Molteplici attacchi alla Convenzione di Istanbul: la risposta del movimento femminista transnazionale
Mentre in Italia impera il dibattito sul ddl Zan e le ingerenza della Chiesa Cattolica nell’attività legislativa italiana, il 20 marzo Erdogan ha ritirato con un decreto esecutivo l’adesione della Turchia alla Convenzione di Istanbul, trattato internazionale nato in seno al Consiglio d’Europa per promuovere la prevenzione e la lotta contro la violenza di genere e domestica ed entrato in vigore nel 2014. La mossa di Erdogan è volta a legittimare la violenza strutturale che fa della famiglia il luogo di riproduzione dell’oppressione sociale, garantendone la stabilità, e si allinea con la strategia delle destre radicali europee. Per quanto infatti la Convenzione di Istanbul non sia e non possa essere la soluzione definitiva al fatto sociale della violenza maschile, essa è diventata il simbolo della guerra simbolica e politica mossa dal blocco transnazionale e ultraconservatore che sta muovendo attacco alle libertà di donne e persone lgbtq+.
In sintonia con Erdogan e il suo governo, il 30 marzo anche il parlamento polacco ha votato per ritirare l’adesione alla Convenzione e dare avvio all’iter di scrittura di una nuova carta, basata sui “diritti della famiglia” e istituente il concetto di “delitti contro la famiglia”. La carta in questione dovrebbe inoltre essere proposta anche a Ungheria, Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca, paesi in cui la convenzione di Istanbul è stata recentemente rifiutata o mai ratificata. In questo scenario prendono scena le più recenti azioni del primo ministro ungherese Orban, che ha attirato l’attenzione internazionale per l’approvazione di una legge che associa omosessualità, pornografia e pedofilia, in aggiunta al fatto di essersi attribuito pieni poteri senza limiti temporali sotto la pretesa della lotta alla pandemia. Mentre i leader dell’Europa occidentale recitano il ruolo prestabilito dello scandalo collettivo, i restanti Paesi di Visegrad, in particolare la Polonia, garantiscono a Orban di ostacolare l’unanimità necessaria all’Unione Europea per colpire l’Ungheria con sanzioni comunitarie.
Si rende urgente ricostruire le alleanze ideologiche e materiali che dalle aule parlamentari ai movimenti di estrema destra e ultracattolici sorreggono la rete internazionale che coordina questi contrattacchi alle libertà conquistate attraverso le lotte da donne, persone lgbtq+ e migranti. Tutto ciò senza cadere nel tranello, tanto caro alle forze neoliberiste da destra a sinistra, della contrapposizione tra un Occidente progressista e baluardo dei diritti, da una parte, e l’arretratezza culturale di chi sta ai margini della fortezza europea, dall’altra.
Ne abbiamo parlato con Paola Rudan, di Non Una di Meno Bologna e Connessioni Precarie, che ci ha raccontato dell’incessante attività di piazza portata avanti in questi territori dai movimenti femministi, per la libertà di movimento e sessuale, a partire dall’appello della rete EAST (Essential Autonomous Struggles Transnational) per una mobilitazione transnazionale il prossimo 1 luglio.
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