Insicurezza percepita e lavoro gratuito: sull’integrazione “progressista” allo sfruttamento
Ormai da diversi mesi dobbiamo trattenere il vomito in merito al “dibattito” sui migranti, e in particolare sul tema del loro “inserimento” nella società.
Il disgusto non deriva soltanto da quanto riguarda il razzismo sempre più sdoganato nei confronti della pelle nera. Molto spesso a fare ancora più ribrezzo sono le retoriche che contrappongono alla tangibile ventata di odio per il migrante, una sua difesa a partire da processi di infantilizzazione e messa al lavoro. Un razzismo di differente costituzione, ma nient’altro che razzismo.
Conseguenza di questo schema mentale è la pratica di enfatizzare i comportamenti corretti del ‘buon migrante’, nell’idea che questo serva a fare accettare maggiormente chi arriva nel nostro paese e a contrastare l’odio razziale.
Accettare forme di lavoro gratuito, teoricamente insostenibile (giustamente!) per i bianchi, diventa automaticamente emblema delle pratiche virtuose del migrante buono e dei suoi processi di integrazione. Il migrante, il nero, non è mai visto come possessore di legittimi sogni e di una personale traiettoria di vita, ma come un corpo vuoto da inserire in uno schema già disegnato.
La trappola della teoria della “insicurezza percepita” tanto sbandierata dalla dottina Minniti, la cui soglia proprio poichè non scientifica è perennemente a discrezione del potere mediatico e politico, si mostra come sdoganatrice dei peggiori dispositivi retorici coloniali e di meccanismi che perpetuano la subordinazione sulla linea del colore.
E’ una vera e propria “invenzione” tra i peggiori lasciti del Partito Democratico, quella in cui governi ‘progressisti’ mettono a punto programmi specifici di “lavori socialmente utili” istituzionalizzati per fare accettare i migranti e per testimoniare il loro impegno per la stabilità sociale. Pulire parchi o sentieri, ripulire muri, ovviamente gratis: di fatto, lo sfruttamento viene mascherato da azione per eliminare la percezione negativa del migrante. Il lavoro rende liberi…e accettati.
Ne deriva che il migrante, per non essere percepito in maniera negativa, debba essere sfruttato e messo al lavoro. Gli va costruita intorno una gabbia mascherata da integrazione. È lo stesso meccanismo etico che porta a esaltarsi per un nero che pulisce lo stadio, mostrando come anche nella “società civile progressista” si sia interiorizzata una condizione di barbaro del migrante che porta allo stupore quando questa viene smentita.
Se in città come Bologna ad esempio è passata questa bella moda di mettere al lavoro il nero per farlo integrare, un dato di cronaca interessante arriva da Zone (Brescia), dove va segnalato come il rifiuto dei migranti al diktat del locale sindaco di lavorare gratis abbia fatto cadere il velo, questo si buonista, dell’amministrazione che si è trovata di fatto obbligata ad ammettere che l’unico migrante buono è quello che lavora gratuitamente.
Al posto di quelli mandati via per il gran rifiuto a farsi sfruttare, ne arriveranno altri, dice il sindaco, che spera siano ‘più collaborativi’. Ovvero disposti ad essere sfruttati per ripagare la loro colpa sociale: avere la pelle nera ed alimentare l’insicurezza percepita dai bianchi.
Da un lato abbiamo pistolettate e tentati omicidi, narrati in maniera molto soft non solo dai media più vicini a Salvini, ma anche da quelli legati ai “progressisti” ( basti pensare all’etichetta di “rivolte” date ad alcuni attacchi ai centri d’accoglienza quando spesso si è trattato di azioni palesemente attribuili a gruppi neofascisti). Dall’altro abbiamo la messa al lavoro coatta, lo sfruttamento più becero di una situazione di “emergenzialità” prodotta ad arte. Le cose non sono in contraddizione purtroppo, ma mostrano il ruolo tagliato per il migrante nel nostro paese: o lavora gratuitamente, o la sua vita conta meno di zero.
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