorità centrali, il 1° marzo è la data entro la quale tutte le aree esterne all’epicentro dell’epidemia dovrebbero tornare al lavoro.

Altri effetti sono stati meno visibili, anche se, probabilmente, sono molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle loro città di lavoro per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima della messa in atto dei vari blocchi, ora sono costretti a restare in un pericoloso limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è immigrata, la gente del posto riferisce che il numero dei senzatetto ha iniziato a salire. Ma le nuove persone che compaiono per le strade non sono senzatetto a lungo termine: la percezione è quella che siano state letteralmente scaricate lì e che non abbiano nessun altro posto dove andare. Indossano ancora abiti relativamente buoni, ma non sanno dove dormire all’aria aperta o dove trovare del cibo. Vari edifici della città hanno visto un aumento dei piccoli furti, principalmente di cibo (quello consegnato e depositato di fronte alla porta di casa dei residenti in quarantena). A livello generale, dal momento che la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i loro salari. Nel caso delle interruzioni del lavoro, gli scenari migliori che si prospettano sono i dormitori-quarantene come quello imposto nello stabilimento Foxconn di Shenzhen, dove i nuovi “rientrati” sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, venendo pagati un terzo del loro normale salario e sono in seguito autorizzati a tornare sulla loro postazione di lavoro. Le imprese più piccole non hanno tale possibilità e persino il tentativo del governo di dare loro piccoli crediti probabilmente a basso costo, a lungo andare non servirà a gran che. In alcuni casi sembra che il virus stia semplicemente accelerando la tendenza preesistente a delocalizzare le fabbriche, tant’è vero che aziende come Foxconn stanno espandendo la loro produzione in Vietnam, India e Messico per compensare l’attuale rallentamento produttivo.

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La guerra surreale

Nel frattempo, la maldestra risposta precoce al virus, la scelta dello stato di affidarsi a misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinarsi in modo efficace con i territori decentrati per il mantenimento di un equilibrio tra produzione e quarantena, sono altrettanti indicatori della radicale incapacità della macchina statale. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’enfasi dell’amministrazione Xi è stata sulla “costruzione dello stato”, sembra che resti ancora molto da fare al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere letta come una battaglia corpo-a-corpo contro l’insurrezione, va notato che il governo centrale ha dimostrato di essere capace di fornire un coordinamento efficace solo nell’epicentro dello Hubei, mentre i provvedimenti presi per altre province – anche in località ricche e rinomate come Hangzhou – rimangono in gran parte scoordinati e inefficaci. Possiamo interpretare tutto ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza nascosta sotto all’apparente solidità del potere statale; in secondo luogo, come una messa in guardia dalla minaccia rappresentata dai provvedimenti delle autorità locali. Infatti, quando il meccanismo dello stato centrale è sopraffatto, il mancato coordinamento può portare a risposte scoordinate e irrazionali.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui la distruzione provocata dall’accumulazione incessante [di capitale] ha esteso i propri tentacoli sia verso l’alto, nell’atmosfera, sia verso il basso, nel substrato microbiologico della vita sulla terra. Tali crisi diventeranno sempre più comuni. Man mano che la secolare crisi del capitalismo va assumendo un carattere apparentemente non economico, nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri “naturali” verranno usati per giustificare l’estensione del controllo statale. E tale risposta alla crisi da parte degli stati rappresenterà una grandiosa opportunità per sperimentare modalità nuove, ancora non testate, di controinsurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi fatti insieme. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze dure. A livello pratico, questo significa che l’unico possibile progetto politico è quello capace di orientarsi su un terreno caratterizzato dalla diffusione del disastro ecologico e microbiologico, e capace di agire in questo perpetuo stato di crisi e di isolamento sociale.

Nella Cina in quarantena iniziamo a intravvedere, abbozzato, un simile scenario: le strade vuote di fine inverno spolverate di neve non calpestata, le facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, casuali barricate con un piccolo numero di infermiere al lavoro o di poliziotti o di volontari o semplicemente di attori, pagati per issare bandiere e dirti di indossare la mascherina e tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia quello di scatenare una sorta di guerra surrealista contro la società stessa. Non riunitevi, non provocate il caos. Ma il caos si può provocare anche in una situazione di isolamento. Mentre i forni di tutte le fonderie si raffreddano cedendo il posto, prima, a braci leggermente scoppiettanti, poi, a ceneri fredde come la neve, non si può impedire a queste tante isolate disperazioni  di uscire dalla quarantena per dare forma, insieme, ad un caos ancora più grande che potrebbe un giorno risultare difficile da contenere, come questo contagio sociale.

NOTE

 [i] Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto conciso delle argomentazioni di Wallace, rivolte ad un pubblico più ampio, senza la necessità di “presentare il caso” ad altri biologi attraverso l’esposizione di argomentazioni rigorose e prove approfondite. Per coloro che vorrebbero contestare le prove di base, ci riferiamo in tutto il testo al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.

[ii] Robert G Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, 2016. p. 52.

[iii] Ibid, p. 56.

[iv] Ibid, pp. 56-57.

[v] Ibid, p. 57.

[vi] Questo non vuol dire che il confronto degli Stati Uniti con la Cina di oggi non fornisca informazioni. Dal momento che gli Stati Uniti hanno un proprio enorme settore agroindustriale, esso stesso contribuisce in modo esorbitante alla produzione di nuovi virus pericolosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.

[vii] Si veda: Brundage JF, Shanks GD, “What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections”. The Journal of Infectious Diseases. Vol. 196, No. 11, December 2007. pp. 1717–1718, author reply 1718–1719;  Morens DM, Fauci AS, “The 1918 influenza pandemic: Insights for the 21st century”. The Journal of Infectious Diseases. Vol. 195, No. 7, April 2007. pp. 1018–1028.

[viii] Cfr. “Picking Quarrels” nel n° 2 della nostra rivista: http://chuangcn.org/journal/two/picking-quarrels/

[ix] A modo loro, queste due vie di produzione della pandemia rispecchiano ciò che Marx chiama sussunzione “reale” e “formale” nella sfera della produzione vera e propria. Nella sussunzione reale, il processo di produzione stesso viene modificato attraverso l’introduzione di nuove tecnologie in grado di intensificare il ritmo e l’entità della produzione, in modo simile a quello con cui l’ambiente industriale ha cambiato le condizioni di base dell’evoluzione virale così che le nuove mutazioni sono prodotte ad un ritmo accelerato e con maggiore aggressività. Nella sussunzione formale, che precede la sussunzione reale, queste nuove tecnologie non sono ancora implementate. Le forme di produzione preesistenti vengono semplicemente riunite in nuove sedi che hanno rapporti con il mercato globale, come nel caso degli operai tessili che lavorano con il telaio a mano, collocati in una fabbrica che vende i prodotti del loro lavoro per fare profitti. Questo processo è simile al modo in cui i virus prodotti in contesti “naturali” vengono spostati dalle popolazioni animali selvatiche e introdotti nelle popolazioni animali domestiche attraverso il mercato globale.

 

[x] Tuttavia è un errore equiparare questi ecosistemi a quelli “pre-umani”. La Cina ne è un esempio perfetto, dal momento che molti dei suoi paesaggi naturali apparentemente “incontaminati” erano, in effetti, il prodotto di periodi molto più antichi di espansione umana che spazzarono via specie precedentemente diffuse nell’est asiatico continentale, come gli elefanti.

[xi] Nel linguaggio tecnico questo è un termine generico per 5 o più virus distinti, il più micidiale dei quali è a sua volta semplicemente chiamato virus Ebola (precedentemente virus Zaire).

[xii] Per il caso specifico dell’Africa occidentale, cfr.: RG Wallace, R Kock, L Bergmann, M Gilbert, L Hogerwerf, C Pittiglio, Mattioli R and R Wallace, “Did Neoliberalizing West African Forests Produce a New Niche for Ebola,” International Journal of Health Services, Vol. 46, No. 1, 2016; per una visione più ampia della connessione tra le condizioni economiche e il virus Ebola in quanto tale, cfr. Robert G Wallace and Rodrick Wallace (Eds), Neoliberal Ebola: Modelling Disease Emergence from Finance to Forest and Farm, Springer, 2016; per dichiarazioni più schiette e meno accademiche, cfr. l’articolo di Wallace, al link sopra: “Neoliberal Ebola: the Agroeconomic Origins of the Ebola Outbreak,” Counterpunch, 29 July 2015. <https://www.counterpunch.org/2015/07/29/neoliberal-ebola-the-agroeconomic-origins-of-the-ebola-outbreak/>

[xiii] Cfr. Megan Ybarra, Green Wars: Conservation and Decolonization in the Maya Forest, University of California Press, 2017.

[xiv] È certamente errato affermare che tutto il bracconaggio sia condotto dalla popolazione povera rurale locale o che tutte le guardie forestali nelle foreste nazionali dei diversi paesi operino allo stesso modo degli ex paramilitari anticomunisti, ma gli scontri più violenti e i casi più aggressivi di militarizzazione delle foreste sembrano essenzialmente seguire questo schema. Per una panoramica ad ampio raggio del fenomeno, cfr. Il numero speciale di Geoforum (69/2016) dedicato all’argomento. La prefazione può essere trovata qui: Alice B. Kelly and Megan Ybarra, “Introduction to themed issue: ‘Green security in protected areas’”, Geoforum, Vol. 69, 2016. pp.171-175.

http://gawsmith.ucdavis.edu/uploads/2/0/1/6/20161677/kelly_ybarra_2016_green_security_and_pas.pdf>

 

[xv] Di gran lunga la meno pericolosa di tutte le malattie menzionate qui, l’alto bilancio delle vittime da essa causato è stato in gran parte il risultato della sua rapida diffusione a un gran numero di ospiti umani. In termini assoluti ha provocato un elevato numero di morti ma in termini relativi risulta fatale solo in pochi casi.

[xvi] In un’intervista podcast, Au Loong Yu, riportando i pareri di amici che vivono nell’area continentale, afferma che il governo di Wuhan è effettivamente paralizzato dall’epidemia. Au suggerisce che la crisi non stia solo lacerando il tessuto sociale, ma anche la macchina burocratica del PCC, e questo processo si intensificherà quando il virus si diffonderà a tal punto da mettere in crisi le autorità governative locali di tutto il paese. L’intervista è di Daniel Denvir di The Dig, pubblicata il 7 febbraio: https://www.thedigradio.com/podcast/hong-kong-with-au-loong-yu/

[xvii] Il video è autentico, ma bisogna notare che Hong Kong è stata un focolaio particolare di atteggiamenti razzisti e di teorie cospirative dirette contro gli abitanti della Cina continentale e contro il PCC, per cui ciò che viene condiviso sul virus sui social media da parte della gente di Hong Kong dovrebbe essere attentamente controllato.

 

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