La crisi della crisi degli sbarchi di Lampedusa
Le condizioni di vita disumane, cui erano stati soggetti gli uomini e le donne sbarcati negli ultimi mesi sulle coste lampedusane, venivano sopportate, da chi inseguendo una nuova vita era stato pronto a rischiarla attraversando il mediterraneo, come un prezzo iniquo ma, con enormi sforzi, accettabile, per esercitare la propria libertà ed il proprio diritto a costruirsi una vita dove la desideravano. E così veniva tollerata la scarsità dei servizi igienici dei beni alimentari e dell’acqua e dei posti letto. Un assurda, barbarica ma breve parentesi attribuita all’incapacità o alla crudeltà del governo italiano, una situazione comunque sopportabile dato la posta in palio. Un’emergenza la cui pretestuosità, è giusto sottolinearlo, è messa in piena evidenza dai numeri in questione, poche migliaio sono infatti le persone che compongono lo tsunami umano abbattutosi su Lampedusa, un’inezia in una nazione di sessanta milioni di abitanti. Circostanza questa che rendeva chiara, fin dalle premesse, che altre erano le ragioni che avevano portato ad una tale gestione della crisi. Appare evidente, in prima istanza, il tentativo di far esplodere la tensione tra residenti e migranti, esacerbando scientemente gli animi dei lampedusani, manovra depotenziata dall’impermeabilità mostrata ancora una volta dagli isolani alle derive xenofobe promosse dall’agire del governo. Questo fallimento ha impedito di poter procedere a deportazioni e reclusioni con mano totalmente libera ed a svelato in buona misura le ipocrisie della macchina governamentale pronta a costruire artificiosamente una criticità per spostare il sentire comune.
La possibilità di un rigurgito razzista che rendesse necessario l’azione pesante dello stato a ripristinare l’ordine costituito ai confini è stata, stando a ciò che finora è emerso, qualcosa di più di una speranza. Fallita questa possibilità, fallimento suggellato dalla visita del presidente del consiglio a Lampedusa, la politica, ma soprattutto la retorica (dato che lo sfruttamento del lavoro migrante irregolare è uno dei pilastri su cui regge il sistema-paese), del fora di bal, pietra angolare del governo Berlusconi, riprende comunque a muoversi, da un lato il lento rimpatrio via ponte aereo verso Tunisi di una parte dei migranti, e contestualmente, abbandonata l’ipotesi, resasi impraticabile, di tenere tutti i tunisini a Lampedusa in attesa di rispedirli da dove sono venuti, i trasferimenti dei migranti nei vari C.I.E. Italiani, tentando così di disinnescare e diluire le tensioni che il concentramento lampedusano causava. Dall’altro il rilascio di permessi di soggiorno temporanei, che permetterebbe un rapido deflusso dei migranti verso mete loro più congeniali, che stanno rendendo più acute e scoperte le tensioni che separano l’Italia dalla Francia e dalla Germania colonne portanti dell’UE. Uno scontro che riverbera gli interessi divergenti in Libia, evidenti nelle tensioni interne alla missione NATO e mostra alcune crepe profonde nella costruzione comunitaria sempre più gravemente minata dagli effetti della crisi (nei molti modi in cui essa colpisce) e che ha portato la comunità europea a rigettare la misura messa in campo dal governo italiano facendo minacciare all’Italia, per bocca del ministro Maroni, l’abbandono dell’unione. Una crisi che sta impegnando in questi momenti il commissario Barroso a Tunisi in un tentativo di ricomporre la frattura, spingendo il governo nordafricano ad aumentare il numero di rimpatri giornalieri, con una soluzione che giri attorno al problema.
Alla luce di tutto ciò la narrazione ufficiale dei fatti di Lampedusa appare in tutta la sua pochezza. Quello che accade non è un’emergenza umanitaria, è la sedimentazione degli svariati interessi che si muovono in questa faccenda. Questioni tutte esterne alla “crisi degli sbarchi” animano il meccanismo governamentale che si è messo in moto e che agisce sulla vita dei migranti (ma anche di chi a Lampedusa ci abita) senza alcuno scrupolo.
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