L’8 marzo a Betlemme
Ed è qui che le donne palestinesi festeggiano il loro 8 marzo, che a Betlemme è cominciato già dal 5: “Due giorni fa è andato in scena un gruppo di Ramallah che è venuto a Mehwar con il suo spettacolo – racconta un’operatrice italiana del Centro – mentre il 6 c’è stato un trio di musiciste che dopo il concerto si sono offerte di insegnare i primi rudimenti dei loro strumenti alle donne che sono qui. Ma il grande giorno è oggi, 8 marzo, perché il Comune di Betlemme ha promosso un’iniziativa sulla piazza, dove si affacciano sia la chiesa della natività sia la moschea, per un confronto pubblico di tutte le organizzazioni di donne dell’area che prendono parte a un grande progetto della Cooperazione italiana: il Tawasol, che cerca di rendere stabile e strutturata la rete delle organizzazioni delle donne della Cisgiordania”.
Tawasol è il progetto che coordina la rete di tutte le associazioni di donne presenti su l’intero territorio palestinese ed è molto utile perché c’è uno scambio tra diverse realtà che serve a risolvere problemi diversi tra loro, mentre Mehwar coordina i centri antiviolenza aperti in territori molto tradizionali che sono nella zona di Hebron, e precisamente a Dura, Yatta e Hall, luoghi in cui non si esce di casa e dove gli sportelli sono stati aperti in edifici dove ci sono anche altri servizi, in modo da poter permettere alla donna di dire che sta andando dal medico o comunque da un’altra parte. Non c’è da stupirsi se si considera che in Palestina è ancora in vigore una legge giordana che risale al ’56, che prevede la pena di soli 3 mesi di carcere in caso di omicidi d’onore di mogli, sorelle o figlie.
“Quando abbiamo pensato di fare il Centro antiviolenza in Palestina – spiega Moroli – abbiamo incontrato i ministri coinvolti e tutti ci dicevano che una cosa del genere lì era impensabile perché una donna che denuncia una violenza disonora tutta la famiglia, che non è padre, madre e figli, ma un intero clan. Così abbiamo costruito un luogo utile alla comunità e non un luogo reietto, inserendo non solo una serie di consulenze di tipo legale e psicologiche, ma anche una palestra gratuita, una caffetteria, un baby garden, una sala multimediale, aperti a tutte le donne, e ci sono state tantissime di loro che sono uscite di casa per la prima volta per venire in palestra”.
Quando Mehwar è stato progettato era il 2000 e ci sono voluti 7 anni per costruirlo e prepararlo: il Centro è stato inaugurato nel 2007 alla presenza dei ministri di Hamas. Il merito è stato di Diana Mubarak, del ministero degli Affari Sociali, che nel 2000 è andata a chiedere aiuto alla cooperazione italiana perché non sapevano più come gestire le violenze e gli abusi sulle donne: e qui un uomo sensibile al problema, il dottor Aldo Sicignano direttore della cooperazione, si è interessato e ha dato vita al progetto. Un altro contributo importante è stato quello della municipalità di Betlemme che ha donato il terreno su cui è stato edificato il Centro, un regalo significativo in un luogo dove la terra è la patria pagata col sangue. L’edificio, che è stato costruito dagli architetti Roberto Barretta e Salameh Murkark, è una struttura fatta da due anelli concentrici con al Centro il giardino e le stanze delle donne, intorno a cui c’è un altro anello con gli uffici e le strutture aperte al pubblico come la palestra, il caffé, ecc. Una struttura unica al mondo in cui il Centro di accoglienza vero e proprio non si vede ed è protetto dall’anello esterno che invece è collegato al territorio, in modo da unire l’esigenza di protezione di queste donne, che a volte sono anche rivendicate e cercate dalle stesse famiglie che le hanno abusate, senza trascurare l’importanza dell’apertura all’esterno con strutture rivolte a tutte le donne, anche quelle non abusate.
“Per capire il livello di sudditanza – continua Emanuela Moroli – ti racconto la storia di una donna che aveva il figlio di 6 anni gravemente malato e che non poteva portare il piccolo dal medico perché il marito era fuori e lei non poteva andare da sola. Il bimbo è stato salvato da un parente, maschio, che lo ha preso e portato all’ospedale”. In Palestina c’è un abisso tra la città e i villaggi rurali, perché in città le donne sono più avanti, più emancipate, più consapevoli, mentre nei villaggi ci sono situazioni limite, anche in materia di libertà personale. Eppure dei passi da gigante sono stati fatti, perché quest’anno il ministero palestinese degli Affari sociali ha presentato un piano nazionale antiviolenza, un evento importantissimo per questo territorio. Malgrado questo il cruccio è che adesso, a 10 anni dal progetto, il Centro passerà in mano alle istituzioni, una cosa prevista dal progetto stesso ma che un po’ preoccupa chi ha dato vita a Mehwar “perché l’istituzione potrebbe ammazzare il Centro”.
La presidente di Differenza Donna, che ha formato tutte le operatrici che lavorano nel Centro con un interscambio durato anni tra le donne italiane e quelle palestinesi, è convinta che “con tutte le buone intenzioni, in realtà l’istituzione qui tende sempre a rimandare le donne a casa dopo il recupero e questo è un boomerang perché molte ricadono nello stesso problema per cui si sono arrivate. E’ vero che in Palestina una donna non può vivere da sola perché sarebbe emarginata, e quindi sono loro stesse che vogliono tornare a casa, ma il rischio è che siano uccise o che ritornino al Centro per nuove violenze, e quindi, il più delle volte, si cerca di affidare la donna a parenti o di farle avere un alloggio vicino la casa della famiglia. Alle volte però fuggire è l’unica possibilità e ricordo una delle poche donne arrivata da noi che non è più tornata a casa: era una ragazza venuta al Centro dopo che il padre l’aveva colpita con 4 colpi di arma da fuoco perché a 19 anni si era innamorata di un ragazzo cristiano. La fortuna ha voluto che l’uomo fosse convinto di averla uccisa, mentre lei era viva ed è stata soccorsa e portata in ospedale dove è stata salvata. Il suo percorso è stato esemplare perché questa ragazza ha ricominciato lentamente a vivere dopo aver visto in faccia la morte, ma il problema si è ripresentato quando il padre ha saputo che era ancora viva e la rivoleva a tutti i costi. Un giorno si sono presentati al cancello di Mehwar tre macchine con dentro uomini armati fino ai denti. Appena li ho visti arrivare ho capito e ho messo la ragazza su una macchina, dal retro, facendola portare in un albergo. Appena in tempo perché il padre, accompagnato da due uomini armati, è entrato chiedendo di lei. Noi eravamo rimaste in due, io e la coordinatrice, e lo abbiamo affrontato con un testa a testa di 5 ore. La cosa buffa era che lui rivendicava il possesso della donna perché era sua figlia e non capiva perché noi non gliela davamo e mi diceva arrabbiato: ‘ma cosa importa a te? Non è roba tua’. A un certo punto gli ho chiesto la ragione per cui dovevo dargli la ragazza sapendo che l’avrebbe uccisa, il perché avrei dovuto dare una persona in mano al suo assassino. In conclusione li abbiamo talmente esasperati che o ci uccidevano o se ne andavano. Se ne sono andati e oggi questa ragazza è viva, lavora in un altro paese, e soprattutto è libera”.
Laura Betti per Fuoripagina
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