Iran composito nella crisi
Riceviamo e riprendiamo volentieri da Noi non abbiamo patria… Buona lettura!
42 giorni fa Masha Amini veniva uccisa dalla polizia morale dell’Iran. Nel quarantesimo giorno, il giorno dell’Arbaeen, che conclude il lutto secondo la tradizione sciita musulmana, la celebrazione funeraria della defunta Zhina (il nome Kurdo di Masha) nella sua città natale a Saqqez si è trasformata in una protesta popolare spontanea contro il governo e lo Stato che è sfociata in tumulti e accesi scontri con la polizia. Negli stessi giorni ed in quelli a seguire altri funerali ed altri Arbaeen di commemorazione di altre giovani ragazze rimaste uccise durante gli scontri delle settimane precedenti, anche lì nelle città del Kurdistan Iraniano hanno la funzioni pubbliche religiose si sono immediatamente trasformate in sommosse di massa, nella città di Mahabad la folla giovanile ha attaccato il commissariato di polizia locale dandolo alle fiamme. Sono più di 200 le giovani ragazze e ragazzi che sono rimasti uccisi durante quella che appare essere una diffusa sollevazione delle generazioni Z, che da un primo carattere di denuncia della “polizia morale” e mosse dalla richiesta nei confronti delle istituzioni che venga fatta “giustizia”, ora assumono un contorno composito e contraddittorio di una protesta trasversale contro il governo e contro la forma stato della Repubblica Islamica. Se nei giorni iniziali dai quartieri residenziali della città di Teheran rivoli spontanei di giovani donne, con il sostegno di tantissimi giovani uomini bloccavano il traffico per protestare contro l’esercizio brutale e violento di un dispositivo repressivo contro la condizione della donna in Iran (l’istituzione appunto di una “polizia morale”), col diffondersi delle proteste in varie aree del paese ed nei quartieri connotati diversamente dalla gentrificazione e dall’industria del turismo che ha dato un volto nuovo alle città, ed attraversando trasversalmente diverse strati sociali giovanili, il senso attuale delle mobilitazioni descrivono un quadro composito e per nulla omogeneo di un subbuglio generale, che dalla condizione della donna chiama in causa diversi assetti generali della società Iraniana.
L’Iran è in subbuglio, perché in questa condizione vengono a trovarsi le generazioni Z che sono il fulcro delle proteste diffuse di questi giorni, scosse da una condizione sociale che emerge dal profondo della società Iraniana forgiatasi nei 40 anni successivi alla rivoluzione del 1979, che lega l’Iran alle vicende del mercato mondiale – nonostante l’isolamento determinato dalla violenza delle sanzioni economiche imposte dagli USA e dall’imperialismo dell’Occidente – sia nel trascorso storico appena alle spalle e che nell’oggi caotico ed inquieto generale che attanaglia il quadro mondiale di un modo di produzione che è stato dominato per 500 anni dall’Occidente e dagli Europei.
Un comunista qui in Occidente e in Italia, quindi nel guardare con empatia e solidarietà verso l’insieme di quanto si agita in Iran, non può chiudere gli occhi e non dover affrontare come precondizione il dato empirico di come questo subbuglio si materializza in “casa nostra”.
Assistiamo ad una materializzazione impersonale e sociale che è a supporto non tanto verso la condizione della donna, bensì che è determinata dalle stesse necessità che costrinsero gli USA e l’Occidente ad aggredire l’Iran attraverso le sanzioni economiche in quanto reo – nel lontano 1979 – di aver tagliato gli artigli dell’imperialismo Occidentale dal petrolio persiano attraverso una rivoluzione sociale che cacciò lo Scià e poi ripiegò sotto la forma di una difesa capitalistica nazionale sotto la bandiera della Repubblica Islamica. Sono spinte materiali, che di fronte alla crisi che si riflette nello sfaldamento del modello liberale del capitalismo occidentale, si ergono in modalità nuova alla sua difesa e conservazione reazionaria.
In sostanza, prima ancora di salutare le cause profonde che stanno scuotendo l’Iran dall’interno, si ha il compito di prendere posizione attraverso l’arma della critica nei confronti dei fattori esogeni che si mobilitano qui come forze reali dell’Occidente in questa sua crociata reazionaria contro l’Oriente asiatico in generale e contro il mondo islamico in particolare, ritenuti arretrati rispetto alla propria superiorità, che coniuga libertà e diritti all’interno del modello vincente del capitalismo reale incarnato dal liberalismo democratico ed economico.
Questa crociata sta già vedendo le prime materializzazioni concrete negli USA e nella decrepita Europa, il cui dato empirico rilevato è la coincidente serie di mobilitazioni sotto le Ambasciate ed i Consolati di Iran e Russia nelle principali città Occidentali dei giorni scorsi ed il conseguente scuotimento pubblico delle “coscienze”.
Il dato empirico, infatti, ci descrive una Europa “improvvisamente” spaventata dal fatto che la Russia sul campo di guerra non è allo sbando militare totale, dove l’esito dato per scontato di una sua sconfitta militare e della vittoria militare e politica dell’Occidente coinvolto indirettamente in armi non sia più così scontato. Anzi la Russia per contrattaccare dispone anche dei droni Iraniani nell’attuale escalation del conflitto bellico, colpendo drammaticamente le città e soprattutto le infrastrutture dell’Ucraina.
Il dato empirico è appunto il risveglio delle “coscienze” che connette il pacifismo e il femminismo occidentale, dimostrando il loro essere essenzialmente “bianco” ed “eurocentrico”, ed al servizio alla coda delle necessità dell’imperialismo Occidentale, Europeo ed Italiano.
Da una parte (il pacifismo) rompe gli indugi e lancia in Italia una mobilitazione nazionale per fermare l’escalation della guerra il 5 novembre prossimo, ossia per fermare la guerra prima che la Russia possa contrattare da condizioni di forza e di maggiore svantaggio per l’Europa.
Dall’altra (il femminismo occidentale) ripropone la questione della oppressione di genere contro la donna non come emancipazione umana, bensì come difesa della liberazione dell’individuo femminile, che proprio nel capitalismo e in occidente ha trovato il livello storico più alto come emancipazione degli individui femminili attraverso la mercificazione dei corpi delle donne, che il mercato e le società liberali hanno dovuto consentire proprio per accrescere l’accumulazione, determinandole non solo come produttrici, consumatrici nelle attività sociali volte alla produzione della merce, ma anche trasformando la donna stessa come il bene di consumo per le voglie pubbliche del maschio, abbattendo i tradizionali tabù riguardanti la sfera sociale sessuale. In sostanza in questi giorni assistiamo in occidente come il femminismo occidentale si faccia da porta voce al servizio della superiorità relative del modello liberale del mercato di contro all’oscurantismo islamico, declinando nuovamente la cara equazione che la donna è vita in quanto custode e servitrice della riproduzione “naturale” (sociale) della vita a servizio della merce. Mentre una società umana veramente libera dalla merce e dal capitale implica essenzialmente l’emancipazione sociale della sessualità dei corpi femminili dal rapporto oppressivo che le impone, negando quel bisogno, il ruolo oppressivo del vincolo del rapporto sessuale per il fine della riproduzione sociale, della famiglia dei figli e della vita sociale capitalistica.
Questa coscienza del femminismo storico occidentale ed eurocentrico, che anche essa figlia del liberalismo del mercato, non si avvede che questa l’emancipazione reale viceversa operata dal mercato, non ha mai incluso la maggioranza delle donne colorate, immigrate, di quelle afroamericane degli Stati Uniti e per le stesse donne dell’Est Europa ed Ucraine, che vengono usate come merce per la riproduzione sociale del grasso Occidente e della decrepita Europa [nota –https://noinonabbiamopatria.blog/2022/08/20/sulla-frontiera-della-bianchezza-espropriazione-guerra-e-riproduzione-sociale-in-ucraina/], il cui mercato e la cui accumulazione capitalistica in crisi necessariamente impone ora, anche nel punto più alto di quel processo di relativa emancipazione, la sua ri-sottomissione più bieca della donna al suo ruolo sociale naturale come strumento vivo della riproduzione della forza lavoro e della forza consumatrice e al servizio dell’intera riproduzione sociale. Se di fronte alla estrema necessità della produzione del valore, in un mercato mondiale in crisi ed in acuta fase di concorrenza mondiale, si impone perfino alle giovanissime bianche delle civiltà occidentali – anche in qualsiasi contesto di violenza domestica – la barbarie della negazione tramite legge dello Stato dell’interruzione di gravidanza (vedi gli esiti negli Stati Uniti d’America dopo la svolta costituzionale sul caso Roe contro Wade), anche la “polizia morale” dell’Iran dal suo laisser faire del passato, negli ultimi anni ha dovuto rafforzare quei dispositivi generali e di violenza sociale contro le donne delle nuove generazioni.
Perché come in Occidente, in Cina ed anche lì in Iran, le nuove generazioni di donne Iraniane formatesi nello sviluppo del mercato capitalistico, sempre meno sono disposte a sposarsi presto, fare i figli e porsi al servizio dell’incremento del mercato attraverso l’incremento della popolazione. In sostanza nel mondo, a partire dall’Occidente, il mondo dell’Oriente e dell’Islam, la necessità della produzione del valore capitalistico in crisi segna il tempo della fine dalle “libertà” della donna. Libertà che si realizzarono, in una fase diversa e storicamente alle spalle della storia del capitalismo, attraverso lo sviluppo delle forze sociali della produzione capitalistica, che strappò la donna dal suo isolamento sociale imposto al servizio della riproduzione e cura della famiglia, e attraverso la sua partecipazione nelle attività della produzione sociale, tentando anche di liberare necessariamente la propria sessualità dallo scopo riproduttivo coercitivo. Ora viceversa si ritrova ovunque nuovamente sottoposta con violenza istituzionale al suo ruolo essenziale di produttrice sociale delle forze demografiche, necessarie per rallentarne la crisi generale di un modo di produzione fondato sulla produzione del valore di scambio delle merci. Il valore sociale della donna, dunque, torna a riemergere nel capitalismo, “nelle coscienze” e nel campo delle ideologie, che funzionalizzano l’antico patriarcato, essenzialmente quello che ella è la forza produttiva viva che “riproduce la vita”, come fondamento della produzione dei fattori necessari per la produzione della merce e come del suo consumo sul mercato, sospingendola attraverso le specifiche tradizioni storiche di nuovo al suo isolamento sociale all’interno della funzione primaria ritenuta naturale per lo sviluppo della società come della famiglia.
Quanta sciocchezza reazionaria, dunque, è nascosta dietro l’ideologia dei valori e delle libertà, che per i fini colonialisti ed imperialisti non ha alcuna difficoltà a far proprio il motto delle piazze iraniane di queste settimane: “donna, vita, libertà”. Il coro unanime che si leva in Occidente riprendendo il motto iraniano, malgrado le migliori intenzioni anche da parte di certa sinistra anticapitalista, non è altro appunto che l’eco più oscuro, tetro di un modo di produzione in crisi, a cominciare dal suo epicentro occidentale che per 500 ha esercitato il suo dominio colonialista ed imperialista sul mondo. Ed è appunto reazionario perché la “coscienza” che lo incarna è determinata dalla conservazione di quei rapporti di produzione della merda capitalistica che imprimono ovunque il giro di vite sulla condizione generale della donna nel mercato mondiale. Il teorema che determina e smuove in questi giorni la coscienza delle femminismo occidentale ed europeo è racchiuso in quello slogan ed in quella equazione, allora per le donne di tutto il mondo, in Iran, in Asia e soprattutto per quelle colorate, immigrate e proletarie si prospettano tempi foschi.
Partire da questo dato preventivo è una precondizione per la critica rivoluzionaria, non solo necessaria nel momento di esprimere solidarietà ed empatia con le ragioni profonde dell’attuale ribellione delle donne iraniane contro la violenza del loro Stato, ma lo è anche per evitare di finire, come fanno tante micro-forze organizzate, come i “pesci nel barile” di fronte alle cause endogene reali che stanno smuovendo la società Iraniana, le quali sono al tempo stesso suscettibili di combinarsi con i fattori esogeni della crisi storica di un modo di produzione unitario, che tenta di realizzare un abbraccio reazionario con le democrazie liberali del mondo Occidentale proprio per rallentarne il declino e la sua crisi nel nome usurpato della donna.
Infatti, la “rivolta” a seguito dell’uccisione di Zhina Amini, benchè non assuma un contorno popolare di massa omogeneo, essa sta attraversando trasversalmente tutte le classi sociali, in particolare attraendo consistenti settori – seppure non maggioritari – di tutte le componenti giovanili che costituiscono la società Iraniana. L’assassinio della giovane Zhina è divenuto l’improvvisa goccia che fa traboccare il mare disomogeneo ed agitato delle generazioni Z. Se nelle prime settimane la vista d’insieme ed il confronto con il moto della rivoluzione del 1978/1979 sembra raccontarci di una mobilitazione che si estende geograficamente, ma che rimane ancora marcata da tratti minoritari e confinata ai giovani e giovanissimi, non dimeno essa assume connotati che indicano un serio scricchiolio dell’intera impalcatura sociale dell’Iran post rivoluzionario.
1) Il 60% della popolazione iraniana non ha più di 30 anni.
2) Quindi più del 60% della popolazione è gran parte di essa è nata intorno agli anni ‘90, non ha visto né la rivoluzione, tantomeno ha vissuto i dieci anni di guerra che l’Iraq – Iran iniziata dal primo per interposta persona USA. Le nuove generazioni guardano alla rivoluzione del passato con la vista dell’oggi determinato.
3) In questa fascia di età le donne rappresentano sempre la maggioranza della popolazione.
4) La disoccupazione in Iran è intorno al 10% della popolazione attiva, ma pesa per il 30% tra i più giovani.
5) Conseguentemente sono le giovani donne a soffrire di più della crescente disoccupazione e del precariato, rispetto alla quale l’aspetto del patriarcato rappresenta la soluzione capitalistica alla crisi, offrendo alle giovani donne, dopo il completamento degli studi, la protezione sociale attraverso la forza violenta della tradizione contro la crisi economica: la famiglia, il matrimonio e il ritorno all’isolamento domestico nella mera sfera della riproduzione sociale.
6) Il 30% della popolazione attiva lavora nell’industria (ma è in calo in conseguenza del precariato e della nuova disoccupazione), circa il 20% nell’agricoltura, ed il restante del 50% nei “beni e servizi” che ruotano intorno all’import/export ed al turismo frammentato in quel contesto sociale e urbano che la produzione del valore ha realizzato attraverso la gentrificazione dei territori.
7) Gli anni di scolarizzazione per l’80% della gioventù Iraniana è di 14 anni, e una parte davvero considerevole continua gli studi universitari. La parte maggioritaria degli studenti è costituita da ragazze premiate dai risultati reali della rivoluzione del 1979 e dei cambiamenti sociali che essa ha determinato: la scuola di massa e la formazione dei nuovi ceti medi che ha liberato anche le giovani ragazze delle successive generazioni dall’isolamento domestico sociale patriarcale, emancipandole anche nei suoi strati più popolari e proletari nel mercato capitalistico secondo le forme tradizionali della società islamica, concedendo per una parte di esse l’opportunità di ascendere di qualche gradino nelle gerarchie sociali e nella divisione sociale del lavoro.
8) Tra i giovani dell’Iran odierno, insieme alla disoccupazione, è diffuso un forte status di precariato, che si è rafforzato come condizione stabile con le privatizzazioni avviate da Ahmadinejad in tutti i settori dell’economia: industria petrolifera, beni e servizi, settori bancari, ecc.
9) In questi giorni anche nelle zone minerarie legate all’industria petrolifera delle zone sud occidentali dell’arabistan persiano gli operai ingaggiati nelle compagnie privatizzate scendono in sciopero in solidarietà con le ragazze dell’Iran. Mentre i lavoratori dell’industria, che ancora si avvantaggiano delle migliori condizioni offerte dalle imprese ed industrie statizzate, rimangono a guardare alla finestra astenendosi dal simpatizzare con le mobilitazioni di questi giorni.
10) In sostanza quanto agita le piazze è questo surplus di vita precario e di quello frustrato dalla crisi nella sua possibilità di accedere nell’ascensore sociale, che colpisce inevitabilmente le giovani donne che non possono che mettere al centro la propria condizione femminile. Ed è un sommovimento determinato dallo stesso corso successivo di sviluppo realizzato grazie alla rivoluzione del 1979, che va oggi a combinarsi con una crisi generale e sistemica del modo di produzione capitalistico mondiale che bussa forte fin dentro le società occidentali.
Ed è un quadro composito che intreccia e divide le stesse nuove generazioni nelle loro concrete declinazioni di classe, che scendono in piazza sfidando la dura repressione dello Stato e nei mille rivoli della comune battaglia contro la violenza istituzionali contro la donna. Ma esse sono mosse da diverse frustrazioni sociali e contrapposte aspirazioni, così come fanno riemergere antiche questioni etniche e nazionali irrisolte che la crisi generale di un sistema consente sempre meno all’Iran post rivoluzionario di tenerle coese in un blocco sociale nazionale.
Al momento il subbuglio Iraniano non sta realizzando una versione persiana di “Piazza Tahrir” delle cosiddette primavere arabe, che finirono, bisogna tenerne conto, alla coda della pace Obamiana in Medio Oriente. Di fronte alla stagnazione economica ed al capolinea in cui era giunta la vecchia tradizione antimperialista nazionalista, capace solo di alimentare nel quadro del mercato mondiale la riproduzione di una élite economica privilegiata capace di realizzare con settori sempre più minoritari delle società quel patto sociale nazionale di tipo corporativo, le primavere arabe impressero il tentativo di un totale dissolvimento di quel vecchio rapporto attraverso il cosiddetto “cambio di regime”: combattere la corruzione dello stato che lo lega alle élite e per liberare il mercato attraverso la democrazia.
La spiegazione dell’esito risiede che il moto proprio delle masse popolari e lavoratrici delle primavere arabe era già stato predeterminato dal corso dell’accumulazione che avvenne grazie alle rivoluzioni democratiche antimperialiste e anticolonialiste del mondo Arabo. Di fronte all’impossibilità oggettiva di continuare quello sviluppo oltre la produzione delle materie prime (comportando che i profitti potevano solo andare ad accumularsi nel reddito delle élite collegate col potere politico), la condizione delle masse lavoratrici e dei ceti medi per la maggior parte si è andata sempre più a determinare sotto l’ombrello della produzione globale del valore, che andava a concentrarsi nelle mani della finanza occidentale attraverso i cosiddetti meccanismi comunemente chiamati “globalizzazione”. Il moto proprio delle masse popolari e lavoratrici non avrebbero potuto far altro che seguire il corso naturale della catena del valore, che si muove in direzione dei “liberi mercati” dell’occidente, a meno che fattori eccezionali internazionali dall’interno stesso della catena globale intervenissero ad inceppare questa “idrovora” impersonale che è il movimento della accumulazione a questa fase della sua estensione.
Anche l’Iran di oggi viene a trovarsi nel mezzo di questa medesima contraddizione, che scuote le fondamenta del patto sociale di tipo corporativo che la post rivoluzione del 1979 riuscì a realizzare con la massa decisiva delle classi lavoratrici della città e della campagna e dei ceti medi nazionali, sebbene quella “idrovora” inizi a fare acqua da tutte le parti.
Il subbuglio che scuote le piazze di oggi è il risultato combinato – e diseguale – di 40 anni di gestione rabberciata dello sviluppo impresso dalla rivoluzione popolare Iraniana del 1979 contro lo Scià e per rompere l’infeudamento totale all’imperialismo USA, il cui suo sviluppo economico e sociale fa i conti con il quadro del movimento del mercato mondiale appena alle spalle e che oggi è avviato esso stesso all’interno di una più ampia crisi generale.
Infatti, il post 1979, come parte del tentativo dello sviluppo delle forze produttive in maniera indipendente dalla rapina finanziaria imperialista dovette – al di là della sacralità della religione – realizzare la scuola di massa, che ha formato le generazioni successive ed il presupposto per la formazione duratura dei nuovi ceti medi all’interno della catena generale della produzione del valore. Ma dall’altro lato, soprattutto con la fine della lunga guerra con l’Iraq – nella quale la donna si sacrificò volontariamente al servizio della riproduzione sociale per sostenere la guerra patriottica contro l’aggressione Occidentale per interposta persona – la scuola di massa e l’ascensore sociale dovette strappare per le nuove generazioni di bambine, ragazze e donne, dalla sacralità familiare e domestica, in sostanza liberarle nei fatti da quel regime patriarcale capitalista ormai inadeguato con le necessità dello sviluppo successivo. D’altronde furono le stesse donne delle masse lavoratrici che parteciparono in prima fila nella Rivoluzione del 1979 e nel sacrificio nella guerra che invocavano per le future donne il proprio riscatto sociale. Un riscatto che nella sostanza si è dato.
Non si può negare, infatti, che la violenza contro la donna Iraniana stia avvenendo proprio nel paese che vede la più alta percentuale al mondo di donne laureate, che in Iran sono anche in numero maggiore rispetto ai loro colleghi maschi. Questo ovviamente non ha riguardato solo le donne delle famiglie della media borghesia, ma ha anche gli strati popolari più profondi e quelli delle classi lavoratrici, tanto è vero che l’84% dei giovani Iraniani ha una scolarizzazione media di 14 anni.
Certamente questo processo dell’accumulazione in Iran, nell’ambito del rapporto diseguale e combinato sul mercato mondiale, non ha consentito uno sviluppo armonico ed omogeneo. Le stesse criminali sanzioni economiche imposte dall’Occidente imperialista e dal suo capofila USA – tra le diverse fasi altalenanti di incrudimento e di ammorbidimento – non rappresentano una esclusione del paese dal mercato mondiale, bensì il modo concreto dell’intreccio combinato e diseguale in cui il nuovo Iran è entrato nel vortice del mercato e nella catena generale del valore mondiale. Il più evidente elemento di contraddizione di questo processo che scuote da alcuni anni la società Iraniana è l’acuirsi profondo della contraddizione tra città e campagna, che soprattutto nell’ultimo decennio e man mano che si è andata a sviluppare la produzione di beni e servizi, ha visto frustrata l’aspirazione di quei piccoli contadini, privi quasi totalmente di macchinari, e che sono dediti al lavoro nelle loro piccole imprese a conduzione familiare. Una serie di contraddizioni dunque, che a tendere comporterà l’impossibilità a mantenere coeso un patto sociale nazionale e popolare a partire dal lavoro produttivo della città e della campagna. Una frustrazione dei contadini più poveri che li ha visti già protagonisti di scioperi contro lo spreco delle risorse idriche a discapito dell’agricoltura ed in favore della produzione di beni e servizi delle città, per la società dei consumi dei nuovi ceti medi delle città, ed in conseguenza di una produzione petrolifera che dissipa le risorse idriche dei maggiori fiumi, tra i quali il Karun che storicamente nutriva le fertili pianure dell’antica Persia, via via trasformate in secche aride dall’industria del petrolio. E mentre l’acqua scarseggia per l’irrigazione dei campi arati prevalentemente con mezzi animali o a mano, oppure nei distretti operai ed industriali viene razionata per il consumo domestico delle famiglie proletarie, l’industria non è in grado di sviluppare la filiera produttiva e di realizzare in proprio quei macchinari necessari per sviluppare l’economia arretrata della campagna [1 https://www.mondomacchina.it/it/macchine-agricole-in-iran-il-mercato-pu-ripartire-c999]. In sostanza se le mobilitazioni dei piccoli contadini e dei lavoratori della terra più poveri negli ultimi anni sono stati contro le politiche di riforma economica e strumentalmente appoggiate a seconda dei casi delle forze riformiste o conservatrici presenti all’interno del panorama politico della Repubblica Islamica, quelle mobilitazioni di fatto erano contro la società dei consumi della città – che per sviluppare l’industria del turismo ed il consumo delle merci – sottraeva l’acqua alla campagna.
L’acqua negli ultimi tre anni è divenuta ossessivamente – possiamo a ben ragione dire – la “sorgente” anche delle ultime rivolte sociali operaie rimaste prevalentemente isolate all’interno dell’Arabistan persiano, dove le popolazioni proletarie impiegate nelle compagnie privatizzate, oltre a subire condizioni salariali e contrattuali decisamente peggiori dei propri colleghi operai impiegate nello stesso ramo d’industria di proprietà dello Stato, veniva loro imposto il razionamento dell’acqua. Anche in quell’occasione nella “città” che vive della “produzione di beni e servizi”, che attraverso l’import e l’export reinveste gli introiti nelle infrastrutture edilizie, nell’edilizia residenziale e dunque necessita di convogliare lì gli investimenti per le opere idriche come condizione per sviluppare i consumi e l’industria del turismo, una buona parte di essa ha guardato sospettosa e nella maggioranza con fare indifferente quelle mobilitazioni che avvenivano in terra persiana abitata in maggioranza da arabi, rafforzando il residuo corporativo che ancora tiene l’operaio ed il lavoratore impiegato nelle imprese di Stato e nelle “cooperative islamiche” alla coda del capitale.
Certamente, lo squilibrio e la divaricazione degli interessi popolari e anche tra i lavoratori che sta solcando la società iraniana trova come fattore principale il meccanismo del mercato mondiale dominato dalla finanza imperialista ed Occidentale e dalle ultra decennali sanzioni economiche e dalle conseguenze di una lunga guerra portata dall’Iraq per conto degli Yankee a stelle e strisce e della Gran Bretagna Ma oggi i nodi cominciano a venire al pettine soprattutto perché la dinamica dello sviluppo combinato seppure altamente diseguale non trova più quelle possibilità di crescita dell’accumulazione all’interno di un mercato mondiale che ristagna ovunque.
In ogni piega dello sviluppo della società post rivoluzionaria hanno cominciato a delinearsi “interessi privati”, che si sono sviluppati all’interno dell’Iran nel solco di 40 anni, trovando una decisa accelerazione proprio durante la breve pausa di ammorbidimento delle sanzioni realizzata dalla “pace Obamiana” e che ha dato modo che l’avvio di una serie di privatizzazioni attuato da Ahmadinejad abbiano avuto anche un relativo successo. Poi le improvvise aspirazioni appena covate furano frustrate nuovamente dall’improvvisa marcia indietro della comunità internazionale nel 2018, quando gli USA di Trump prima sconfessava il Jcpoa Act sul nucleare siglato nel 2015 con l’Iran, e poi rafforzava nuovamente il regime delle sanzioni economiche che Biden ha poi conseguentemente confermato. Ma questi 40 anni inevitabilmente hanno formato nuovi settori sociali intermedi con loro aspirazioni che oggi scalpitano, rovesciando inevitabilmente l’originario moto unitario per l’interesse comune antimperialista del lontanissimo 1979 in una spinta di interessi di bottega diffusi nella comune del mercato, che oggi richiederebbero più libertà ed interdipendenza con le trame del mercato mondiale. Così come una parte della classe operaia dell’industria estrattiva di Stato rimane aggrappata all’interno di quel che rimane del vecchio rapporto corporativo con il capitale e distante da quello strato proletario precario che vive tra le pieghe della produzione industriale e di quella dei “beni e servizi”, nelle attività di commercio con l’estero consentito, nello sviluppo dell’industria globale del turismo e di quella decisamente ingaggiata a condizioni peggiori in ampi comparti dell’industria nazionale che lo Stato islamico ha dovuto privatizzare.
In sostanza ci separa dal 1979 un quadro composito che non vede più un insieme di interessi delle cosiddette “borghesie compradores” asservite all’imperialismo contro cui si contrapponevano le classi lavoratrici le forze progressiste, ma un panorama composito di settori sociali di massa che guardano al mercato reale, nel quale il modello islamico che si auto-rappresentava alternativo al capitalismo dell’occidente ed al “socialismo” dell’oriente è messo alla prova della crisi, al cospetto della quale il liberalismo democratico diviene una forza crescente generata dalla stagnazione economica in cui l’Iran si trova, ma soprattutto per via di quella che potremmo definire forza antropologica derivante dal suo lungo dominio incontrastato di 500 anni sull’Asia, sull’Africa e sull’America Latina, ossia il risultato di un concentrato storico di forza economica accumulata che dalla fase ascendente è entrato nella fase di crisi generale.
La condizione oppressiva della donna, svelata in Iran è l’altra faccia di quella violenza concentrata di un modo di produzione contro tutte le donne ed in particolare quelle colorate e quelle proletarie. L’assassinio di Zhina Amini funge da catalizzatore, di diverse spinte determinate dai processi del mercato locale ed internazionale ed è proprio in virtù della sua soggezione patriarcale funzionalizzata dal capitalismo, che la espone a quella forza antropologica e a guardare alle libertà del mercato occidentale. Questo avviene nonostante che anche qui da noi la condizione femminile è oggetto della stessa campagna di aggressione internazionale, dove in tutte le grandi nazioni, dagli USA, alla Cina ed all’Europa (dall’Atlantico agli Urali), in perdita di natalità, il declino della curva demografica corrisponde ad una riduzione nella capacità di competere nel mercato mondiale in generale contrazione, obbligandole a negare il bisogno della sessualità liberato dal servizio della procreazione mercificata ed a ricondurre con le buone e con le cattive le donne alla loro funzione “naturale” di servitrici della riproduzione sociale.
In questo quadro reale “la forza rivoluzionaria del 1979” non può che echeggiare nelle nuove generazioni di donne iraniane tutt’al più come una rivoluzione “democratica tradita”, esse guardano al passato non come lotta contro le grinfie dell’imperialismo, bensì come una liberazione democratica disattesa, che viceversa consentì quelle relative libertà alle donne Occidentali in quadro del capitalismo totalmente diverso di quello contemporaneo. In sostanza, nonostante l’Occidente e le sue merci suscitano sempre meno attrazione all’Africa e all’Asia, esso proprio in virtù del suo secolare dominio rimane la pietra di paragone per le società che hanno tentato uno sviluppo capitalistico, per loro necessità di difesa dall’imperialismo, dai tratti “alternativi” e che oggi cozzano con la crisi generale dell’intero sistema capitalistico.
Su questo elemento materiale oggettivo l’Occidente (i fattori esogeni) tenta di realizzare un ponte reazionario verso l’Iran, provando ad agire nel torbido caos celato dal muro della menzogna e dal sacramento servile dell’ipocrisia del femminismo occidentale.
Nondimeno il subbuglio iraniano di queste settimane, non solo è reale ma anche legittimo da parte di certi strati reali delle giovani donne iraniane e di quel proletariato precario giovanile che fluttua scomposto nel quadro di una ribellione generale frammentata.
“L’occasione fa l’uomo ladro” ed il torbido è sicuramente in azione, ma quanto si sta verificando in Iran non è il risultato di una macchinazione della CIA o dei deep state degli stati del patto atlantista. Non ci troviamo di fronte ad un tentativo mal riuscito dell’ennesima “rivoluzione colorata”, telecomandata o eterodiretta via connessione digitale. Questa, secondo questo blog, appare essere una semplificazione di comodo ed ideologica che immagina che gli ultimi decenni della processo del mercato mondiale non abbiano modificato irrimediabilmente la geografia di classe in Iran.
Questa spiegazione, seppur spinta da una genuina volontà di evidenziare il muro delle bugie che cela la verità dalla guerra Ucraina, è pregna dell’ingenuità di un certo soggettivismo storico comunista che ancora oggi connota gli avvenimenti di piazza Maidan di fine 2013 ed inizio 2014 come un “colpo di stato” ordito dalla CIA col supporto delle produzione Hollywoodiana. Certamente, durante quelle giornate di Piazza Maidan, la puzza di CIA, Chevron e dell’Apparato Militare Industriale si poteva sentire lontano mille miglia, e solo chi è profondamente venduto alla causa del capitalismo nel campo Occidentale non lo ha voluto vedere sui palchi delle manifestazioni di Piazza Maidan (e tra questi servitori si annoverano ampie schiere di residuale anarchico e troskysta pronte a sostenere l’auto determinazioni dei popoli e le loro resistenze contro le “tirannie fasciste” – peggiori delle “nostre” democrazie – che aggrediscono l’Ucraina ed oggi governano l’Iran).
Tuttavia andrebbe riflettuto, se non si vuol fare su un opposto versante il solito “pesce nel barile”, che il mercato delle merci Occidentali e le trame materiali della cosiddetta globalizzazione mentre hanno determinato ancora più miseria, sfruttamento e guerra nel Sud del Mondo ed ad Est, esse hanno anche realizzato la possibilità materiale per la formazione di una serie di ceti medi nelle società dell’Est Europa, in Asia, in Africa e in America Latina e dunque suscettibili di essere ancora, ma sempre meno, attratti dal mercato concentrato ad occidente e dai suoi valori perché attraverso essi si sono formati.
Mentre le proteste e talvolta le sommosse erompono e si estendono in tantissime città dell’Iran, ed in alcune parti si scontrano con la violenza dello stato, sullo sfondo vi sono anche le manifestazione di contro protesta a Teheran dei giorni precedenti – ed altre potrebbero incubare (dopo il recente attentato alla Moschea di Shiraz di qualche giorno fa) – ritenute e liquidate erroneamente come mere “manifestazione di regime”, che rendono ancor più composito e complicato il quadro generale. Ma lungi dall’essere il battito pulsante della lontana rivoluzione del 1979 contro i tentativi reali di “ingerenze esterne”, esse sono il sopravvissuto inevitabile di quel residuo di patto corporativo di settori del lavoro produttivo trasversale meglio garantito che persiste sotto l’ombrello della Repubblica Islamica. La realtà è ben presente nella materialità del determinismo storico al di là dei voli pindarici delle ideologie di sinistra: sempre più le nuove generazioni di donne iraniane ed in particolare quelle proletarie di fronte della propria condizione soprattutto divenuta insopportabile proprio per lo sviluppo successivo al 1979, non potranno più guardare all’indietro di fronte alla crisi e servire coese contro l’ingerenza straniera imperialista, sposarsi e fare figli per la patria.
Tant’è che dopo più di 40 giorni il quadro composito delle piazze iraniane continua a animare le piazze, in ogni occasione possibile e a rischio della propria incolumità, gridando:
“La Repubblica Islamica, non la vogliamo, non la vogliamo”, “Né Oriente né Occidente, Libertà Universale”, “Donna, vita, libertà, “Non vogliamo un re, non vogliamo un leader, non vogliamo il male, non vogliamo il peggio“, “Morte all’oppressore, che sia un re o un leader”, “Kurdistan, il cimitero dei fascisti”, “Kurdistan, gli occhi e la luce dell’Iran”.
Si grida, tutto ed il contrario di tutto, ma all’interno dello spettro dei cosiddetti valori della democrazia liberale contro la tirannia dello Stato della Repubblica islamica, mentre il ricordo della rivoluzione di 42 anni fa e della sua alterità all’occidente sopravvive sbiadito (“né oriente né occidente…libertà universale”) e per come le nuove generazioni guardano al passato, forgiate da esso e dal presente capitalistico. In sostanza, chi tra le generazioni Z, che scende in piazza perchè spinto dagli effetti pesanti dalla crisi economica e dall’inflazione, non grida “vogliamo pane” (non pervenuto dalle piazze), ma “morte al dittatore”.
Per favore, fatti importantissimi stanno attraversando l’Iran, ma smettiamola col raccontar frottole che vi sia in atto una riedizione della sollevazione di massa operaia che fu da traino alla rivoluzione antimperialista del 1979.
Nelle zone più degradate dell’Iran delle città gentrificate o delle regioni industriali più povere le proteste assumono i contorni di massa fatti da giovani ragazze e ragazzi dalle mille voci e diversi aspetti. Nelle città e nei quartieri residenziali dei ceti medi di Teheran vediamo piccoli rivoli spontanei di donne (la cui cosa denota comunque un certo livello di autorganizzazione) ed un traffico automobilistico che simpatizza suonando i clackson, ma scorre e defluisce di lato. I commercianti, per cui un Iran modernizzato aiuterebbe i loro affari all’interno del turismo globalizzato, rompe gli indugi solo quando ai vari appelli a bloccare ogni attività produttiva si aggiunge quello dello Scià esule all’estero. Intanto gli scioperi iniziano a darsi anche in zone più operaie e plebee e nei distretti petroliferi della parte nord occidentale e sud occidentale, dove la recenti generazioni di lavoratori precari approssimano una coraggiosa versione persiana della George Floyd Rebellion confluendo i massicci cortei ed attaccando i commissariati di polizia – come è accaduto anche nella capitale nel tradizionale quartiere operaio di Nazi Abad. Ma gli operai delle industrie statizzate non scioperano e chissà quale sia l’umore dei contadini poveri e dei lavoratori poveri addetti all’agricoltura. Nei quartieri residenziali sostanziati da un nuovo ceto medio di giovane formazione, che è stato premiato dalla relativa gentrificazione della capitale e della città meta del turismo, lì le proteste delle donne o nei Campus universitari tendono ad auto rappresentare viceversa se stesse e la scesa in campo delle ribellione delle giovani donne come il “momentum persiano della resistenza Ucraina”. Un momentum che occhieggia all’occidente ricordando le giornate di protesta di piazza studentesche contro il governo degli Ayatollah, (con tanto di rifiuto a calpestare le bandiere USA) successivamente all’abbattimento di un volo di linea Ucraino diretto verso Kiev l’8 gennaio 2020 da parte della difesa missilistica Iraniana, che avvenne nel contesto dell’attacco terroristico della CIA e delle forze Pentagono che portarono a segno l’eliminazione di Qasem Soleimani importante figura di spicco dello Stato Iraniano.
E’ chiaro dunque, che il senso delle parole “non vogliamo il male e non vogliamo il peggio”, indichi uno scenario ondivago anche nella parte più radicale e plebea delle proteste delle nuova gioventù per Zhina Amini, dove appunto si tema l’affermarsi del “peggio”, ossia di finire nelle reti delle democrazie imperialiste e che alla lotta della liberazione della donna dalle pratiche oppressive teocratiche, strappato via il velo, corrisponda la sua “libertà in quanto produttrice” e “consumatrice” che guarda alla forza di attrazione antropologica delle democrazie occidentali.
Immaginare che le classi sociali e soprattutto il proletariato possa fare in questa fase convulsa una scelta razionale di collocamento e di posizionamento della propria battaglia per i propri “interessi immediati” indipendentemente dalle forze del mercato, che esso ha predeterminato nel suo percorso precedente e nella fase attuale, è una assurdità metafisica che non ha nulla a che vedere col materialismo storico e con il marxismo. Anche la classe operaia Polacca (e poi quella di tutto l’Est ex socialista) non avrebbe dovuto avere negli anni ‘80 – per motivi di razionalità – alcun interesse immediato a guardare all’Occidente come “modello di riferimento” di fronte al fallimento del cosiddetto “socialismo reale”. Eppure, sconfessando le aspettative di tanti comunisti d’Occidente, applaudì la Thatcher, il Papa, Khol e Reagan.
Stiamo assistendo in Iran ad un medesimo scomposto miscuglio, seppure siamo a delle scaramucce generalizzate e fortunatamente, seppure il ricordo della rivoluzione non può che apparire sbiadita, per gran parte delle generazioni Z che rappresentano quel “surplus di vita” l’immagine dello Scià non trova alcuna simpatia. Viceversa la vecchia ed “odiosa” monarchia ritrova rinnovati estimatori in diversi settori dei ceti medio e piccolo borghesi e soprattutto tra gli strati intellettuali, che guardando al liberalismo, col senno rimpiangono la sua “modernità progressista”, mentre la questione femminile e della riproduzione sociale assume uno degli spettri cardine del divenire della crisi di un modo di produzione storicamente determinato.
Sarà il appunto il corso generale della crisi che sta coinvolgendo innanzitutto l’Occidente e la decrepita Europa a sciogliere i nodi della matassa, se le giovani donne in Iran saranno sospinte a guardare temporaneamente alle società del liberalismo democratico, piuttosto che il precipitare della crisi di un modo di produzione generale farà da interludio alla rivoluzione sociale internazionale. In ogni caso questo blog non ha alcun timore a salutare il processo reale delle cose che sta scuotendo l’Iran, con vera solidarietà ed empatia nei confronti della ribellione della giovani donne, sperando presto mai più al servizio della “vita” e della “libertà” per continuare la barbarie del modo di produzione capitalistico.
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