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Genere e impresa

Appunti di riflessione a cura del laboratorio sguardisuigeneris

 

Il capitalismo non è un sistema neutrale rispetto al genere e, al contempo, i processi di soggettivazione sono inseparabili dalle condizioni storico-sociali entro cui si dispiegano. Da questa premessa di ordine generale consegue la necessità di non lasciare impensate le relazioni specifiche tra genere e organizzazione della produzione e del lavoro nel capitalismo contemporaneo. Il quadro di riferimento risulta – di necessità – estremamente complesso e le riflessioni che seguono non possono che denunciare preventivamente la loro parzialità. Una parzialità, tuttavia, che ambisce a non essere manchevole e che, al contrario, si fa metodo, ambendo così – come insegna Walter Benjamin – ad un proprio statuto epistemico.

Quale ruolo gioca il genere all’interno del sistema produttivo contemporaneo? Questa – ridotta all’osso – la domanda da cui muovono queste brevi riflessioni. In termini diagnostici, le analisi più convincenti mettono in luce la natura ibrida del processo di accumulazione attuale entro il quale sfumano i confini che tradizionalmente delimitavano i luoghi della produzione. Vita e lavoro tendono a confondersi e, al contempo, una porzione significativa dei mezzi di produzione è incorporata nel lavoro vivo.
Ciò che è sempre stato vero per le donne, diventa norma generalizzata: si avvia un processo globale di “femminilizzazione del lavoro” in cui le condizioni storiche del lavoro femminile vengono estese alla società intera.
Il dispositivo della “cura” – che storicamente legittima il lavoro gratuito delle donne all’interno della famiglia – diviene logica dominante, diffusa e fortemente interiorizzata. Ciò è particolarmente visibile nel lavoro cognitivo in senso stretto dove il legame affettivo con l’oggetto del lavoro risulta essere uno strumento straordinario di sussunzione e sfruttamento. Ma, in termini più generali, si può notare come le varie forme di fidelizzazione – tanto del lavoratore che del consumatore – facciano leva su disposizioni affettive del soggetto. La prima relazione tra genere e impresa va dunque ricercata a livello di regimi discorsivi: sembra impossibile – o quanto meno difficile – riuscire a decifrare la semantica del capitale senza un riferimento puntuale, strutturale e non retorico, all’esperienza delle donne.
Se le forme del consenso incardinate sulla femminilizzazione del lavoro sono una tessera importante nel mosaico della produzione, non bisogna però trascurare il peso dei dispositivi esterni di sfruttamento, specialmente alla luce dell’incremento progressivo e radicale della precarietà. Anche a questo livello, la prospettiva di genere offre una visuale privilegiata. Le condizioni lavorative più svantaggiose, infatti, spettano alle donne e ai migranti imponendo un ripensamento dei rapporti di lavoro che tenga conto della loro frammentazione in termini di razza e genere.

Infine, la prospettiva di genere appare determinante per decostruire forme patologiche di valorizzazione delle competenze e delle conoscenze che sembrano informare la quasi totalità delle retoriche istituzionali. L’ideologia meritocratica, ad esempio, è inseparabile da una sorta di “chiamata alle armi” delle donne: sulla leadership femminile nelle aziende (o in generale nei posti di comando) si costruisce  una vera e propria ridefinizione delle forme di sfruttamento che va ben al di là della facciata del politicaly correct. Il merito – spacciato per criterio assoluto – risulta fortemente «genderizzato».

Queste considerazioni mostrano – se pur in forma parziale – l’esistenza di una specificità di genere nel discorso e nelle pratiche del capitalismo contemporaneo. In modo speculare, si può ipotizzare che i percorsi politici di composizione soggettiva e di sottrazione ai dispositivi di sfruttamento non siano neutri. Ciò implica una seria declinazione in chiave di genere delle maggiori sfide politiche presenti e future. La recente mobilitazione delle operaie del gruppo Omsa offre un’indicazione preziosa in questa direzione. Il genere, infatti, ha giocato un ruolo decisivo nell’intera vicenda, specialmente nel processo di sensibilizzazione collettiva sulla vertenza delle lavoratrici. Il sostegno generalizzato alla causa delle operaie Omsa, infatti, si è costruito sul riconoscimento reciproco tra soggetti femminili e si è espresso nella forma di un boicottaggio nazionale del marchio aziendale. «Non vestiremo sfruttamento» è stato lo slogan condiviso nelle numerose iniziative sul territorio nazionale: lavoratrici e consumatrici hanno costruito un terreno d’incontro e di cooperazione autonomo a partire dall’adozione di un linguaggio e di un immaginario fortemente connotato dal punto di vista di genere

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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