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Bentornata Aisha, non sei sola!

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La notizia della liberazione di Silvia Romano ci ha travolte di gioia! Dopo ormai due mesi di reclusione forzata ma consapevole causata dal Covid-19, dovremmo avere ben chiaro cosa significa la costrizione ad una dimensione nuova, quanto sia faticosa la pratica di adattamento, quanto dolorosa la dimensione emotiva di queste quattro mura. Nulla di tutto questo è minimamente paragonabile a quello che ha vissuto lei.

Pensate allora cosa significhi per una giovane donna restare chiusa 18 mesi in appartamenti diversi, senza sapere dove e con chi, e quante conseguenze psicologiche possa portare, a prescindere da quanto siano state o meno efferate le pratiche dei rapitori durante il sequestro. Un rapimento è un rapimento, una violenza fortissima, che implica l’assenza di libertà e consenso. Seppure sia forte la nostra connessione emotiva, nessuna di noi potrà mai immedesimarsi davvero con l’esperienza di questa nostra sorella. Ci teniamo quindi ad esprimere tutta la nostra sorellanza a questa donna, che ha assunto la libera scelta di esporre il proprio corpo al rischio duplice dell’essere cooperante e donna ed oggi ne paga le conseguenze subendo il più becero giornalismo ed opinionismo. L’opzione dell’autodeterminazione di una giovane donna, infatti, resta difficilmente comprensibile agli occhi italianissimi, come del resto era stato alla notizia del suo sequestro.

Non sembra infatti minimamente solidale l’atteggiamento delle istituzioni, subito pronte a dare in pasto la notizia ai giornalisti, senza nessuna tutela di un’esperienza così segnante come la prigionía.

Non lo è stato neppure il dibattito pubblico italiano, basato sul clickbait più che sull’empatia verso un’esperienza di vita così forte e meritevole di rispetto. Un’ulteriore violenza le immagini dei dibattiti nei vari programmi di intrattenimento in cui uomini bianchi, anziani, etero pontificavano sulle scelte di Silvia, sui suoi atteggiamenti.

L’ondata di odio e di minacce nei confronti di Silvia Romano, iniziata ancor prima che la volontaria mettesse piede sul suolo italiano, per noi rappresenta uno degli innumerevoli episodi di narrazione tossica ai quali assistiamo quotidianamente, specialmente quando si incrociano la dimensione di genere ed etnia. Una narrazione violenta che specula sui corpi delle donne, li strumentalizza e se ne appropria nello sviluppo costante e feroce del sistema patriarcale e capitalista. Abbiamo opzioni limitate ed etichette a cui rispondere: possiamo essere solo strumenti della narrazione dominante quando serve, al più vittime passive “da proteggere”, altrimenti rifiutate e rinnegate non appena mostriamo la fierezza delle nostre scelte.

I commenti indirizzati a Silvia non hanno nulla di nuovo, non sono frutto di queste determinate circostanze, né sono sintomo di una reazione specifica, ma sono il risultato di questo sistema patriarcale che si innesta su una cultura dominante, quella della violenza e dello stupro, che mira a silenziarci giorno dopo giorno. Infatti, ancora una volta, non è stato dato neppure un attimo di tregua a Silvia per elaborare gli ultimi 18 mesi: sono iniziate le minacce solo basate sull’estetica, a partire dal facile confronto tra le foto, spulciando sui profili Facebook senza pietà, come se non fosse normale un “prima e dopo” in una segnante esperienza come questa oltreché nelle normali fasi della vita, come se fosse necessario dimostrare che il prima – l’abito di laurea, la minigonna, i tacchi – era la normalità ed oggi – una donna bianca velata – è un abominio o una contraddizione in termini. Non è contemplato che una donna possa essere diversa o scegliere diversamente, non è contemplato il rispetto per un trauma da elaborare, tanto che perfino la prigionía debba essere vissuta con lo smalto alle unghie o altrimenti “sarà valsa la pena salvarci?”. Ancora una volta ciò che attira l’attenzione morbosa dei giornalisti e della popolazione sono il corpo e gli indumenti di una donna sopravvissuta a 18 mesi di prigionia (è grassa? incinta? com’è vestita? perché si è vestita come “loro”?), si pensa al costo del riscatto – che rappresenta un prezzo in ogni caso molto meno di valore per le nostre tasche del suo ritorno a casa – come se fosse un gossip, senza alcuna fonte ufficiale.

Ed ecco che, ancora, vengono silenziate la voce e l’esperienza di una donna, Silvia – ora, Aisha – i suoi tempi, i suoi modi, il suo diritto all’elaborazione, la sua forza d’animo – che non va bene perché non rappresenta lo stereotipo della vittima – o la sua fragilità.

La vicenda di Aisha, infatti, porta alla luce due aspetti determinanti che negli ultimi mesi sono emersi con evidenza nella nostra esperienza quotidiana. In primo luogo, un sentimento di patriottismo paternalista, che si palesa nei modi più variegati, di cui le disgustose frasette sotto alle foto del ritorno in Italia di Aisha sono esempio lampante. Un paternalismo che vuole controllare le nostre scelte di vita, decidendo di volta in volta se definirci eroine, vittime o indegne a seconda della convenienza, una morale che esclude chiunque non sia maschio, adulto, bianco, cisetero, italiano o conforme agli standard “italianissimi” perfino modaioli. In secondo luogo, un’esasperante ondata di odio e di xenofobia: Silvia è stata “accusata” di tradimento per la sua estetica a sole ventiquattro ore dalla sua liberazione, con dibattito violentissimo apparentemente più appassionante del valore politico di questi 18 mesi di resistenza alla prigionia. I commenti islamofobici sulla conversione all’Islam sono infatti presto diventati il fulcro di questa vicenda – il “giallo della conversione”-, sprecando tante parole che con il ritorno a casa di Aisha non hanno nulla a che fare.

Nella narrazione pubblica Silvia è passata in poche ore dall’essere “eroina” dall’apparenza salvifica, narrazione funzionale al paradigma di dominio dei bianchi, all’essere inadeguata e “da rimandare indietro”. Decolonizzare la cooperazione internazionale, significa non narrare il contributo dell’occidente come salvifico verso il villaggio delle persone di colore – spesso bambini con foto costruite ad hoc per rafforzare l’idea di una “modernità” da insegnare – , ma accettare che l’esperienza della cooperazione sia uno spazio di mutuo apprendimento e di messa in discussione di sé. Silvia questo lo sapeva bene. Lei – laureata presso una scuola per mediatori linguistici per la sicurezza e la difesa sociale con una tesi sulla tratta di esseri umani, partita per mettere al servizio della comunità le conoscenze acquisite e, soprattutto, per vivere la propria vita secondo i suoi desideri e seguendo le sue scelte – merita di parlare da sé e questo è lo spirito con il quale scriviamo questo articolo.

Siamo gonfie di rabbia. Sembra assurdo dover sottolineare tutto questo a poche ore dal rilascio di una donna imprigionata per 18 mesi, ma ci teniamo a dire che le scelte di Aisha non sono affare pubblico. Noi siamo dalla sua parte, dalla parte del suo privato da tutelare, dei suoi tempi di elaborazione, dei suoi bisogni e dei suoi desideri per il futuro. Ci uniamo a quell’abbraccio che il suo quartiere di Milano le ha regalato e non vogliamo rinunciare alla gioia che abbiamo provato vedendola tornare, nonostante questo dibattito pubblico ci stia facendo sputare non poco sangue amaro.

Vogliamo stringerti Aisha, perché non lasciamo nessuna indietro né sola, perché questa narrazione violenta non è la prima e -probabilmente- non sarà neanche l’ultima nel periodo a breve termine e rappresenta un attacco politico e sociale sistemico contro i nostri corpi, le nostre scelte, le nostre esperienze e la nostra vita. Vogliamo farlo, perché abbiamo imparato che dobbiamo proteggerci e sostenerci da sole ma insieme, soprattutto quando le istituzioni sono le prime ad esporci a queste narrazioni senza alcuna tutela verso il nostro vissuto.

Le descrizioni, i commenti carichi d’odio e le narrazioni spettacolari di questa vicenda sono una questione politica. Non possiamo rimanere in silenzio di fronte all’ennesima strumentalizzazione dei corpi e delle vite delle donne o delle persone che non rientrano nei margini della norma. Ogni volta che si cercherà di decidere sulle scelte e sulle vite delle persone noi saremo rivolta, perché “non era previsto che sopravvivessimo”, ma è successo e siamo marea.

Bentornata Aisha, non sei sola!

Da NUDM Torino

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