Covid 19: Accumulazione del rischio e conflitti nel neoliberismo
Riportiamo la trascrizione del contributo di Maura Benegiamo (sociologa e attualmente ricercatrice associata presso il Collège d’Étude Mondiales di Parigi nell’ambito del programma di ricerca “Ecological Reconversion, Work and Social Policy), che lo scorso 8 aprile ha aperto il ciclo di seminari “Pandemia: sintomi di una crisi ecologica globale”, interventi per analizzare la crisi che stiamo attraversando secondo un’ottica ecologista.
Ecologia politica della crisi
Questo ciclo di seminari affronta con il metodo dell’ecologia politica l’analisi dell’attuale pandemia, della sua gestione, così come dei conflitti e delle proposte politiche alternative che essa mette in campo. Inquadra, ovvero, la crisi sanitaria in atto nel contesto più ampio della crisi socio-ecologica del capitalismo globale. Un primo chiarimento necessario riguarda lo specifico contributo che la prospettiva dell’ecologia politica offre rispetto alla comprensione della crisi prodotta dal Covid-19 come espressione delle crisi nel capitalismo.
Espandendo le intuizioni marxiane circa la relazione strutturale tra capitalismo e crisi, l’ecologia politica ha inteso le crisi capitaliste non solamente in termini economici, ma come crisi socio-ecologiche. Quest’ultime non riguardano unicamente l’impatto della produzione e del consumo sugli ecosistemi: esprimono piuttosto la sottomissione strutturale della sfera della riproduzione – sociale, biologica ed ecologica, all’interno della dinamica di accumulazione capitalista. Ne consegue che non ha senso pensare la questione ambientale come separata dal modo in cui la società struttura la produzione ed il consumo, così come non è possibile pensare il nostro modo di produrre e di stare assieme in termini non ecologici, cioè scissi dalle nostre relazioni con l’ambiente, con gli altri esseri umani e non umani e con noi stessi. Sulla base di tali considerazioni, la crisi ecologica può essere intesa come un prodotto e allo stesso tempo come qualcosa di interno al sistema essa è anche la forma che il capitalismo assume nella sua fase più avanzata. Il capitalismo si presentaoggi comeuna crisi socio-ecologica.
Per meglio comprendere tale prospettiva è necessario assumere una concezione allargata del capitalismo, considerandolo come una forma sociale (Nancy Fraser) o un’ecologia-mondo (Jason Moore) e non solo come un sistema produttivo. In questo quadro la logica che sottende il processo di accumulazione si mostra come un processo che “valorizza, svalutando”, include sulla base di una sistematica esclusione. Se qualcosa assume importanza all’interno dell’economia capitalista, e ciò in generale equivale a dire che diviene possibile dargli un valore e quindi un prezzo, questo avviene sempre sulla base di una correlata svalutazione. Un esempio sono le relazioni di cura trasformate in servizi, e quindi riconosciute e valorizzate come lavoro, che investono le situazioni precarie di chi fisicamente si ritrova a fare questi servizi, spesso corpi razzializzati e femminili, o di quei soggetti che si trovano ad esserne esclusi. Un altro esempio sono le forme neoliberiste della conservazione ambientale che monetizzano le foreste per lo più situate nel sud globale, trasformandole in monocolture di alberi e in riserve di carbonio. Per poter fare ciò, e per poterne estrarre valore, è necessario svalutare le economie e gli usi locali ed alternativi della terra, cioè escluderli al fine di espropriarli.
Questa lettura del capitalismo consente di espandere le indicazioni più prettamente politiche derivanti dalla critica all’economia politica di stampo marxista, accogliendo le analisi femministe e post-coloniali che hanno messo in luce la centralità, in chiave anticapitalista, di tutti quei conflitti che investono i rapporti socioecologici e che hanno a che fare con l’organizzazione della cura, la produzione del cibo, la salute e l’abitare. È in tali contesti che la contraddizione tra capitalismo e vivente si manifesta, esprimendosi su di un terreno conflittuale in cui i soggetti sono direttamente impegnati nell’immaginare, costruire e progettare un superamento del capitalismo stesso.
Rischio e accumulazione
Partendo da questo quadro concettuale è dunque possibile derivare un approccio specifico alla attuale crisi pandemica, andando a collocarla in quel progetto di messa in forma della natura che si muove sempre tra valorizzazione e svalutazione del vivente. Questo ciclo di seminari affronta i molteplici aspetti di tale processo. Durante questa presentazione mi concentrerò sulla relazione tra rischio e accumulazione che è divenuta centrale nel capitalismo neoliberale e mi sembra oggi essere una delle griglie analitiche attraverso cui comprendere la risposta capitalista alla crisi.
Vi è oramai un’abbondanza di letteratura che mostra la strettissima correlazione tra aumento dei rischi socio-ecologici, di cui il coronavirus è una manifestazione, e l’aumento sempre crescente della pressione che l’economia ha sugli ecosistemi. Per esempio, nonostante sia noto che le foreste siano degli antivirali naturali, i processi di deforestazione globali sono in continuo aumento. Seppur l’economia industriale sia in recessione da anni, il suo peso sugli ecosistemi non è infatti regredito, c’è sempre bisogno di estrarre nuova energia e aumentare il livello di tale estrazione. Similmente, l’agricoltura industriale, grande responsabile della devastazione ecosistemica, si è estesa ulteriormente negli ultimi trent’anni trasformando vaste porzioni di territorio in monocolture intensive. I metodi di coltivazione agroindustriale usano tecniche che impoveriscono i terreni e necessitano non solo di un’intensificazione della produzione, ma anche di una continua estensione della superficie coltivata. Contemporaneamente le dinamiche finanziarie hanno sempre bisogno di ricadere sui territori, con grandi opere, cementificazioni o l’accaparramento di nuove terre. La crescita economica si è prodotta sempre a discapito degli equilibri ecologici. Ciò è avvenuto in contemporanea ai processi di svalutazione menzionati sopra, per cui un numero sempre maggiore di persone si è trovato relegato ai margini dell’economia o espropriato dei propri mezzi di sussistenza, ed escluso dai sistemi di cura e protezione sociale resi sempre più precari dal ricatto del debito.
In tale situazione il processo di accumulazione si è tradotto nell’esponenziale esposizione al rischio della società intera, seppur con le debite differenze di status, classe e genere. Ciò ha comportato anche un cambio di paradigma all’interno del pensiero economico dominante: se prima il credo progressista occidentale si ergeva sull’idea di un totale controllo tecnico dell’uomo sulla natura, oggi ciò che si cerca di socializzare è che il rischio sia qualcosa di naturale e con cui inevitabilmente si debba fare i conti. Possiamo individuare l’evoluzione di questo pensiero nel modo in cui il neoliberismo ha trattato la questione dell’imminente esplosione della contraddizione ecologica, la cui manifestazione è sia sociale (come denunciato dai movimenti ambientalisti e da l’ecologismo dei poveri) che economica (diminuzione dei rendimenti agricoli, esaurimento delle risorse, crescenti costi di smaltimento dei rifiuti). Di fronte all’evidente manifestarsi dei limiti del sistema, il neoliberismo ha puntato su una scommessa differente: poiché è impossibile rimuovere le cause strutturali dei rischi, è necessario intendere crisi ed espansione come processi complementari. Il limite può così essere ri-teorizzato come qualcosa di continuamente ridefinibile a seconda del progredire del sistema.
Prendiamo ad esempio la crisi economica del 2008 e le risposte globali che sono state date. Se da un lato abbiamo il salvataggio dell’economia finanziaria attraverso l’immissione di denaro per risanare i grandi istituti di credito, dall’altro si è rafforzata l’idea, centrale per esempio nella green-economy, per cui i processi di crescita potevano essere rilanciati orientando la speculazione sul limite sistemico. Un secondo trend è stato quello della bioeconomia, ovvero l’idea che la manipolazione genetica sul vivente unita ad una maggiore estrazione della biomassa possa favorire la transizione ad un’economia cosiddetta post-carbone. In questo quadro i processi di estrazione incentrati sul vivente si sono intensificati e presentati come risposta ai rischi prodotti precedentemente dalla crescita. Aumentano i tentativi di manipolazione genetica degli organismi viventi, tra cui animali e batteri, per far fronte all’espandersi di malattie, come la malaria, legate alla devastazione ecosistemica; per il controllo dei parassiti sempre più resistenti ai pesticidi, o per ideare piante più resilienti alla siccità e in grado di resistere a condizioni climatiche estreme.
L’unica maniera per far fronte alle problematiche che la crescita pone sembra dunque essere manipolare il limite per espanderlo. Non esiste allora un problema reale di sovrautilizzo della plastica, poiché si potrà risolverlo incentrando la ricerca su dei batteri che la possano ingerire. Non importa poi se ciò porterà ad altre conseguenze impattanti sugli ecosistemi. Vi sarà un’altra innovazione che potrà spingere la linea ancora più in là. Una continua scommessa sul rischio, come unica alternativa per permettere alla società di andare avanti.
È bene specificare che in questo contesto non è la ricerca scientifica in sé ad essere sotto accusa, quanto piuttosto la modalità con cui il neoliberismo ha trasformato la pratica tecno-scientifica, definita dalla crescente convergenza tra biotecnologie, tecnologie di informazione e conoscenza. Da un lato vi è l’idea che la ricerca debba essere sempre orientata allo sviluppo di innovazioni direttamente spendibili sul mercato o dalle imprese; dall’altro, considerando il gran numero di persone e risorse necessarie per portare avanti gli attuali processi di innovazione, l’economia della scienza a trazione finanziaria ha acquisito un’importanza enorme nel contesto dell’economia post-fordista. Questi processi sono divenuti le basi su cui orientare le dinamiche di speculazione su cui si fonda l’economia finanziaria.
Accumulare la crisi
All’interno di una società che ha normalizzato il rischio ponendo come risposta una sua gestione socio-tecnica, l’avvento del Covid-19 rischia di non portare nessun ripensamento alla logica in corso, quanto di rafforzarla. Da un lato il capitalismo reagisce come sempre ha reagito alle crisi: scaricandone il peso sulle fasce più deboli della popolazione. Dall’altro, la normalizzazione del rischio, ovvero la sua non-dipendenza dal sistema sociale in cui si trova ad emergere, diventa la base materiale su cui ripensare i rapporti socio-ecologici al fine di mantenere invariata la dinamica dell’accumulazione. Nelle crisi il capitalismo ha sempre colto l’opportunità per rilanciare nuovi cicli di crescita. Il fatto che sorgano dei conflitti all’interno dell’ambito della produzione e che alcune attività produttive saranno drasticamente colpite, non è sufficiente a sostenere che il capitalismo uscirà indebolito da questa crisi. Il capitalismo non è infatti un sistema omogeneo ed esistono frizioni tra chi è più interessato alle prospettive speculative del rischio e chi invece mira ad altre direzioni. Un caso significativo è per esempio l’accelerazione delle cosiddette smart-city, già al centro di una crescente attenzione da parte della pianificazione urbana che, con la scusa della transizione ecologica, punta a creare competizioni tra i territori valorizzandone il capitale sociale e naturale attraverso l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, lo sviluppo dell’intelligenza artificiale e nuovi dispositivi come robot e droni. Questi processi, destinati sopratutto ad alimentare i profitti della data economy, hanno come partner le principali multinazionali del settore, come IBM o Microsoft, veicolano al contempo nuove forme, dirette ed indirette, di controllo e differenziazione sociale. Infine, nonostante i proclami, le smart city sono tutt’altro che sostenibili, come dimostrano molti studi sugli impatti ambientali e sanitari di una società iperconessa.
Di contro è opportuno rilevare come questa crisi evidenzi il fallimento totale della forma di civilizzazione occidentale. Inoltre, anche il centro privilegiato del sistema, ovvero l’uomo bianco cisgender, risente degli impatti della pandemia. In questa situazione la giustificazione sociale del capitalismo si riduce al minimo e la sua insostenibilità diventa più evidente alla grande maggioranza della popolazione. Questo però non è un esito scontato, bensì il segno della situazione estremamente conflittuale in cui ci troviamo ad agire. Diviene dunque importante far valere un’altra narrazione, che travolga la menzogna per cui con queste crisi ci dobbiamo convivere per forza.
Il ciclo di interventi “Pandemia: sintomi di una crisi ecologica globale” prosegue, questa settimana ci saranno altri due appuntamenti. Sarà possibile seguirli in diretta dall’evento Facebook “Pandemia: sintomi di un crisi ecologica globale #3”, dalla pagina UTR Ecologia Politica Bologna e dalle altre pagine di ecologia politica organizzatrici, che condivideranno la diretta, oppure dal canale Youtube #PrimaLaSalute. Tutti gli interventi si potranno vedere anche in differita.
Riferimenti dell’intervento
Malaria:
https://www.etcgroup.org/content/gene-drive-organisms
Plastica:
Ibm:
https://pdfs.semanticscholar.org/6e73/7a0e5ef29303760a565ba5e9d98510ab0976.pdf
Microsoft:
https://partner.microsoft.com/en-us/solutions/citynext
Impatti ambientali:
https://link.springer.com/article/10.1007/s11367-018-1453-9
https://www.sciencedirect.com/science/article/abs/pii/S0264275116302578
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