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Quello che i dati non dicono, ma le donne sì

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Qualche riflessione sugli ultimi dati Ocse sulla condizione femminile in Italia.

Escono nuovi dati Ocse che provano a posizionare la donna nella società di oggi. Gli indici sono sempre quelli: occupazione, cariche pubblico-politiche, imprenditorialità e istruzione. Dati che ci mostrano comunque una divergenza fra il mondo maschile e quello femminile. In Italia in media la donna è più istruita (il 58% dei laureati a ciclo breve sono donne), più disoccupata (le occupate sono il 48%), e impegna posizioni meno rilevanti sia nel mondo del lavoro che nella politica. Ad oggi una donna lavora 8 ore e mezza al giorno, di cui più di 5 ore sono di lavoro non salariato. Un uomo ne lavora circa 7 e mezzo di cui 6 sono ore di lavoro salariato. Insomma, sembrerebbe niente di nuovo. Questi numeri non bastano a misurare la disuguaglianza di genere attuale; proviamo a fare qualche considerazione in più.

Ocse non lo dice ma – sempre guardando i dati – la tendenza generale è quella di un’occupazione in calo. Il gender-gap fra donne e uomini disoccupati si sta riducendo perché, mentre cresce l’occupazione femminile, quella maschile decresce tanto che questo fenomeno ha un nome, ed è stato definito mancession. L’occupazione maschile è caduta del 10% in circa 30 anni, mentre quella della donna è in crescita.

Ciò per noi non significa dire che la condizione della donna nella società sta migliorando, o che la subordinazione di genere si sta riducendo. L’aumento del femminile nel lavoro non significa uguaglianza ma semmai maggiore sfruttamento. L’integrazione del lavoro femminile nel rapporto salariale ha certo rappresentato una battaglia significativa di riconoscimento politico, ma come ogni nuovo processo di rimercificazione ha rappresentato per l’interesse del capitale l’occasione per l’integrazione al ribasso di nuova forza lavoro, cosa che ha permesso un calo dei salari e in generale un forte aumento di nuove forme di lavoro non pagato, anche giuridicamente regolamentate.

Se è vero che “l’emancipazione politica non è il modo compiuto, senza contraddizioni, dell’emancipazione umana” allora, per avere un’idea delle contraddizioni in cui stagna la condizione di sfruttamento di genere, parallelamente alla crisi occupazionale, bisogna tenere conto di tutto quello che per i dati non è giuridicamente quantificabile come lavoro ma rientra nel processo di sfruttamento della forza lavoro femminile.

Il governo della crisi ha smantellato il welfare e le sicurezze sociali, si è tendenzialmente sgravato del costo della riproduzione sociale della forza lavoro che ora è scaricato verso il basso. Quando ci sono, i servizi della riproduzione e della cura sono servizi a pagamento: sono diventati anche questi possibilità di un’accumulazione che va oltre il rapporto tradizionale del lavoro non riconosciuto. Basti pensare alle cooperative di pulizie, agli asili nido, alle case di riposo. O ci si può permettere di pagare oppure sono lavoro scaricato sulla famiglia e quindi sulla donna.

Il lavoro domestico ha sempre svolto un ruolo centrale nelle fasi di accumulazione capitalistica. Il capitalismo poteva avere a disposizione un lavoro fantasma che permetteva alla forza lavoro di riprodursi, e il costo di questa riproduzione era estratto dal lavoro femminile. È importante però tenere conto anche del fatto che soprattutto nelle fasi accumulative il lavoro della donna non è mai stato solo quello riproduttivo. La donna ha sempre lavorato: la sua lotta per essere riconosciuta era una lotta per entrare nel rapporto salariato, non nel mondo del lavoro. Il lavoro non retribuito è parte integrante della produzione capitalistica sin dalle sue origini, tanto è vero che oggi è addirittura iscritto in un rapporto contrattuale.

La situazione di miglioramento (nella disparità) mostrata nei dati non può essere per noi motivo di gioia. Nessuna politica istituzionale o aziendale che ha investito sulla questione di genere può rivendicare qualche merito: le aziende family friendly, le quote rosa, l’immaginario delle avanguardie femminili nelle imprese e della donna fatta-da-sé, le pubblicità progresso, non sono mai state disinteressate. Anche questo tipo di propaganda è merce e disciplinamento del lavoro. Parlare delle donne e mostrarsi capi o politici sensibili diventa uno strumento di governo e assorbimento di tensioni, cerca fiducia e fedeltà, ma non risolve la subordinazione di genere. Perché chi comanda non ne ha l’interesse.

Oggi, in un’epoca di esplosione del lavoro gratuito, in un momento in cui il confine fra lavoro e vita è sempre più sottile, per una lotta di genere e femminista è importante considerare come sulle donne si stia giocando una partita importante. Per questo la liberazione non può passare da politiche istituzionali, o dall’occupare come donne posizioni di potere che riproducono lo stesso sistema. La liberazione delle donne può venire solo da una lotta femminista e di genere contro l’esistente.

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pubblicato il in Intersezionalitàdi redazioneTag correlati:

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