Dibattito sul cosiddetto “decreto anti-rave”. Che fine hanno fatto i giovani?
Lo scorso 22 novembre presso l’Università di Torino si è tenuto un partecipato incontro tra student*, professor* e non solo per discutere insieme del decreto antirave e del tema della repressione giovanile.
Ne è emerso un dibattito ricco di spunti per interpretare la situazione socio-politica in cui viviamo che vede la questione della repressione legarsi a temi apparentemente scollegati come guerra, marginalità sociale, povertà e disuguaglianze, migrazione e neopopulismi. Riportiamo l’intervento di studenti e studentesse e parte dei contributi del corpo docente.
Il decreto antirave rappresenta l’ennesimo esempio della volontà di punire e disciplinare una popolazione sconosciuta, quella dei giovani. Giovani che sono stati il capro espiatorio della pandemia, additati come coloro che portavano il virus in giro in barba alle regole, giovani che vedono i più alti rischi di povertà e subiscono gli effetti della frammentazione del mondo del lavoro, giovani che da tempo non sono più pensati all’interno delle politiche sociali. Pensiamo che queste norme siano volte a distogliere l’attenzione dai problemi reali legati al carovita e agli effetti di della crisi climatica, tali provvedimenti agiscono secondo una logica emergenziale e fomentano la paura del diverso e di ciò che non si riesce a comprendere: rubare un paio di cuffiette, occupare una casa popolare e i rave vengono rappresentanti come il problema principale. Ciò che noi vediamo è il tentativo di disciplinare ogni forma di dissenso giovanile e non, a partire da un controllo dello spazio fisico che vede le persone come mere consumatrici che possono attraversare strade e spazi solo all’interno di logiche di profitto; centrale nel decreto antirave è il tema dell’aumento delle pene, segnale di una volontà di reprimere e spaventare ogni forma di dissenso.
Come studenti e studentesse pensiamo sia fondamentale risignificare gli spazi che attraversiamo, attraverso un uso politico di questi e scardinando le logiche di consumo che ci vogliono propinare. Pensiamo sia fondamentale leggere tali interventi legislativi come un tentativo di costruire un diritto penale di classe, volto a colpire chi è ai margini e chi rappresenta forme e stili di vita alternativi. Pensiamo agli attacchi a Milano al diritto all’abitare, a Piacenza alla libertà dei lavoratori di manifestare e scioperare e al 41 bis, alle inchieste per associazione a delinquere nella nostra città. Pensiamo sia fondamentale creare reti e forme di risposta che ci permettano di non restare isolati e isolate, dotandoci di pratiche di lotta condivise e nuove.
Abbiamo insieme riflettuto su due termini “diritto” e “conflitto”. Emerge come il diritto sia un fenomeno sociale, che da una parte permette di esercitare dominio, dall’altra rappresenta uno strumento di emancipazione. Il decreto antirave così come viene presentato, diviene uno strumento di controllo da parte del governo volto alla conservazione del potere. Il conflitto diventa allora fondamentale per la garanzia di uno stato democratico: la forza della critica, della disobbedienza e degli spazi di dissenso anche dove illegale rappresentano motore di emancipazione.
La norma si costruisce all’interno di una logica emergenziale che vede l’abuso del decreto come strumento legislativo e che si muove in continuità con i governi precedenti, attuandosi attraverso un registro linguistico e semantico lacunoso e indeterminato. Il decreto antirave vede un aumento delle pene inquietante e un attacco al diritto di riunione e manifestazione del dissenso, rappresenta un manifesto identitario e uno strumento che mira a colpire nonl’autore del reato ma “un tipo di autore”, la persona diversa, ai margini, che dissente.
Viene da chiedersi come sarà applicata la norma? Quando? Chi lo deciderà? Il decreto antirave può essere letto come un’arma culturale volta a colpire certi modi di vivere e di denunciare il dissenso, rappresenta un’idea di società conforme e conformistica. La legge si inserisce in un contesto che, come si è più volte detto,non ci sorprende: ci troviamo in una Torino dove “si usa il pugno di ferro”, dove si mira a colpire ogni forma di militanza che non è inserita nelle tradizionali forme di agibilità politica e che mette in discussione gli assetti prestabiliti, lo sfruttamento, l’impoverimento, la proprietà.
Emerge un tratto comune con il passato, quello di costruire una rappresentazione dell’oppositore politico che sia pari al “delinquente”, la paura della repressione e dell’altro diviene così strumento di governo.
Si disegna la volontà di colpire, almeno nella rappresentazione, non una popolazione, ma gruppi frammentati, realizzando leggi ultraspecifiche al fine di neutralizzare le forme di dissenso, espressione differente e contestazione. La scelta di colpire i rave forse non è casuale perchè rappresentano appunto un “raduno”, coinvolgono spazi fisici, aggregano, propongono stili di vita alternativi, hanno tendenzialmente un proprio significato politico e soprattutto sono attraversati dai giovani. Emerge una chiara percezione da parte del legislatore del potenziale politico insito nelle feste “illegali”, forme di azione in cui si rivendica la possibilità di esprimersi in modo diverso.
Dunque si può essere d’accordo o meno con questa forma di espressione e con il suo significato politico, ma la sua repressione ha un senso molto più generale, atto scomporre la società lungo le linee dell’accettazione o del rifiuto di un certo tipo di disciplinamento. Si tratta cioè a livello di narrazione di costruire un continuo replicarsi di presunti “corpi estranei” che mettono in discussione e dunque in pericolo la serie di valori e norme su cui il governo vuole ristrutturare la società. Vediamo dunque come allo stesso modo si vogliono reprimere quelle rivendicazioni portate avanti dai compagni e le compagne che lottano per il diritto all’abitare, i lavoratori e le lavoratrici in sciopero, coloro che si battono contro la costruzione di opere inutili e la devastazione ambientale, ma tutti questi soggetti vengono mostrati anche qui come frammenti estranei e in un certo grado oscuri, opachi. Le inchieste per associazione a delinquere, la forzatura dell’utilizzo del Codice Antimafia nei confronti del dissenso sociale si iscrivono nella traiettoria che ha anticipato questo tentativo di ristrutturazione che si mostra più compiutamente nel decreto.
Ma non bisogna solo soffermarsi sulle azioni repressive delle istituzioni, infatti questa azione ristrutturante passa anche per le politiche affermative, come l’attacco al Reddito di Cittadinanza che fa emergere una categoria di nuovo da colpevolizzare per le disfunzioni del sistema, cioè quella degli “occupabili”, oppure rispetto alla scuola dove il ministro Valditara propone i lavori socialmente utili per gli studenti che si “comportano male”, ma anche provvedimenti che evidentemente sostengono l’idea di una società segmentata sulle linee di classe, genere e razza, come il bonus matrimoni, oppure la flat tax.
Due rimangono le domande aperte su cui è necessario continuare a sostenere un dibattito: a cosa servono queste misure? Di fronte ad un momento di innegabile debolezza del conflitto sociale perché riversare tutta questa violenza normativa nei confronti di gruppi e soggetti sociali? A quale logica risponde?
Molte sono le risposte parziali che abbiamo iniziato a darci in questo dibattito, ma che richiedono un’ulteriore ricerca e arricchimento dei punti di vista.
Dunque qui viene la seconda domanda: come affrontiamo quanto sta accadendo? Abbiamo evidenziato collettivamente all’interno del dibattito che vi è la necessità di rafforzarsi e organizzarsi non solo sulla risposta immediata alle misure repressive, ma anche nell’allargamento delle possibilità di esprimere un dissenso, un rifiuto all’interno di un sociale allargato che sempre più soffre gli effetti delle politiche istituzionali. Come farlo è la posta in palio di un dibattito collettivo che richiede intelligenza e condivisione.
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