La Francia e il Mediterraneo
Il 18 aprile sono morte 950 persone (ultima stima), affogate nel tentativo di attraversare il Mediterraneo nelle condizioni di mobilità selettiva oggi imposte da un insieme di fattori politici (tra cui, in primis le politiche europee e la cosiddetta “operazione Triton”). Le stime sono incerte, imprecise per costituzione. L’errore relativo – uno più, alcuni di più? – è il segno del modo sommario con cui si tratta la vita di migliaia di uomini e donne che, agli occhi dell’Europa, esistono, paradossalmente, solo quando muoiono, come aggregato umano informe, come variabili di poco conto di una “tragedia” che, nella scelta delle parole (vile più che mai), diventa fatto naturale, incidente. Oppure, stando ad una soluzione retorica altrettanto oscena, sono uomini e donne che prendono consistenza soltanto come vittime nelle mani di un manipolo di aguzzini, odierni trafficanti di vite, che, a pensarci anche solo un attimo, non si capisce bene cosa dovrebbero trafficare sulle rotte del Mediterraneo se quest’ultimo non fosse pezzo di un mondo implicato tutto intero dalle migrazioni massive degli esseri umani.
Eppure, nella realtà, questi uomini e queste donne esistono anche prima di morire, così come le realtà e le situazioni di partenza, di attraversamento e di (tentato) approdo. Non è superfluo ricordarsene perché, insieme alle morti, sarebbe il caso di farsi carico di tutto ciò che le precede come fattore causale. Quale rapporto tra i flussi umani (e le forme in questi sono imbrigliati) e quelli del capitale? Quali tra le migrazioni, guerre e scenario interazionale? Quali tra l’impoverimento di tutti, l’arricchimento di pochi e il massacro di molti? Quale tra i passati coloniali dei vari paesi europei e l’Europa? Poche e ovvie questioni (è necessario aggiungerne, dettagliare, rompere il capello in quattro, come si dice) a cui, tuttavia, solo una parte ristretta degli europei, rigorosamente fuori – spesso contro – alle istituzioni nazionali e comunitarie sembra richiedere una risposta e, per quanto possibile, tentarne qualche abbozzo nella convinzione di poter fare anche dell’analisi materia di trasformazione.
Responsabilità intellettuali e politiche, dunque, che un sentimento di solidarietà dovrebbe cementificare, moltiplicare, far entrare in risonanza. Questo non accade però, né la solidarietà né il lutto sembrano assumere una forma collettiva e condivisa. Parlo almeno per il luogo in cui mi trovo, la Francia: due rassemblements a République in seguito alle morti di qualche giorno fa (che si sommano a molte altre), l’uno e l’altro composti da non più di 200 persone, in gran parte sans papier.
Fa un po’ impressione dopo la piazza oceanica del post-charlie: non per una sorta di “antropologizzazione del dolore” (come una studiosa canadese ha definito la strana tendenza a paragonare le vittime tra loro in modo storicamente decontestualizzato) che, mentre accetta l’ineguaglianza dei vivi assume come data l’uguaglianza dei morti, salvo stupirsi tanto ingenuamente quanto ipocritamente che non è così, che agli esseri umani spetta trattamento ineguale, tanto da vivi, quanto da morti. No, non è questo che disorienta nel paragone (e non per cinismo), ma il divenire rigidamente territoriale di quelle parole così veemente scandite all’indomani degli attentati che si manifesta nella sproporzione tra l’isteria collettiva e l’assenza totale di partecipazione. Libertà, fraternità e uguaglianza dentro confini ben definiti o, ancora peggio e più realisticamente, per rimarcare confini e tracciarne di nuovi. Si tratta, tuttavia, di una delle tante modulazioni che formano il discorso politico maggioritario dell’Europa così com’è e che danno la misura del deserto umano e sociale con cui la fiducia e l’irriducibilità del desiderio di libertà, solidarietà e giustizia si misurano oggi.
Parigi, 24 aprile 2015
Simona De Simoni
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