L’Italia, il paese europeo che spende di più per la repressione
Oggi, l’idea di sicurezza è divenuta capace di generare consenso vasto e acritico per il solo fatto di essere nominata. E’ allora, la favola della “sicurezza né di destra né di sinistra” diventa soprattutto per il Pd, ma anche per altre sedicenti forze politiche di “sinistra”, la giustificazione per l’adozione di una politica compiutamente di destra.
E’ vietato parlare della concretezza, ma bisogna creare e agire sulla percezione della realtà. Si ingigantiscono i fatti, i dati, gli strilli e la percezione della realtà si modifica. Un bisogno quotidiano di creare “allarme”. Ed accanto al tema “sicurezza” compaiono i “nemici pubblici” che questa sicurezza mettono in pericolo: di volta in volta: i terroristi, i tossicodipendenti, i rom, gli albanesi, gli ultras, i black block, i rumeni, il racket dei lavavetri, gli occupanti di case, i no tav, i condannati ammessi a misure alternative. E quindi le risposte: pacchetti sicurezza, nuove tipologie di reati, costruzioni di nuove carceri, proliferare di proposte di investimenti in telecamere di sorveglianza, dispositivi di controllo delle telecomunicazioni, braccialetti elettronici. Cosi le politiche sicuritarie appaiono non solo accettate passivamente, ma costantemente invocate dai cosiddetti “cittadini”.
Fatto sta che, oggi, l’Italia è il paese europeo che in proporzione spende di più per la sicurezza pubblica e privata. Moltissime risorse che si perdono negli sprechi dell’amministrazione della giustizia, e vanno a garantire i privilegi di pochi, a fronte di alcune carenze anche molto gravi, alimentando una speculazione sull’insicurezza che porta a situazioni drammaturgiche e a una sorta di neofascismo in cui si invoca solo la tolleranza zero e un regime di autorità. Mai in questi anni si è valutato la produttività e l’efficienza di alcuni dei mezzi più usati per “la sicurezza”, spesso costosissimi, come gli strumenti di videosorveglianza. Tecnologie che, andrebbero sostituite piuttosto con operatori sociali sul territorio. Secondo le statistiche, dal ’90 ad oggi il numero dei reati commessi in Italia è rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre è aumentato il numero delle denunce, e a finire in carcere sono sempre di più i cittadini stranieri. Secondo la relazione della Corte dei conti, l’80 per cento dei soldi spesi per i migranti va alla repressione, e solo il 20 per cento alle politiche di sostegno.
Mai come, oggi, ci si dovrebbe interrogare sul senso di questa vulgata reazionaria. Siamo un paese con pulsioni fascistoide. Il fascismo è venuto alla fine di una guerra civile e soffiava sul fuoco. Ora noi siamo in una situazione di uno Stato di Diritto completamente svuotato. Negli ultimi vent’anni abbiamo avuto governi che si sono comportati come dei dittatori legali. E oggi Renzi è politicamente il più abile di tutti. Il vero problema è che le mosse del governo servono ad arrivare alla distrazione del vero problema: la crisi economica e sociale. Renzi e i suoi ministri non sanno come fronteggiarla e in tempo di crisi non vince la protesta, ma la depressione. Allora si svia il discorso.
E dietro di loro non solo maggioranze silenziose, di cui nessuno più conosce la composizione umana e sociale, ma intellettuali perbenisti, giornalisti sbrigativi e sensazionalisti, la merce comunicazione che vende di più quanto più gronda sangue, minaccia stereotipi a effetto. Una zuppa in cui tutti siamo immersi, e contro cui non vale ricordare le ovvietà che un tempo avremmo chiamato di sinistra: che le pene non sono mai state un deterrente, che le carceri scoppiano, che una logica di investimento sociale, e non di mera repressione, farebbe infinitamente di più per l’immigrazione che non guardie, cie e carceri, che l’esclusione non può tradursi in devianza, che il razzismo generalizzato inquina la vita di tutti, e non solo offende gli stranieri. Che, soprattutto, questo oscuro senso comune andrebbe combattuto politicamente.
Ma per logiche politiche complesse sembriamo disarmati. E questo perché la paura non è combattuta là dove si produce e si traduce in grida, nell’incertezza del lavoro e del reddito, nella sensazione di solitudine palpabile tra chi non è garantito e protetto, nell’abbandono di periferie e quartieri. Come potranno capire anziani, pensionati, lavoratori, piccoli negozianti e imprenditori che il loro nemico non è il romeno, l’albanese, la nigeriana, il lavavetri o il disperato italiano o straniero, ma una degenerazione collettiva e implacabile della socialità, della democrazia reale, della ricchezza collettiva, che il liberismo, estremo o annacquato ci sta procurando? Come far riprendere, tra giovani e cittadini, una speranza che non sia esclusivamente legata ai saldi di gennaio? Come di dire a chi ci governa che la politica di sinistra non può essere limitata alla gestione di un esistente unico privo di conflitti e di immaginazione?
Ciò che abbiamo di fronte è una profonda mutazione antropologica. I miti contrattualistici del passato ci avevano tramandato una concezione della paura che cercava risposte politiche attraverso la creazione di patti fondativi. La liberazione della paura stava alla base del contratto che sorreggeva l’adesione alla comunità. Ciò non eliminava le difficoltà. Al contrario la società era animata da uno spietato ma ancora creativo conflitto tra capitale e lavoro.
Nella paura di oggi, invece, c’è risentimento malvagio che ha bisogno quotidianamente di disegnare un nemico, un colpevole tra noi. E’ una passione triste. Si è persa la voglia di progettare, di costruire percorsi, di perlustrare il nuovo. La ricerca di capri espiatori è la soluzione più semplice. L’orgasmo triste della vendetta incarognita, la libidine impotente della cattiveria antropologica sono diventati il viatico di una competizione vittimaria che si avvita su se stessa alla ricerca di un appagamento che non verrà mai, e alla fine, le destre o i “postideologici”, che oggi si accaniscono sull’osso a buon mercato dell’odio, avranno vinto, perché la cultura della paura, sembra accettata da tutti e ben pochi combattono i fondamenti.
Italo Di Sabato – osservatorio sulla repressione
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