Amara terra mia (del Ghetto di Rignano e dei compagni estasiati dalla miseria)
Il Ghetto di Rignano. Basta nominarlo. E stormi di pensieri “sinistri” si librano nell’estiva aria tersa di un Mezzogiorno immaginato, tra luci acute che sanno di Africa e sentori muschiati di fatica e dignità. L’evocazione del conflitto, il riscatto dei dannati della Terra. Dei dannati tra i dannati. I compagni idealisti, le suore laiche, gli analisti d’ogni dove, fanno la fila – tra fine maggio e i primi di settembre – per visitare il Ghetto. Per filmarlo in presuntuosi docufilm dalle colonne sonore strazianti, per estrapolarne la teoria in scritti degni del Codice di Hammurabi. Noi siamo di Foggia. La nostra città dista una ventina di chilometri dal Ghetto suddetto. E l’estate, per i compagni, è la stagione del contatto. Come se noialtri non esistessimo nei mesi senza caldo. E senza immigrati. Un compagno intellettuale, uno “in vista”, in un pomeriggio assolato ci chiese di accompagnarlo in una ricognizione tra le campagne dello sfruttamento. Le uniche in Italia, sembrerebbe. Gatti si era già fatto passare per un bracciante e aveva smosso l’interesse della compagneria organizzata. Anche quello dell’ambasciata polacca, se è per questo. Si favoleggiava, in un misto d’orrore e morboso languore, di oltre cento polacchi “spariti” in Capitanata. Il che equivaleva a dire: uccisi brutalmente e sommariamente sepolti nel contado da caporali senza scrupoli. Così, l’armata della salvezza calava sul Tavoliere. Che non si capiva bene come avrebbero potuto – fossero state vere le voci – affrontare con il solo scudo delle loro analisi, un caporalato tanto feroce. Ma tant’è. Il compagno intellettuale fu portato a zonzo. Nei suoi occhi brillava l’estasi. La stessa che può impossessarsi di un giornalista di guerra traghettato nella terra di nessuno. Ci fermammo in una casupola di mattoni. Un rudere nel quale era stato ricavato un bar. Lo gestiva una donna nigeriana. Il compagno intellettuale, in brodo di giuggiole, prese a fare domande. La donna rispondeva. Toni bruschi ed asciutti. Suo marito e i suoi figli erano giù, in Africa, gli disse. Lei lavorava per loro. Completamente invaghito, l’analista di sinistra prendeva appunti. E si riempiva gli occhi di quello spettacolo. Ogni tanto ci scoccava uno sguardo talmente innamorato da non rendersi conto di quanto il nostro non condividesse affatto quell’afflato. Un tizio dell’Est, visibilmente ubriaco, fece rotolare una bottiglia a terra e si produsse in una rumorosa imprecazione. La donna nigeriana, dal suo bancone, lasciò perdere le chiacchiere e alzò il tono della voce. Una reprimenda. L’uomo rimproverato si zittì di botto e porse le sue scuse. La donna ricominciò a parlare
con l’intellettuale. Che, dopo quello che aveva visto, era più rapito che affascinato. Solo a sera, dinanzi ad un pezzo di focaccia, a casa, dopo aver ascoltato una vagonata di idiozie sul coraggio delle donne, sul sacrificio degli ultimi, sulla dignità, sull’autorevolezza che deriva dal ruolo di guida, sul fatto che bisognasse ripartire da quei bisogni, rivelammo al compagno quel che anche un ragazzino avrebbe capito. Se non avesse avuto gli occhi occlusi dalla filantropia compagnesca di ultima generazione. Quel che a noi era parso evidente sin dai saluti. Che quella donna era il caporale. Lui provò a mettere in fila i grani del rosario. Poi rifiutò con forza la nostra argomentazione. E, una volta tornato nel profondo Nord, fu libero di scrivere di coraggio, dignità e bisogni. Inventandosi una speranza inesistente da una storia travisata. Incoscienza, innocenza. Ma anche presunzione, arroganza. Oltre che confusione. A monte, andrebbe ripristinato un dualismo elementare. Saldare il senso delle cose alla natura stessa del nostro antagonismo di classe, immerso in un contesto che, piaccia o non piaccia, andrebbe conosciuto. Il Tavoliere delle Puglie, tanto nel versante settentrionale (San Severo), quanto in quello meridionale (Cerignola), è stato da sempre laboratorio. Dello sfruttamento padronale applicato all’ambito rurale e, di converso, dell’organizzazione rivendicativa bracciantile. Il primo sciopero “organizzato” risale al 1905. I lavoratori, prima ancora di affrontare la controparte e dipanare la propria forza, furono costretti a formare picchetti e presidi contro i cosiddetti “forestieri”, gente che, spinta dalla fame e dalla disperazione, saliva dal Nord barese e dalle zone limitrofe per sopperire alla momentanea assenza di manodopera nei latifondi. Vi ricorda niente? I braccianti di Cerignola vedevano nel “forestiero” quel che in fondo era: un crumiro. E lo combattevano con ogni mezzo. Gli analisti dalla pancia piena possono ghignare disprezzo per tanta superficialità, ma la realtà era quella. Lo stesso Di Vittorio, che si accollò sul campo l’onere di diffondere pedagogia rivoluzionaria tra le plebi, non poté fare a meno di individuare come “molto serio” il conflitto tra scioperanti e crumiri “forestieri”. Questi ultimi giungevano a migliaia e nei momenti più “fertili” per le rivendicazioni degli stanziali, quando cioè questi potevano imporre una maggiorazione ai propri miserabili salari. I “forestieri” accettavano paghe più basse e venivano assunti, scatenando la reazione violenta degli altri braccianti. Duelli, zuffe, morti e feriti. Come a Colapatella nel 1914. I “forestieri” erano, senza dubbio alcuno, vittime dello stesso sistema criminale. Ma, altresì, oggettivamente un ostacolo alla lotta dei più determinati. Di Vittorio incentrò il suo delicato, complicatissimo lavoro sindacale e politico, sulle forme organizzative degli “stranieri”. Perché la causa della mortale frizione era proprio da individuarsi in questo aspetto: la disorganizzazione degli occasionali, mossi come pedine. La ruota gira, il mondo cambia, ma certe cose, quando ritornano, si farebbe bene a guardarle in faccia. Dov’è l’organizzazione sindacale itinerante, nomade, capace di organizzare in loco frotte di lavoratori stagionali provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’Europa dell’Est, disposte a mandare a monte l’intero sistema retributivo nel nome di un “quanto più possibile, il prima possibile” che non lascia scampo alle acute osservazioni dei dotti? Dov’è la forza politica antagonista capace di diffondere capillarmente la disciplina del lavoratore salariato a gente che attraversa la penisola italiana seguendo il ritmo delle stagioni e dei raccolti e quindi, per ruolo, indifferente alle filippiche dei maestri del conflitto di carta? Ad entrambe le domande, non possiamo che rispondere con una desolata scrollata di spalle. No, non ci sono forze di quel tipo. E per quanto si voglia slittare semanticamente dal nucleo dell’organizzazione sociale a quello della filosofia culturale, il problema che permane è lo stesso del 1905: gli immigrati sono dei crumiri. Immaginiamo le facce! Orrore, svenimenti, gente sconvolta pronta, ad andar bene, a ricapitolarci da casa le forme della ristrutturazione capitalista delle campagne. Ma il problema non cambia, neppure spiegandone premesse e ripercussioni. La guerra fra poveri, unica allettante prospettiva delle destre xenofobe, fa leva su dati di fatto, ahinoi incontrovertibili. E la mancanza è nostra. Nostra e del nostro cristianesimo di ritorno, del nostro vuoto di prospettive, della nostra mancanza di punti di riferimento vincenti. L’organizzazione delle disperse, frazionate, ricattabili plebi immigrate, non è freccia al nostro arco. Inutile girarci attorno. Ed in più, da almeno quindici anni, dal riflusso delle istanze collettive e di classe (quanto siamo vetero!) a supplire a questa mancanza, abbiamo
destinato un inutilissimo arsenale dialettico pronto ad incidere (poco) sulla sovrastruttura. Siamo diventati gli alfieri della differenza, della diversità elevata a valore, della comprensione a tutti i costi, laddove un tempo tendevamo all’integrazione nella lotta, all’unificazione di una massa di manovra e all’intolleranza verso atteggiamenti filo-padronali. Così snaturati, non ci rendiamo conto che il nostro ruolo nei “ghetti” non va oltre quello dei filantropi, quando non degli esploratori dinanzi ai “selvaggi” dell’Oceania. Con l’aggravante che contiamo assai meno dei preti. Nel ghetto ci sono case di lamiere e tavole di legno recuperate alla meglio. D’estate sono delle fornaci, tanto che gli ospiti dormono all’aperto. D’inverno, dei frigoriferi. E qualcuno c’è morto, negli anni, di freddo. Nel ghetto comanda il caponero. Lui è vita per i migranti del ghetto, tutti centroafricani, in larga parte irregolari. O meglio: in larga parte ex regolari, spesso con un lavoro nelle fabbriche del Nord, poi in cassa, poi senza alcuna tutela, finiti nella tenaglia assurda della Bossi-Fini. Il caponero organizza le squadre (rigorosamente per etnia, ogni etnia o nazionalità un caponero). Lui è il tramite tra l’agrario senza scrupoli e la forza lavoro. Lui assicura reddito. Ma è nello stesso tempo il vampiro che succhia gran parte dei soldi che finiscono ai braccianti, pagati a cottimo, 3 euro per cassone di pomodoro. Un centesimo a chilo di pomodoro raccolto. Lucra. Dalla ricarica del telefonino (da 50 centesimi a 1 euro) al panino più acqua per le 12 ore di lavoro, fino al trasporto nei campi. Poi c’è da pagare il “fitto” (sì, il fitto del terreno al proprietario del suolo), poi c’è il bar (fiorente attività messa su da un sanseverese). E poi c’è il giro di prostituzione, di spaccio di cocaina. I cessi a cielo aperto, niente acqua calda, 1 milione speso ogni anno dalla Regione per portare acqua potabile in cisterne e piazzare bagni chimici. Tutto questo i “compagni” sembrano conoscerlo. Descrivono bene anche le dinamiche di sfruttamento, che sale lungo tutta la filiera e ingrassa mediatori e grande distribuzione commerciale. Ma se la Regione – alla quale non dobbiamo nulla, sia chiaro – decide di smantellare il ghetto e allestire delle tendopoli, alzano le barricate del principio. Eppure: cosa cambierebbe con le tendopoli? Nulla. Chi è irregolare dovrà sempre rivolgersi al caponero per un lavoro. Chi è regolare potrà sperare in un ingaggio come da norma, tramite le liste di prenotazione e i contributi che vanno alle imprese che rispettano i contatti. Resta la Bossi-Fini, restano le dinamiche di frammentazione sociale, resta il lavoro agricolo salariato, povero per sua natura, precario e stagionale, modello al quale si sono ispirate tutte le riforme involutive della legislazione del lavoro dagli anni Ottanta in poi. Cambia che questi lavoratori recuperano un minimo di dignità. Un campo con assistenza sanitaria e legale continua, con bagni e mense. Con il trasporto garantito verso i campi di lavoro. Nessuno afferma che sia la panacea di tutti i mali, che hanno origini e nature diverse. Ma allora lo dicessero fino in fondo: “noi vogliamo che i migranti vivano nella merda, che vengano a noi come selvaggi in gabbia, in maniera tale da farci agitare la bandiera della lotta al sistema delle multinazionali”. E poi, in fondo, ci sarà sfuggito, ma non capiamo quale sia la proposta di questi compagni. Temiamo la risposta: “la rivoluzione”. E fintanto che ci attrezziamo, lasciamo i migranti a vivere sotto lamiere nelle estati a 50 gradi della campagna foggiana? Decidiamo per loro, per il solo gusto di inseguire le nostre battaglie da dotti, alla faccia del referente strumentale? Fortuna che, nei ghetti come altrove, non contiamo niente.
Laboratorio politico Jacob – Foggia
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