Non facciamoci contagiare dalla confusione. Alcune riflessioni sugli aspetti socio-politici del Coronavirus
Abbiamo atteso alcuni giorni prima di scrivere sull’arrivo del contagio del Coronavirus alle nostre latitudini. Abbiamo scelto di aspettare perché il tema è estremamente complesso e gli sviluppi quotidiani del fenomeno cambiano continuamente gli scenari.
Abbiamo letto i punti di vista su facebook tra gli “ambienti di movimento” che sostanzialmente si attestano su due posizioni: una che vede l’allarmismo e le misure conseguenti come giustificati e l’altra che tende a minimizzare la portata di quello che sta succedendo. Questo tipo di dibattito ci pare assurdo, innanzitutto perché sostanzialmente ricalca il dibattito che c’è in campo borghese. Gli interessi divergenti sono evidenti: c’è chi vuole più “stato di emergenza”, più discrezionalità dall’alto per affrontare il virus, ma non solo, ha interessi nella propagazione della paura (ci torneremo più avanti), e chi invece è preoccupato per i rovesci economici che un eccessivo allarmismo potrebbe portare. Queste due posizioni attraversano la società ben oltre il campo borghese, ma è da lì che scaturiscono. In secondo luogo è un dibattito paradossale perché condotto senza gli strumenti adeguati: ci si affida al punto di vista espresso da questo o da quel virologo, medico, biologo in base alla tesi che si vuole sostenere, senza considerare anche qui che la scienza non è un campo neutro e che spesso anche inconsciamente i vari scienziati rispondono a una lettura del problema e del rapporto con la società che è politica. Purtroppo fa pensare che anche nei nostri contesti ci si è ammalati di “espertite”. Ciò non vuol dire rifiutare i pareri di chi ne sa più di noi, ma provare a contestualizzare quei pareri nelle diverse storie da cui scaturiscono e provare a costruirsi un sapere dal basso, condiviso su quanto sta accadendo.
Dunque ad oggi non siamo in grado di entrare nel dibattito scientifico, ma possiamo comunque fare alcune considerazioni sui comportamenti socio-politici dei soggetti che si muovono intorno a questa vicenda.
Iniziamo dai media: il loro comportamento ondivago tra l’allarmismo (a dire il vero molto più martellante) e la rassicurazione è un riflesso del dibattito di cui sopra. Ma soprattutto non bisogna mai dimenticarsi che nel mondo capitalista quello dell’informazione è un mercato che vende prodotti specifici. Indubbiamente in questa fase vende molto di più la paura, i titoli sensazionalistici, il terrorismo mediatico. I giornali, i grandi gruppi editoriali e le tv si orientano su questo meccanismo di mercato con sfaccettature più o meno profonde. Dunque è inutile, o comunque superficiale, prendersela con chi va a comprare le mascherine o svuota gli scaffali dei supermercati, perché i comportamenti di massa di alcuni settori della popolazione sono influenzati dal clima costruito ad hoc dai media. Puntare il dito su questi comportamenti ha solo l’effetto di rendersi antipatici (in un senso quasi etimologico) a chi è sinceramente preoccupato dal virus e dalle condizioni in cui viene affrontato. Piuttosto sarebbe necessario costruire una posizione critica sull’atteggiamento dei media, elaborare un sapere fondato dal basso da opporre, contestare apertamente le informazioni più ambigue e tossiche.
Allo stesso modo l’azione istituzionale risponde principalmente a due meccanismi: quello elettorale e quello dei grandi interessi. E’ evidente che se c’è una grande preoccupazione tra la popolazione (derivata in parte significativa dall’azione dei media, come detto sopra) misure più dure e restrittive verranno adottate senza che ci sia alcun dibattito su di esse, anzi con l’approvazione di buona parte dei cittadini. Il paradigma dell’emergenza si basa proprio su questo: la confusione nella popolazione derivata da un evento catastrofico o inedito viene sfruttata per avere maggiore discrezionalità da parte dello stato e delle borghesie nel campo dell’organizzazione della società. Se non c’è nessuno organizzato per porre domande su come viene gestito il fenomeno, per opporre resistenze, le misure che vengono adottate passano sotto silenzio e tra le norme scelte ve ne possono essere alcune imposte con scopi diversi dall’aiuto alle popolazioni colpite che magari rimarranno attive per molto tempo dopo la fine della crisi. D’altro canto è chiaro che misure di un certo tipo sono lesive dell’economia e del mercato nel breve termine, ma non dimentichiamoci che ogni crisi, per il capitalismo, è anche un’opportunità. Questa discrezionalità è evidente quando ad essere chiusi sono luoghi di assembramento come cinema, teatri, manifestazioni (sportive o meno), ma allo stesso tempo i trasporti non vengono fermati, i centri commerciali restano aperti e i posti di lavoro (dove tra l’altro vi è uno stazionamento in gran numero per più tempo) non solo non sono interdetti, ma vengono regolati all’insegna di una maggiore produttività. Perché non si insiste sulla sicurezza sul lavoro? Senza poi parlare dei migliaia di precari che lavorano nel terzo settore e che senza alcuna garanzia verranno lasciati a casa per via delle misure messe in campo. Perché non si rivendicano ammortizzatori sociali per tutte queste figure produttive invece che sperticarsi sulla gravità o meno del contagio?
E se il numero dei malati aumenterà che tipo di misure ulteriormente restrittive verranno prese? Cosa comporterebbe una eventuale militarizzazione dei territori su scala più ampia di quanto sta succedendo a Codogno e nei paesi limitrofi?
Nonostante la situazione poche sono le parole che vengono spese sulle condizioni della sanità pubblica che rischia il collasso, e sui lavoratori di questo settore. Ma perché se la sanità pubblica è a rischio non si approvano piani di spesa straordinari (come ad esempio in Cina) per risolvere i problemi? I famigerati vincoli di bilancio? Chi è che dovrebbe fare pressioni perchè ciò accada?
Molte sarebbero le domande, per ora senza risposta (non avendo elaborato ancora un sapere all’altezza della sfida di cui parlavamo sopra), che sarebbe importante farsi. Ne proponiamo ancora alcune: ad esempio, siamo sicuri che l’autoquarantena sia una soluzione adeguata (pare che a Wuhan abbia rappresentato un problema inizialmente perché i malati rinchiusi in casa hanno infettato i propri familiari contribuendo alla diffusione del contagio)? Siamo sicuri che accettare la segregazione sia il miglior modo per affrontare un’eventuale malattia? E se si come si può evitare che il virus diventi una colpa individuale da assumersi e che invece ci sia una cooperazione sociale tra malati e non malati anche solo attraverso il virtuale?
Crediamo che invece che stare su facebook a dibattere se il virus sia una banale influenza, o una pandemia sarebbe importante elaborare collettivamente delle risposte a queste domande, provare ad immaginare quali possono essere dei modi per stare a fianco di chi viene colpito e anche solo di chi ha paura di esserlo, capire quali discrezionalità nello stato d’emergenza si possano qualificare come veri e propri abusi di potere piuttosto che come modi per spegnere il contagio e elaborare strategie per affrontarli dal basso in maniera condivisa. Indubbiamente di fronte a un problema serio come questo non si può continuare la propria vita e militanza come se niente fosse, ma non bisogna neanche adeguarsi alla narrazione istituzionale e piuttosto comprendere le sfide locali e globali che questi fenomeni e il modo in cui affrontarli pongono.
Sul piano della gestione emergenziale siamo di fronte ad un assaggio di quello che potrebbe succedere se questa epidemia diventasse più seria, o se si presentassero malattie future più intense e mortifere. Crediamo che nell’emergenza, nell’immediato, sia difficile muoversi a livello operativo, sicuramente approfondire e costruirsi un sapere condiviso e degli strumenti è l’obbiettivo primario. Bisogna iniziare a pensare a chi pagherà i costi di questa ennesima crisi, e se si aprono possibilità di organizzarsi preventivamente dal basso per casi di questo tipo, e immaginare nuove reti sociali capaci almeno di porre il problema di far pagare il costo sociale delle distopie sanitarie del sistema in cui siamo OBBLIGATI a vivere.
Per una lettura più generale di ciò che sta accadendo consigliamo l’ascolto di questa puntata di Voci dall’Antropocene
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