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Francia, primavera 2018: sui movimenti sociali e la difesa del servizio pubblico

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Lo sciopero dei ferrovieri segnala la crisi dell’ideologia della difesa dell’interesse generale come mistificazione statalista della difesa dell’interesse proletario. Come una delle possibili chiavi di accesso al dibattito interno alle mobilitazioni d’oltralpe abbiamo tradotto il seguente testo tratto da carburblog.

Da una trentina d’anni in Francia, tutta la conflittualità sociale sembra doversi esprimere per mezzo delle lotte nel settore della pubblica amministrazione, con grandi scioperi organizzati dai sindacati, che attraversano quelli che vengono chiamati movimenti sociali. La posta in gioco della maggior parte di questi movimenti è consistita nell’opposizione a una qualche riforma riguardante il servzio pubblico, o la gestione da parte dello Stato dei vari aspetti relativi alla riproduzione globale della forza lavoro (contributi alla disoccupazione, previdenza sociale, pensioni, ecc.).

Ciò è dovuto a tutta una serie di ragioni, analizzate mille volte, che vanno dall’effettivo peso e dal ruolo ideologico che ha acquisito il servizio pubblico in questo vecchio stato-nazione dall’organizzazione centralizzata dal medio evo che è la Francia, fino all’indebolimento dei sindacati del settore privato, risultato di trasformazioni sociali del capitale nelle sue forme più recenti che hanno reso il settore pubblico l’ultimo baluardo delle lotte operaie di massa.

Ma, se la difesa del servizio pubblico ha acquistato in Francia una tale importanza ideologica, è essenzialmente perché le grandi concentrazioni operaie che sono esistite fino ali anni 50-60 sono state progressivamente sconfitte con la ristrutturazione del capitale, a partire dagli anni ‘70, e, in maniera accelerata, a partire dagli anni 1999-2000. La fine dell’identità operaia e con lei la fine della capacità degli operai di mobilitarsi in massa, oltre che produrre uno specifico discorso politico, ha aperto lo spazio ad un’amministrazione pubblica in cui gli impiegati possono ancora scioperare senza subire eccessive sanzioni, e di conseguenza possono farsi rappresentanti dell’interesse comune, per mezzo della difesa dei propri interessi. Inoltre, in Francia, metà del servizio pubblico è costituito dagli insegnanti, molti dei quali professori, ossia da persone estremamente in grado di produrre discorsi politici. Capacità di mobilitazione e capacità di produzione ideologica hanno fatto sì che le lotte del servizio pubblico sostituissero le lotte del passato movimento operaio, conservandone alcuni tratti, imponendo in modo egemonico la loro specifica ideologia a tutte le lotte.

Dunque, ci sarebbero tutte le ragioni di pensare che, nel 2018, questo non sia che l’ennesimo movimento sociale con le sue grandi manifestazioni rituali, i suoi débordements-en-marge ( ndt. gli straripamenti/scontri a lato delle manifestazioni ufficiali), le sue giornate di sciopero, le sue interviste televisive ai passeggeri “presi in ostaggio” nelle stazioni ferroviarie o di servizio, la denuncia da parte dei più radicali del ruolo collaborazionista dei sindacati, le sue assemblee autonome e il suo ritorno alla calma dichiarato dai sindacati stessi dopo un tempo più o meno lungo. Allo stesso tempo, tutti si rendono conto di come questa volta le cose siano un po’ diverse, e che, anche se tutti gli elementi sopraelencati non mancheranno di essere presenti nel movimento a venire, la posta in gioco non sarà assolutamente la stessa di sempre.

Prima di tutto, il movimento che si sta avviando arriva a seguito di una lunga serie di sconfitte, tra cui quelle notevoli delle lotte sull’età del pensionamento del 2010, nonostante una mobilitazione di massa, e quella della lotta contro la loi travail nel 2016. Gli scioperi e le manifestazioni che fino alla fine degli anni ‘90 erano in grado di fare arretrare i governi (che comunque solitamente riuscivano lo stesso a fare i loro interessi), sembrano essere trattati unicamente come problemi di ordine pubblico, e non come elementi di un dialogo che appare di fatto sparito, dal momento in cui le riforme son imposte dal 49-3 (ndt il 49.3 è l’articolo utilizzato quando si arenano le discussioni nell’Assemblea nazionale o quando il governo vuole fare passare una legge d’urgenza) e da ordinanze.

La lunga serie di sconfitte del movimenti sociali a partire almeno dal 2003 (ad eccezione della lotta sul CPE nel 2006) non ha avuto solo un effetto demoralizzante, ma anche degli effetti molto concreti sulla struttura del lavoro in Francia, allontanandolo sempre di più dal modello basato sulla difesa del servizio pubblico. E’ così che la difesa del servizio pubblico è diventata sempre più onnipresente e urgente, a partire dal suo stesso fallimento. Ma nello stesso tempo in cui ci si è focalizzati sul servizio pubblico e la sua difesa, l’intero settore privato si è adattato sempre più velocemente alle nuove esigenze del capitalismo. In parallelo a queste trasformazioni, la tendenza delle imprese pubbliche è stata quella di avvicinare sempre più le loro strutture di funzionamento a quelle del privato, nella loro gestione e nelle loro esigenze di risultati concreti, o addirittura del loro rendimento finanziario.

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La spaccatura tra i dipendenti pubblici e i salariati del privato non è solo ideologica bensì reale. Non esiste esclusivamente per ragioni psico-politiche di odio dei dipendenti pubblici o per colpa della propaganda mediatica, ma semplicemente perché le due realtà non corrispondono più. Alcune riforme sono state applicate e combattute più o meno con forza ed efficacia. I salariati nel privato, che oggi sono chiamati a sostenere i ferrovieri nel nome dell’interesse generale, potrebbero domandare ai sindacati che cosa facevano, nel 2003, quando è stato approvato l’incremento dell’età di pensionamento, sebbene Balladur avesse garantito che i regimi speciali sarebbero stati al sicuro. Ma soprattutto, i rapporti sociali si sono trasformati, con cambiamenti che soni stati seguiti o promossi da leggi, ma che rispondono alla trasformazione globale del capitale nella sua fase di ristrutturazione compiuta, nella quale ci troviamo tutti.

Anche nel cuore della pubblica amministrazione, il ricorso al subappalto e ai contrattuali, la logica commerciale nei servizi, i metodi di gestione (talvolta ancora più duri rispetto al settore privato, cfr. la Posta) tendono a rendere l’impiego garantito, la protezione sociale, oltre che le catene gerarchiche tradizionali una sopravvivenza del passato. E’ anche un modo di relazionarsi al lavoro ereditato dalla vecchia identità operaia (miscela sottile di coscienza della sua posizione nei rapporti d’impresa e di orizzontalità nei rapporti individuali) che è stato combattuto, come è evidente nel caso della posta, ma anche della SNFC o di EDF.
Ecco l’effetto di più di vent’anni di modernizzazione.

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Per tutti questi motivi, sembra che i presupposti di partenza non siano i migliori. Può essere per questo che, prima ancora di aver iniziato, ci si guarda indietro, al 1995, l’ultima grande vittoria sindacale che ha fronteggiato una riforma del governo e un movimento di tipo sociale, e anche al maggio 68, di cui quest’anno commemoriamo il mezzo secolo. Ci si ricorderà – o invece no – che questo movimento ha avuto inizio il 22 marzo.

Il fatto che quasi lo stesso scarto di tempo separa queste due date ’68 e ‘95, ci dovrebbe fare comprendere la rottura che segna il 95 nei confronti del maggio ’68 e dei contenuti rivoluzionari del vecchio ciclo di lotta, e farci sospettare che il ciclo aperto dal movimento del dicembre ’95 rischia di essere oramai concluso.

Il movimento del dicembre ’95 è stato l’ufficiale atto di nascita di ciò che possiamo chiamare cittadinismo o democraticismo radicale. A partire dalla crisi del 2007-2008 la sconfitta storica di questa ideologia è diventata evidente, attraverso l’abbandono di qualsiasi possibilità di un ritorno al keynesianismo sociale come soluzione alla crisi. Con la gestione della crisi, è il capitale stesso che ha riaffermato la produzione di ricchezza come un risultato dello sfruttamento e non come un oggetto neutro che dovrebbe essere distribuito armoniosamente, e che, attraverso le politiche di austerità portate avanti dagli stati, ha fatto del disciplinarmento dei proletari e dell’intensificazione dello sfruttamento, che sia con la diminuzione dei salari o con la diminuzione dei contributi, l’affermazione del contenuto oggettivo del rapporto tra classi. Le lotte per il salario così sono diventate illegittime, forse persino tendenzialmente illegali, come dimostra l’eterno dibattito sul “diritto” o meno di bloccare il paese nel corso di uno sciopero.

Il cittadinismo, ideologia che si è sviluppata in Francia sulla base della difesa del servizio pubblico, al contrario sosteneva una ripresa keynesiana su un modello risalente ai gloriosi anni Trenta. Ma con la crisi come apice della ristrutturazione, come momento in cui le caratteristiche di questa ristrutturazione si affermano con maggiore durezza, tutti gli elementi alla base di quest’ideologia sono attaccati e sconfitti uno ad uno. Così, il programma positivo del cittadinismo si rifugia nella semplice difesa dei suoi risultati (divenute comunque “conquiste”, per ricordare che ancora niente è ancora vinto) e la parola-chiave diventa “resistenza”. Il riformismo non ha più niente da proporre che non sia l’opposizione a riforme portate avanti da altri e che contraddicono punto per punto tutte le loro aspirazioni. Diventano semplicemente il negativo di ciò che criticano.

Il movimento del 1995 aveva potuto formulare la base del programma cittadino sugli elementi di questa resistenza, sicuri che fosse necessario preservare: la previdenza sociale, le pensioni, la disoccupazione, ecc. in sintesi la riproduzione della forza lavoro assicurata dallo stato all’interno di un mercato regolato, ossia un socialismo moderato che permettesse di assicurare la preservazione dei fondamentali rapporti capitalistici. Ma vent’anni dopo, se lo stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di disciplinamento della riproduzione di forza lavoro lo ha fatto alle proprie condizioni di Stato del capitale, nell’attuale momento capitalista, e non secondo una qualsiasi ideologia, se non l’ideologia liberale, ossia l’ideologia funzionalmente adeguata, per la classe dominante, ai rapporti di classe esistenti. Effettivamente lo Stato interviene, e riforma l’indennità di disoccupazione per spingere i disoccupati ad accettare qualsiasi tipo di lavoro, prolunga all’infinito l’età di pensionamento, diminuisce i contributi sociali e dunque i salari, ecc. Tutto ciò, accompagnato dal mantra della “difesa del servizio pubblico” che ci esce dalle orecchie, lo subiamo ogni giorno. Poiché per centinaia di migliaia di persone oggi in Francia, il servizio pubblico sono anche i professori che umiliano e ordinano socialmente, i servizi sociali inquisitori che tagliano gli assegni sociali al minimo errore di compilazione dei documenti, i controlli mensili all’ufficio di collocamento, le multe sui mezzi di trasporto e i controlli della polizia.

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Insomma, lo Stato, oggi, fa ciò che faceva lo Stato keynesiano dei gloriosi anni Trenta eretto a modello dell’ideologia cittadinista: inquadra le evoluzioni del capitale e fa gli aggiustamenti necessari ad esse. Dopo la Seconda guerra mondiale, era necessario ricostruire e modernizzare. Le forze produttive integravano la forza lavoro come fattore essenziale nella produzione di valore, l’apparato produttivo nazionale era la priorità, la questione abitativa, la sanità e l’educazione erano le condizioni necessarie per fornire al capitale una mano d’opera di massa, qualificata e valida. Lo Stato si è applicato per quest’obiettivo, per il bene più grande del capitale – e senza dubbio, “globalmente” come diceva Marchais, per il bene dei proletari del tempo, che hanno visto migliorate notevolmente le proprie condizioni di vita. Ma resta il fatto che questo periodo è finito: lo stato-provvidenza ha fatto il suo lavoro di ricostruzione, ha passato le redini allo stato liberale, che deve fare il suo, lasciar disfare ciò che ha costruito il primo: quando il cemento è versato, è il momento di smontare la struttura che lo conteneva.

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Eccoci dunque al 2018 e, per l’ennesima volta, è necessario “difendere il servizio pubblico”. Questa volta ad essere attaccato è lo statuto dei ferrovieri, con la volontà di rendere la SNCF una società per azioni a capitale pubblico, per aprire la possibilità di concorrenza. Da notare che la Posta è diventata una società per azioni nel 2010, senza aver dato luogo ad altro che non fossero delle “decise proteste” sindacali.

L’annuncio di questa riforma dello statuto dei ferrovieri (impiego garantito, età di pensionamento fissa – già prolungata nel 2007 per l’adeguamento al privato -, regime speciale di previdenza sociale) ha provocato, ad un’ondata di odio mediatico verso i “privilegiati” e i “pigri” della SNCF, in una maniera oramai conosciuta, ma con un’intensità del tutto particolare. Di fronte a quest’ondata, i sindacati e i politici (in prima linea Besancenot, che su questa questione è riuscito a formare un fronte della “sinistra di sinistra” – che di fato sembra essere diventata l’unica sinistra) hanno costruito, sfruttando l’arsenale ideologico a loro disposizione, una linea di difesa basata sul doppio asse della difesa del servizio pubblico e della solidarietà di classe. Sostenere i ferrovieri, sarà indubbiamente difendere il servizio pubblico, garanzia per l’interesse generale, e difendere noi stessi, nel nome dell’effetto domino delle sconfitte operaie.

Ma difendere i ferrovieri nel nome delle ferrovie, della qualità del servizio o del suo supposto carattere ecologico, sarebbe come inglobare il lavoratore nel suo stesso prodotto, fare del proletariato qualcosa di appartenente alla sua macchina. In questo ragionamento, i ferrovieri diventano “i mezzi umani” della ferrovia. C’è mai stato uno sciopero dei lavoratori dell’industria automobilistica che sottolineasse il carattere ecologico dei veicoli o la qualità dei loro motori? Ma ecco che i ferrovieri sembrano non appartenere più alla SNCF, in quanto servizio pubblico, come se essi fossero parte di un bene comune della nazione, un po’ come i soldati nel 1914. Essi diventano i nostri ferrovieri. In questa vena di nazionalismo produttivo ci piace tra l’altro ricordare che tali statuti risalgono alla fine della prima guerra mondiale per il servizio reso alla nazione

Questo significa non soffermarsi abbastanza su quello che é realmente la SNCF oggi, ossia un’impresa che ha meno utenti che clienti. Qual’è il servizio pubblico di trasposto assicurato dai suoi treni, quando un biglietto tra Parigi e Marsiglia costa 200 euro, così che la classe dirigente prende il TGV alla Gare de Lyon, mentre i proletari il Ouigo (ndt. un’offerta di treni low cost su tratte francesi) a Marne-la-vallèe, a Disneyland, a dispetto della nobile idea de “l’uguaglianza nell’accesso e nel trattamento di tutti gli utenti”? Il fatto è che la trasformazione di SNCF in azienda privata, usata ora come spauracchio, in realtà è iniziata già da tempo, con la creazione del TGV negli anni ’80 e l’introduzione di software di tipo Socrate all’inizio degli anni ’90 che oramai riescono a calcolare il prezzo del biglietto in funzione dell’offerta e della domanda, seguendo una pura logica di mercato. In precedenza, esisteva una tariffa chilometrica, uguale per tutti, coerentemente con l’idea repubblicana. Nessuno ha scioperato per la difesa della tariffa unica, come nessuno alla Renault sciopera quando viene prodotta una berlina di lusso, in nome de “l’ uguaglianza che deve regnare tra i consumatori” per il semplice motivo che chiunque riconosce il fatto che il versamento dei salari è giustificato dai profitti dell’azienda.

Dunque, il salariato della SNFC dovrebbe essere un lavoratore come gli altri. Perché, in nome dell’ideologia del servizio pubblico, per i ferrovieri, risulta impossibile sostenere la loro posizione allo stesso modo che i proletari? Si può definire corporativismo, la difesa di una situazione lavorativa specifica, nel momento in cui si riconosce come tale ogni situazione? I salari bassi, gli sfiancanti 3×8 (ndt i 3 × 8 o trois-huit sono un sistema di organizzazioni di orario di lavoro che consiste in turni da otto ore per tre squadre di lavoro sullo stesso posto, in modo da assicurare un funzionamento continuativo della produzione, 24 su 24, esclusi i fine settimana), la pesantezza del lavoro: tutto dà loro il diritto di difendere i magri benefici che hanno, che non sono privilegi ma risarcimenti. Inoltre, diritto o meno, non ci dev’essere nessuna vergogna nel difendere i propri interessi, quando si è un proletario.

Il fatto è che i ferrovieri sono incastrati nella difesa del servizio pubblico, in quanto minacciati direttamente dall’apertura della SNCF alla concorrenza. Ma difendendo la SNFC come servizio pubblico, i ferrovieri si trovano costretti a difendere addirittura il loro stesso apparato riproduttivo. Così quando, in loro difesa, la riduzione continua dell’organico dal 1950 è presentata in un volantino come pegno per la modernità della “loro” azienda pubblica, ciò che in realtà essi sono costretti a riconoscere, sono le condizioni di profitto e le politiche condotte dall’azienda fino ad oggi. Il problema resta lo stesso, per i ferrovieri come per il proletariato in generale: nel momento in cui essi si riconoscono per ciò che sono nell’apparato produttivo, riconoscono anche di essere di troppo, di essere un costo in quanto “strumento umano”, che il servizio sia pubblico o meno.

E’ vero che l’apertura alla concorrenza porta un’accelerazione del processo che rimette in discussione lo statuto, avviato da tempo dagli “allineamenti” con i privati portati avanti dai sindacati. Nonostante le promesse sul mantenimento delle condizioni dello statuto attuale per i ferrovieri che già ne facevano parte, sarà la nuova mano d’opera, tanto quanto la concorrenza e i metodi liberali di gestione, ciò che farà pressione sullo statuto per renderlo marginale. Con il passare del tempo, in questa evoluzione, appare chiaro che saranno necessarie delle pensioni anticipate, per la “modernizzazione” dell’azienda. I ferrovieri giustamente si preoccupano per il loro futuro nelle linee ferroviarie minori che saranno aperte alla concorrenza, poiché è certo che nessun operatore privato riterrà necessario conservare del personale da cui gli è impossibile separarsi: i capitalisti non sono più filantropi dello Stato. Quello che si preparano a vivere i ferrovieri, e che già hanno iniziato a vivere, è l’evoluzione della società francese degli ultimi trenta quaranta anni, accelerata a marcia forzata. Questa evoluzione è stata fatta nel corso dei movimenti sociali, regolata dai sindacati che bene o male l’hanno negoziata colpo dopo colpo. Sicuramente fin d’ora, i sindacati stanno negoziando le garanzie con il ministro dei trasporti, per tutelare ciò che può essere tutelato, e soprattutto la loro presenza a qualsiasi negoziazione.

I ferrovieri sono incastrati nella contraddizione tra la difesa politico-sindacale del servizio pubblico e la difesa immediata dei propri interessi come lavoratori di un’azienda, ossia come proletari. Martinez può anche accontentarli dichiarando che “E’ sufficiente includere tutti nelle regole dello statuto dei ferrovieri e tutto andrà bene”, nessuno può assumersela come rivendicazione reale e vederci altro che non sia una battuta, magari con un contenuto politico, come la rivendicazione della settimana di 32 ore, ma sicuramente non sarà mai oggetto di una lotta reale. Parlare come fossimo nel 1936, agire come nel 2018: è questo il politichese dei sindacati.

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Se i benefici dei ferrovieri, per quanto pochi siano, appaiono come privilegi, è perché nel 2018 rappresentano un’anomalia del mercato reale.
L’impiego garantito dei ferrovieri, nella società degli anni ’50-’60 non era che una formalizzazione di ciò che di fatto già esisteva per chiunque: a quell’epoca, la maggior parte dei lavoratori firmavano un CDI (ndt contratto a tempo indeterminato) e lavoravano 35 o 40 anni per la stessa società prima della pensione. Quando scioperavano, la lotta era per i salari, non per la “tutela del posto di lavoro”. Oggi il mercato del lavoro è frantumato, precarizzato, i percorsi professionali sbandano, quando non si disperdono nella dequalificazione e in lunghi periodi di disoccupazione, con o senza RSA (ndt revenue de solidarité active – contributo economico dello Stato distribuito con molte restrizioni dovute alle numerose condizioni da rispettare per poterne usufruire). Di fatto, la differenza principale tra le aziende pubbliche e quelle private, è sempre più determinata dallo statuto del loro personale. Questa non è la conseguenza del “progresso”, ma piuttosto il disastroso percorso del capitalismo.

Se dev’essere incoraggiata una solidarietà nei confronti dei ferrovieri, non è per difendere il servizio pubblico, quanto per lottare affianco a chi è attaccato dai suoi padroni, in questo caso dallo Stato, senza nessun altro obiettivo che non sia la semplice autodifesa di classe. La difesa del servizio pubblico è, in realtà, ciò che impedisce la solidarietà di classe, trasformandola in “interesse generale”, cosa da borghesi e Stato. Ma questo, l’ideologia del servizio pubblico, impantanata nel suo stesso discorso, non può dirlo, se non dando apparentemente ragione al “neo-liberalismo”, che porta avanti le sue riforme in maniera completamente apolitica, per mezzo di puri amministratori come Macron, come passaggi di un crudele ma necessario aggiornamento sociale. L’impasse della difesa del servizio pubblico sta nell’impossibilità di sostenere questo tipo di discorso ma, al tempo stesso, non avere più niente di tangibile da proporre che non sia lo status quo.

Per uscire da questo stallo, sarebbe necessario riconoscere che in realtà le protezioni sociali ereditate dai gloriosi anni Trenta, come i regimi speciali, sono destinate a scomparire nel tempo, che tutto ciò a cui era necessario resistere fino ad ora ha già praticamente vinto e tutto ciò che andava difeso è oramai perso. Già al tempo delle lotte contro i pensionamenti, nel 2010, la CGT (ndt La Confédération générale du travail, importante confederazione sindacale francese) si è piegata alla logica della contabilità, riconoscendo che l’allungamento della durata della vita implicasse quello degli anni di lavoro, e dichiarando all’unisono con lo Stato che prima di tutto era necessario “salvare il sistema delle pensioni con la loro distribuzione” poiché era una volontà dell’ “interesse generale”; parla chiaro il fatto che dei fondi pensione avrebbero potuto aiutare il completamento delle pensioni, fondi che, per giunta, sono gestiti dai sindacati attraverso un comitato intersindacale del risparmio salariale.

D’altra parte la difesa del servizio pubblico può inizialmente sembrare il servizio pubblico stesso, ossia un gran numero di persone, spesso sufficiente. Ma gli appelli al settore privato che vengono fatti a partire dalla difesa del servizio pubblico sono compresi esclusivamente sulla base della divisione pubblico/privato. Se nel privato ci fossero i mezzi per produrre mobilitazioni importanti, le priorità delle lotte non si sarebbero attestate sulla difesa del servizio pubblico. Dalla spaccatura dell’egemonia appare il suo rovescio, l’isolamento.

Inevitabilmente, con il passare del tempo, lo statuto dei ferrovieri raggiungerà la piena occupazione, il pensionamento a 60 anni e la tredicesima, trattato a livello di accordo settoriale nel negozio dell’antiquariato del capitale ristrutturato. Ugualmente, i sindacati maggioritari saranno unicamente strumenti di cogestione, impegnati a farsi la guerra tra di loro per conservarsi il posto tra le numerose istituzioni paritetiche, da cui trarre la maggior parte dei loro profitti. Il loro futuro è garantito anche “alla base”, quando ricorreranno a loro, caso per caso, per gestire gli accordi commerciali d’azienda, possibilmente limitando il colpo. Questo non sarà il risultato di una deriva ideologica dei sindacati o di un qualche tipo di tradimento, ma un loro effettivo adeguamento alla realtà del capitalismo contemporaneo, come il sindacalismo rivoluzionario era adeguato a una situazione completamente differente. Nella lenta dissoluzione programmata del servizio pubblico alla francese, è l’intero periodo dei movimenti sociali a doversi progressivamente chiudere.

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I movimenti sociali erano basati su una tacita intesa tra lo Stato e gli “attori sociali”: lo Stato avanzava delle riforme, misurava la resistenza e negoziava sulla base di questa resistenza. È ciò che esprime il buon vecchio slogan “due passi in avanti, tre passi indietro”. Questo sistema si riferisce al periodo che va dal 1985 alla fine degli anni ’90. Questo periodo era ben lontano dalla violenza degli scontri di classe (compresi quelli sindacali) degli anni ’60-’70, sulla base di un aumento effettivo dei tassi di profitto di cui beneficiavano le politiche liberali spinte dal governo Mitterand, e della disfatta dell’offensiva di classe post ’68. A partire dal 1998, la parte effettiva del valore aggiunto nei salari ha iniziato ad aumentare, senza che il livello dei salari fosse effettivamente cambiato, ciò significa che il tasso dei profitti si è abbassato, mettendo fine a una breve schiarita capitalista, e indurendo di fatto le politiche dette neo liberali, ossia le politiche del capitale ristrutturato.

La crisi economica del 2008 ha accelerato radicalmente questa tendenza. Ovunque in Europa, gli Stati membri hanno condotto politiche di austerità sotto pressione delle istituzioni internazionali, affinché si attuasse un’uscita dalla crisi che fosse la realizzazione di quelle stesse tendenze che hanno portato alla crisi.
Dieci anni dopo, una relativa uscita dalla crisi si è data, con l’abbassamento generale dei salari e degli aiuti sociali, con la crescente precarizzazione dell’impiego, con i tagli effettuati dagli Stati a tutte quelle forme di Welfare ancora esistenti, mettendo così sul mercato milioni di proletari pronti ad accettare di lavorare in qualunque condizione. Quest’uscita dalla crisi rinnova dunque le condizioni della crisi e prepara a una nuova caduta che sarà senza dubbio ancora più brutale, tanto negli effetti che nella sua gestione.

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In questo nuovo contesto, il sistema dei movimenti sociali tale e quale a come funzionava fino agli anni 2000 è divenuto obsoleto. Da una parte si è erosa la capacità di una effettiva resistenza sindacale, e dall’altra parte la reazione dei governi successivi è diventata sempre più brutale e chiusa al “dialogo sociale”.
Laddove i sindacati agivano a un livello quasi simbolico, e si accontentavano di mostrare la loro capacità di mobilitazione facendo scendere in piazza le persone e organizzando gli scioperi, lo Stato li prende alla lettera, forzandoli a dimostrare la loro impossibilità a mettere in atto le loro minacce, o praticando ogni mezzo per impedirglielo. A partire da allora, assistiamo alla criminalizzazione dei movimenti sociali.
Alla domanda-trappola “abbiamo il diritto di bloccare il Paese?”, la risposta non può che essere no. I sindacati, istituzioni che per ottenere la loro legittimità devono essere riconosciuti dallo Stato, non possono di fatto porsi al di fuori della legalità. In tutti gli scioperi e le occupazioni, ci sono degli “straripamenti”(débordements). I sindacati possono in una certa misura nascondersi dietro a degli atti considerati individuali (“i ragazzi vogliono fare casino”), coprirli, o delle volte denunciare le violenze. Non possiamo chieder loro di organizzare gli straripamenti, perché non è il loro ruolo. Il loro ruolo è al limite nel migliore dei casi di riconoscere questi straripamenti grazie alla legittimità della quale dispongono. Questa legittimità, sempre di più, è riconosciuta dallo Stato solo nel momento della negoziazione, per ratificare quello che è stato deciso in precedenza, con eventualmente qualche concessione superficiale per non fargli perdere la faccia.

In ogni caso, più la politica dei governi diventa dura, più i sindacati sono portati a indurire a loro volta le loro azioni. La questione che riguarda la pratica del “bloccare” lo dimostra da una decina di anni. Nel 2010, se il blocco delle raffinerie, lontano dall’essere il blocco totale della produzione, non è stato altro che una pausa, in modo tale che le raffinerie potessero essere rapidamente rimesse in funzione, è successo semplicemente perché un blocco reale e totale della produzione sarebbe stato assimilato a un’azione di sabotaggio, punito severamente dalla legge. I sindacalisti non sono dei desperados. Nel 2016, durante un altro movimento delle raffinerie, lo Stato è andato ad attingere dalle sue riserve strategiche, come in tempo di guerra, e il panico ai distributori di benzina è stato provocato più dalla coda degli automobilisti che da una cessazione effettiva dell’approvvigionamento. Nel 2018, la SNCF instaura una co-guida e offre un aumento mensile agli impiegati per guidare i treni. Cerca, arrangiandosi, di far sì che lo sciopero illimitato usato dai sindacati per far durare il movimento senza impattare sui salari sia considerato come uno sciopero singolo, e che tutti i giorni siano perduti. È abbastanza evidente che l’obiettivo è, come lo diceva Sarkozy, quando c’è uno sciopero in Francia, di far sì che non ci si accorga più, o ancor meglio – nel rispetto del diritto allo sciopero, beninteso – non ci siano più scioperi del tutto.

La realtà è che i sindacati non hanno la capacità, nè il desiderio di bloccare il paese. Il fatto è che i sindacati sono realmente composti da lavoratori che non hanno che il loro lavoro per vivere e sono di fatto attaccati ai loro mezzi produttivi, come i ferrovieri non esistono che dentro la SNCF, e per questo difendono il servizio pubblico. Nel momento in cui lo stato li mette spalle al muro e li spinge a attuare le loro minacce, i sindacati e i lavoratori che rappresentano devono riconoscere che la funzione dei sindacati non è di condurre l’insurrezione ma di negoziare. La negoziazione non consegue solo dalle direttive ricevute dal ministero, essa esiste anche a livello delle fabbriche e a volte in contraddizione con le linee decise a livello nazionale. Nel 2013 per esempio la CGT ha rifiutato di firmare gli accordi sulla “flexi sicurezza”, tanto che nell’Aveyron, il sindacato locale CGT salvava una azienda Bosch consentendo degli abbassamenti salariali e delle riduzioni del tempo di lavoro, nel più puro spirito flex-security. Il fatto è che le segreterie fanno la politica e la base deve seguire. La quotidianità del sindacalismo consiste in questi aggiustamenti quotidiani, lontano dalle proiezioni dei grandi movimenti sociali.

Ma se lo Stato, durante un movimento, spinge i sindacati a posizionarsi al di là della legge, e per la stessa li rimette attorno al tavolo della negoziazione nelle condizioni che gli sono più favorevoli, afferma lui stesso sempre di più che si può evitare di negoziare. Il 49-3 e i decreti esistono per questo, ma anche le procedure democratiche: che lo statuto dei ferrovieri e la legge sull’apertura della concorrenza passi davanti all’Assemblea Nazionale, costituisce semplicemente un piccolo rallentamento nella procedura, e può essere che faccia durare lo sciopero, ma tutti conoscono il livello dei dibattiti in un’Assemblea composta per la maggioranza da chi è propenso alle riforme. È allora che il regime da partito unico istituito da Macron torna a pieno ritmo.
Il problema dei movimenti sociali è che per l’appunto restino “sociali”, che attraverso le lotte e le critiche che formulano alla società, restaurino in negativo tutte le categorie di questa società che diventa criticabile all’infinito perché potenzialmente da salvare all’infinito. È anche che tracciano una linea critica, ogni tre o cinque anni, alle evoluzioni del capitale, camminando mano nella mano con lui sulla strada dello sviluppo. È anche che noi, proletari, camminiamo mano nella mano con chi allo stesso tempo ci uccide e ci fa vivere.

In questa situazione di immobilismo, è lo straripamento che si afferma come la sola via percorribile. I movimenti sociali, nella pretesa di prendere in carico tutta la conflittualità sociale e di incarnare la lotta di classe stessa, hanno avuto l’effetto di invisibilizzare tutte le altre forme di conflittualità, di definire ciò che è una lotta legittima e ciò che non lo è, di ridurre tutti i conflitti alla rivendicazione e al dialogo con il potere. Ci si riferisce chiaramente alle rivolte delle banlieues del 2005, che non sarebbero state considerate alla stregua di un semplice fenomeno di disordine pubblico se il paradigma dominante della lotta non fosse stato quello dei movimenti sociali. Nel 2016, durante la lotta contro la loi travail, gli straripamenti sistematici hanno contribuito a reintrodurre la conflittualità laddove rimaneva solo una tipologia di manifestazioni rituali e desuete: le famose manifestazioni “a palloncini e salsicce”.
Nel movimento che si annuncia, la violenza subìta o praticata, l’assenza di rivendicazioni come condizione necessaria all’azione, il superamento reso necessario del problema della legittimità della lotta per la sua delegittimazione effettiva, hanno fatto apparire la questione dello straripamento come contrario assoluto della convergenza delle lotte, come forza centrifuga. Il “cortège de tete” stesso, ormai istituzionalizzato e ritualizzato, diventa un freno a questo movimento centrifugo, in quanto designa gli individui per la loro appartenenza socio-politica (tuniche rosse e k-way neri), e si vede ridurre a una forma convergente, presa nella dinamica del movimento sociale. Questa constatazione è già stata fatta da un certo numero di coloro che vi parteciparono. Il cortege de tete, nel momento in cui è stato formalizzato è diventato un oggetto politico, un affare da militanti, un discorso ideologico. È arrivato a negare ciò che l’aveva costituito nella sua forma più viva, e che esiste a un livello o a un altro di tutte le lotte di classe di questo ciclo; agire e incontrarsi in una forma sociale indistinta e provvisoria che da modo di “spaccare tutto”, significa non rivendicare niente come proprio in questo mondo, non costruire nulla, non andare a cercare del “comune” al di fuori del sé , de-soggettivare il soggetto. Far uscire lo straripamento dai cortei nei quali è contenuto, istituirlo come forma di relazione tra gli individui e, al di là dell’insurrezione, portarlo in differenti luoghi – in particolare nei luoghi di produzione, ma non solo – in modo da determinarne l’uso immediato e abolendone il suo ruolo sociale, è ciò che si pone in questo momento: il nodo del comunismo in atto.

Ma non siamo ancora arrivati a quel momento. Per adesso, possiamo solo constatare il declino dei movimenti sociali. La loro incapacità a opporsi all’evoluzione del capitalismo, perché dal punto di vista del lavoro, non siamo che un polo di questa evoluzione, che ci porta con lei. Possiamo anche constatare, attraverso questo declino, il fallimento ideologico del cittadinismo, e la sua incapacità di promuovere delle politiche effettive, intrappolato com’è in un’apologia dello Stato e della democrazia. Siamo evidentemente in un momento di rottura, o almeno di dislocazione. Possiamo allora chiederci la direzione che prenderanno a termine le lotte di classe, che non si sono mai limitate alla forma dei movimenti sociali, in questo indebolimento. Nessuno può veramente rispondere a questa domanda per il momento. È solo a partire dalla comprensione della situazione com’è ora, seguendo le ipotesi che abbiamo qui formulato, che potremmo, a partire dall’osservazione di ciò che succede nel corso delle lotte quotidiane, tentare di comprendere efficacemente in quale direzione vanno le cose. In questo senso, la posta in gioco delle lotte che si stanno dando nella primavera 2018, al di là della vittoria o della sconfitta del movimento, sarà di indicarci la direzione verso la quale stiamo andando.

Ma se il declino dei movimenti sociali si annuncia come inevitabile nella situazione attuale, bisogna fare attenzione alle estrapolazioni azzardate, e non elevarci a quella che potremmo chiamare “la teoria della purezza” secondo la quale la vera lotta di classe, sbarazzatasi dei suoi orpelli sindacali e cittadinisti, potrebbe alla fine apparire in tutta la sua radicalità, e esplodere immediatamente in un’insurrezione generalizzata che cancellerebbe lo Stato e il capitale.
Non bisogna dimenticare che siamo di fronte a dei processi di lunga durata (questo detto senza pregiudicare degli effetti di rottura che potrebbe avere con una crisi generalizzata del capitale). Lo stesso Macron-Jupiter non può abbattere tutte le opposizioni in tre settimane e privatizzare tutto in tre mesi. In questa primavera 2018 in particolare, ha forse peccato di presunzione e lanciato troppi cantieri in simultanea. Se lo sciopero di questa primavera è di massa, ed è ben partito per esserlo, potremmo guadagnare ancora un po’ di tempo. l’azienda capitalista che è la Francia non può dislocarsi: deve comporre con il suo personale, non può ristrutturare a mano armata, perché deve ancora funzionare nel quadro del capitalismo globale, ossia come società. Tutto questo prederà ancora molto tempo e dibattiti e opposizioni. In più, come l’abbiamo già sottolineato, più le disfatte sono scottanti pi§ ci si aggrappa all’ideologia. L’ideologia della difesa del servizio pubblico, se si appoggia sempre di meno sui movimenti sociali in declino nelle loro forme classiche e si vede di fatto obsoleta nella sua versione cittadina, ha delle buone possibilità, per il fatto stesso dell’esistenza di questi dibattiti che esisteranno nella durata e al di fuori del movimento sociale, di ricostituirsi su un piano strettamente politico.

È per l’appunto questo piano che i governi successivi hanno deliberatamente abbandonato, fino alla figura di Macron che è l’emblema di questo abbandono. La modalità di governo puramente manageriale promossa da Macron (e reclamata da un’importante fetta della classe media), ha come limite assoluto di non promuovere più alcuna trascendenza, ciò che lascia la parte bella a tutti quelli che oggi intendono, all’interno del capitale, re-istituire il comune. Questo comune che può prendere mille forme nelle retoriche alternative, e esprimere un’aspirazione a una dimensione più orizzontale nel “tutti insieme” del 1995, ha delle buone possibilità, nel contesto attuale, di incarnarsi molto strettamente in una forma populista e nazionalista, che la coppia Le Pen e Melenchon ha recentemente incarnato, ma che resta forse anche da costituirsi veramente. La recente vittoria elettorale in Italia del M5S di Beppe Grillo ce ne dà tra l’altro un’idea. Questa costituzione di un insieme nazional-populista si farà forse sul declino dei movimenti sociali, nei quali la componente radicale e la componente istituzionale si divideranno sulla definizione da dare al comune, facendone un maggior nodo politico nei prossimi anni. Il comune sarà allora l’altra faccia, la faccia sociale dello straripamento, sarà nella sua versione alternativa come nella sua versione nazional-populista, la forma di ritorno all’ordine.

 

2 aprile 2018, AC.

 

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