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Le femministe palestinesi resistono alla colonizzazione combattendo la violenza sessuale

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Da sempre, le femministe palestinesi hanno denunciato, resistito e modellato un mondo al di là della violenza etero-patriarcale che è alla base del progetto coloniale israeliano chiedendo, a livello globale, che la lotta palestinese sia una questione di giustizia femminista e riproduttiva.

Fonte: english version

Nadine Naber, Truthout – 15 Luglio 2021

Immagine di copertina: Donne palestinesi tengono in mano cartelli mentre si radunano per una manifestazione a sostegno delle donne palestinesi prigioniere nelle carceri israeliane di fronte all’edificio del Comitato internazionale della Croce Rossa a Gaza City, Gaza, il 6 novembre 2019. (Mustafa Hassona/ Agenzia Anadolu Via Getty Images)

All’inizio di quest’estate, diverse agenzie di stampa hanno riferito che il Palestine American Community Center (PACC) nel New Jersey, dove i palestinesi americani si riuniscono per le attività della comunità, l’impegno civico e le azioni di soccorso umanitario, è stato “bombardato da telefonate minacciose per 7 ore”. Eppure, forse a causa della cultura patriarcale alla base dei media statunitensi, i giornalisti non hanno prestato molta attenzione alla natura di genere e sessualizzata di queste minacce, caratterizzate da un linguaggio comprendente violenza sessuale e stupro:

Chiamante: “È il centro comunitario dei terroristi?”

Chiamante: “Verrò a violentarvi e vii darò un assaggio della vostra stessa medicina”.

La natura sessualizzata di queste minacce è stata solo un esempio recente di come in tutto il mondo lo stato israeliano e i suoi sostenitori si affidano spesso al sessismo e all’omofobia per promuovere il progetto del colonialismo israeliano.

In effetti, la dipendenza dello stato israeliano dal targeting sessuale e di genere dei corpi palestinesi è una componente essenziale della colonizzazione che devasta profondamente la vita delle donne e delle persone LGBTQ e ostacola le possibilità di cure materne, assistenza e costruzione di relazioni.

Eppure, da sempre, le femministe palestinesi hanno denunciato, resistito e modellato un mondo al di là della violenza etero-patriarcale che è alla base del progetto coloniale israeliano chiedendo, a livello globale, che la lotta palestinese sia una questione di giustizia femminista e riproduttiva.

Poiché il colonialismo israeliano trova il suo perfetto alleato nel colonialismo statunitense, i sostenitori di Israele con sede negli Stati Uniti hanno reificato questo modello per decenni,  insultando costantemente i leader e gli attivisti della comunità palestinese e minacciandoli (non solo le donne) di stupro e aggressione sessuale. Il recente attacco al membro del Collettivo Femminista Palestinese (PFC) Rasha Mubarak, presidente di Unbought Power, è solo un esempio di come questa strategia di repressione colpisca in particolare le attiviste donne. Dopo aver co-diretto iniziative per chiedere che i legislatori statali della Florida condannino la violenza israeliana e supportino  la libertà di parola in Palestina, i sostenitori pro-Israele l’hanno accusata di essere un’ “islamista” che prende di mira “ebrei e gay”.

Che sia reale o solo una minaccia, la violenza sessualizzata invocata al servizio dello stato israeliano promuove uno dei fondamenti del colonialismo dei coloni: il dominio e il controllo del popolo palestinese, che richiede la violazione dei corpi delle donne palestinesi. Una logica patriarcale e il suo binario eteronormativo di genere guidano queste violazioni coloniali riducendo le donne a semplici portatrici di generazioni future e quindi responsabili della riproduzione in Palestina.

Considerate il massacro del villaggio di Deir Yassin, un momento centrale nello sfollamento di 700.000 palestinesi dai loro villaggi durante la Nakba del 1948, un evento che palestinesi e arabi  dicono che “non dimenticheremo mai” e che i sostenitori di destra di Israele negano che sia mai accaduto . Raccontando la sua esperienza quando i combattenti sionisti andarono di casa in casa con i mitra spianati, Fahimeh Ali Mustafa Zeidan ricordò in seguito:

“Loro ci uccisero uno per uno. Spararono a mio cognato e quando una delle sue figlie urlò, spararono anche a lei. Chiamarono quindi mio fratello Mahmoud e gli spararono davanti a noi e quando mia madre urlò e si chinò su mio fratello, tenendo in braccio la mia sorellina Khadra, che stava ancora allattando, spararono anche a mia madre… Poi ci misero in fila, ci spararono addosso e se ne andarono”.

Molte testimonianze palestinesi degli eventi che accompagnano la creazione dello stato di Israele coinvolgono ricordi di stupri e aggressioni sessuali, anche se il targeting letterale e metaforico di Israele dei corpi delle donne palestinesi continua ancora 73 anni dopo.

Ad esempio, l’appartenente al Collettivo Femminista Palestinese Nada Elia ricorda il suggerimento dell’ufficiale dell’intelligence militare israeliana Mordechai Kedar il quale ha detto che l’unica cosa che potrebbe scoraggiare gli attacchi di un militante di Hamas “è sapere che se catturato, sua sorella o sua madre sarebbero state violentate”. Cita anche il ministro degli Interni israeliano Ayelet Shaked che ha apertamente chiesto l’omicidio delle donne palestinesi perché danno alla luce “piccoli serpenti”.

Proprio come le forze suprematiste bianche negli Stati Uniti utilizzano le madri nere come capro espiatorio nel tentativo di distogliere l’attenzione dalla criminalizzazione razzista degli uomini neri da parte dello stato, i funzionari statali israeliani e i media prendono come capro espiatorio le madri palestinesi, descrivendole come “sostenitrici del terrorismo” che spingerebbero i loro figli a morire piuttosto che amarli e proteggerli.

Elia aggiunge che tali commenti riflettono un’infrastruttura  israeliana progettata per provocare alti tassi di aborti spontanei, bloccando le risorse di base come l’acqua e le forniture mediche e creando in generale condizioni disumane e invivibili per i palestinesi. Per i sostenitori del colonialismo israeliano, il controllo della riproduzione palestinese è essenziale per mantenere una maggioranza ebraica in terra palestinese.

Questo è il motivo per cui, come ha stabilito Rhoda Kanaaneh, pioniera del femminismo della giustizia riproduttiva palestinese, le politiche statali israeliane incoraggiano gli ebrei israeliani a riprodursi, mentre scoraggiano gli israeliani palestinesi dall’avere figli. Questo spiega anche perché Souzan Naser e il collettivo MAMAS hanno chiesto che la liberazione della Palestina sia una questione di giustizia riproduttiva.

I prigionieri politici palestinesi (cioè tutti i palestinesi incarcerati nelle carceri israeliane), nonostante la loro identità di genere, affrontano la minaccia e la realtà della violenza sessuale e delle torture sistemiche. Parallelamente alla strategia imperialista omofoba e sessista utilizzata dai soldati statunitensi nello scandalo delle torture di Abu-Ghraib in Iraq, lo stato israeliano prende di mira i prigionieri politici basandosi sul presupposto razzista che la cultura araba sia “iper-misogina” e radicata in concetti apparentemente arretrati o “selvaggi” dell’onore e della vergogna della famiglia. Secondo uno schema ben consolidato, i soldati israeliani minacciano i detenuti palestinesi di far entrare un membro della famiglia per vedere i soldati aggredirli sessualmente o di punirli aggredendo sessualmente i loro familiari.

Questa strategia colonialista e imperialista è guidata dall’idea razzista che la punizione sessualizzata sia un modo “speciale” per punire le persone della regione araba. Secondo questa logica colonialista-razzista, dal momento che le molte persone spesso etichettate come “palestinesi, arabi e musulmani” sono considerate “eccezionalmente sessiste”, la violenza sessuale è considerata particolarmente spaventosa per loro. Ma, come chiede la ricercatrice Trishala Deb nell’analisi dei soldati statunitensi che hanno usato una logica simile contro i prigionieri di guerra iracheni, per quale cultura questi atti di aggressione sessuale, stupro e omicidio sarebbero meno spaventosi?

A dire il vero, Elham Bajour e Lena Meari ci ricordano che tali strategie mirano a  far desistere i palestinesi dal partecipare alla resistenza contro la colonizzazione israeliana. Tuttavia, spostano anche l’attenzione pubblica dalla violenza di stato statunitense e israeliana verso l’apparente “ferocia sessuale” o “arretratezza” di palestinesi e arabi.

Il pinkwashing è una strategia correlata che Israele dispiega per distogliere l’attenzione dalla sua oppressione dei palestinesi di fronte a un crescente movimento internazionale di solidarietà ai palestinesi. Gli attivisti di Al Qaws, incentrati sulle esperienze dei palestinesi queer, descrivono il pinkwashing come uno sforzo di propaganda internazionale che mira a presentare Israele come uno stato “moderno” e quindi “gay friendly” rispetto all’entità musulmana “arabo-palestinese” descritta come  iper-omofoba.

Al Qaws ci ricorda che il pinkwashing non solo serve a giustificare il colonialismo dei coloni (i palestinesi omofobi “selvaggi” devono essere dominati e civilizzati da israeliani moderni, progressisti e gay friendly) ma divide anche i palestinesi. Ad esempio, aliena i palestinesi queer definendo la diversità sessuale palestinese come inesistente o innaturale.

Esponendo l’impatto di queste strategie sulle comunità palestinesi, Sarah Ihmoud afferma che il targeting israeliano dei corpi delle donne palestinesi genera il patriarcato tra i palestinesi, portando a cambiamenti nei rapporti di potere all’interno delle famiglie e delle comunità. Ad esempio, alcuni membri della famiglia, preoccupati per la minaccia di aggressioni sessuali, potrebbero, consapevolmente o inconsapevolmente, rafforzare le componenti patriarcali allontanando comprensibilmente le figlie dall’attivismo politico.

Proprio come le politiche colonialiste degli Stati Uniti hanno forzosamente separato i bambini indigeni dai loro genitori e hanno attaccato i diritti delle madri indigene, a molti palestinesi viene negata la possibilità di prendersi cura della madre, proteggere i propri cari e godersi la gioia delle relazioni, dell’unione e della costruzione della comunità. In Cisgiordania e a Gaza, le centinaia di posti di blocco israeliani che limitano il movimento dei palestinesi sono un luogo cruciale di violenza contro i corpi delle donne palestinesi. Lì, alle donne in travaglio viene negato o ritardato il raggiungimento degli ospedali costringendole a partorire ai posti di blocco, con a volte conseguente aborto spontaneo e morte.

Ci sono molti altri modi in cui la colonizzazione israeliana attacca sistematicamente la maternità e l’assistenza dei palestinesi, comprese le incursioni dei soldati israeliani nelle case palestinesispesso accompagnate da molestie sessuali su madri e figlie. Le sistematiche e impunite sparatorie verso i bambini, le separazioni familiari e l’impatto devastante dei massacri e delle uccisioni determinano crescenti tassi di aborti spontanei e di nati morti.

Di fronte a queste atrocità, già dall’inizio del XX secolo, quando gli ebrei europei iniziarono a migrare dando inizio alla colonizzazione della Palestina (prima che lo stato di Israele fosse istituito nel 1948), le donne palestinesi hanno forgiato visioni e movimenti di resistenza. La mappatura di questi movimenti effettuata da Eileen Kuttab ci insegna che il periodo dagli anni ’20 al 1947 ha sviluppato un distinto programma femminista di liberazione nazionale; quello dal  1948 al 1967 un lavoro di resistenza e di mutuo soccorso di fronte alla massiccia distruzione e frammentazione risultante dalla creazione dello stato di Israele; il periodo  dal 1967al 1976 il sostegno alla società di fronte a pressioni sempre maggiori  e a un crescente movimento di resistenza e infine quello dal  1976 al 1981 ha ispirato le organizzazioni di massa delle donne che hanno organizzato e mobilitato le donne nei villaggi e nei campi profughi utilizzando le questioni nazionali e femminili come strutture di base per il loro impegno, impegno che si è esteso ed è cresciuto durante la prima intifada del 1987-1991.

La massiccia escalation della violenza israeliana durante la seconda intifada del 2000 ha indebolito i movimenti delle donne e il decennio successivo ha visto quello che Manal Jamal chiama “l’emancipazione di genere promossa dall’occidente” che “ha minato la coesione del movimento delle donne” e ha depotenziato la base.

Negli Stati Uniti, le femministe palestinesi e arabe sono state costrette a fare i conti con il sionismo e il razzismo all’interno del movimento delle donne statunitensi, inclusa la coerente esclusione e repressione delle prospettive femministe palestinesi all’interno delle comunità di attiviste, che molti definiscono “progressiste tranne che per la Palestina”.

Come dice Lila Sharif del Palestine Feminist Collective,

“Il femminismo tradizionale ha omesso  la critica al sionismo e ha reificato l’idea razzista che la “cultura araba” sia l’unica responsabile della repressione e dell’oppressione delle donne palestinesi.

Questo spiega perché, nel 2001, l’Arab Women’s Solidarity Association di San Francisco (AWSA SF) Chapter ha pubblicato il documento “The Forgotten ‘ism: An Arab American Feminist Critique of Zionism, Racism, and Sexism” (Lo ‘ismo dimenticato: una critica delle femministe arabo americane al sionismo, al razzismo e al sessismo) presentato dalla piattaforma del Women of Color Resource Center di Oakland alla Conferenza mondiale contro il razzismo a Durban, in Sudafrica. L’intervento è stato un seguito al silenziamento  della femminista egiziana Nawal El Saadawi da parte di  Betty Friedan alla conferenza delle Nazioni Unite del 1985 sulla condizione delle donne a Nairobi, in Kenya, quando Sadawi  aveva criticato Israele. Molti membri dell’Associazione per la Solidarietà delle Donne Arabe hanno continuato a unirsi a “INCITE! Women and Gender Non-Conforming People of Color against violence” impegnata fin dai primi anni 2000 sull’unità della Palestina, la solidarietà con il diritto al ritorno per i rifugiati palestinesi e il disinvestimento da Israele.

Queste realtà  evidenziano il motivo per cui le femministe palestinesi e arabe hanno costruito alleanze principalmente negli spazi femministi radicali neri, indigeni e delle persone di colore (BIPOC). Le alleanze palestinesi all’interno dei movimenti femministi statunitensi BIPOC hanno le loro radici nel periodo della prima intifada degli anni ’80. All’epoca, l’Unione dell’Associazione delle donne palestinesi (UPWA) si alleò con i membri dell’Alleanza delle donne del terzo mondo, nata dall’impulso femminista all’interno del Comitato di coordinamento non violento degli studenti (SNCC). In un’intervista, Camille Odeh, direttrice nazionale dell’UPWA mi ha detto:

“Fondata nel 1986 e sciolta all’inizio degli anni ’90, l’UPWA praticava l’intersezionalità prima che il termine fosse coniato nel mondo accademico. Per creare l’UPWA abbiamo costruito rapporti di solidarietà con i movimenti femministi che rappresentavano l’America Centrale, El Salvador, Nicaragua, Cile, Sud Africa, molti paesi della regione araba e gli Stati Uniti. Tenendo conferenze sulla sessualità, l’UPWA era in anticipo sui tempi. Abbiamo collegato la classe operaia di base con gli accademici, tutti seduti attorno a un tavolo facendo lavoro di educazione popolare.

Oggi stiamo assistendo alla continuazione di questa eredità attraverso il Collettivo femminista palestinese unificato (PFC), fondato nel 2021 e con sede negli Stati Uniti. L’impegno fondatore del Collettivo femminista palestinese è invitare  chi lo sostiene ad abbracciare la liberazione palestinese come essenziale per la lotta femminista. Come afferma Sarah Ihmoud, il loro attivismo “denuncia l’alleanza tra i molti filoni del femminismo statunitense e Israele; onora le tradizioni femministe che ci hanno preceduto; afferma i modi visibili e invisibili in cui le donne palestinesi hanno resistito e hanno immaginato un futuro diverso; e insiste sull’inseparabilità del genere e dell’emancipazione queer e la decolonizzazione”.

La varietà di strumenti strumenti del Collettivo femminista palestinese fornisce una guida  puntuale per chi lo sostiene nella solidarietà con la liberazione della Palestina. Secondo Loubna Qatami, il collettivo continua l’eredità dei movimenti storici delle donne palestinesi, afferma l’unità del popolo palestinese oltre i confini;  rafforza una politica di coalizione con i neri, gli indigeni e tutte le lotte per la libertà globale.

Il movimento femminista palestinese odierno con sede negli Stati Uniti è anticoloniale nella sua resistenza e decoloniale nella sua insistenza su ciò che Leena Odeh spiega come “riscoprire  un nuovo senso di appartenenza – a noi, gli uni agli altri, alla terra … e piantare in tutte le nostre comunità semi di valori incentrati sulla liberazione, la guarigione e la fermezza, in modo che possiamo reclamare la nostra interezza”.

In un’intervista con Truthout, Lila Sharif ha spiegato questa doppia visione:

“Dopo la recente violenza israeliana nella Striscia di Gaza, il Collettivo Femminista Palestinese ha trovato   modi creativi per sostenere noi stesse e gli altri. Pubblicamente, occupiamo spazi digitali per spiegare come la Palestina sia una questione femminista; per allearci con movimenti femministi neri, indigeni e transnazionali; condurre workshop; parlare alla radio e alla TV per sostenere le nostre sorelle a Gaza e in tutta la Palestina. La nostra componente decoloniale ci incoraggia a sostenerci l’un l’altra attraverso il dolore collettivo. Sosteniamo, celebriamo, impariamo e continuiamo il lavoro delle donne palestinesi (e arabe) che hanno sostenuto la vita. Le loro pratiche hanno incluso la scrittura, l’insegnamento, l’assistenza, l’organizzazione, la rivolta, la trasmissione della storia e altre che richiamano, resistono e sfidano il colonialismo dei coloni, la violenza militare, il razzismo, il patriarcato, la supremazia bianca, l’omofobia e lo sfruttamento capitalista. Riconosciamo anche come le donne palestinesi condividono gioia e piacere attraverso il canto, la danza, la preparazione e la condivisione del cibo, la narrazione, l’espressione poetica, la preghiera, la semina e il raccolto. Vediamo la prassi femminista palestinese radicata nelle aspirazioni decoloniali in Palestina e oltre, in tal modo trasformando radicalmente il femminismo tradizionale.

Attraverso la cura collettiva e la mobilitazione, la costruzione e la lotta, i nostri movimenti femministi palestinesi e arabi esistono per resistere. L’attivismo non è una scelta. È sopravvivenza. Mentre portiamo il sangue della nostra gente nei nostri cuori, continueremo a risollevarci per amore della nostra terra e della nostra storia, ben oltre la libertà, e continueremo a crescere dalle ceneri di ogni assalto israeliano, “rose dalle spine”.

Trad: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali” – Invictapalestina.org

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