Giallo elettorale e questione meridionale
Riportiamo da Commonware un testo di Giorgio Martinico (centri sociali Palermo) su Sud ed esito elettorale.
Mi limiterò, in queste righe, ad esporre alcune riflessioni che, da domenica sera, sostano nella mia testa senza che questo mi accompagni a esiti definitivi. É un sostare e rimuginare, appunto; tanti sono gli spunti possibili consegnati a noi dal voto di domenica; molti gli interrogativi legittimi e alto il rischio di azzardate fughe in avanti. Proviamo a restare, dunque, su ciò che avevamo già in mano come strumento di analisi; proviamo ad ipotizzare quali, tra questi strumenti, ci aiuta a individuare tendenze svelate dalla tornata elettorale
In questi giorni opinionisti, politici e politologi si prodigano ad avanzare analisi sulla (per ora chiamiamola così) “questione meridionale” evidenziata dalla geografia del voto. La mappa d’Italia divisa per colori identificanti i vari partiti è, in effetti, impressionante; la spaccatura appare come netta. Il Sud e le Isole conoscono quasi esclusivamente il colore giallo relativo all’affermazione del Movimento 5 Stelle di Grillo e Di Maio; il Nord, seppur con ottimi risultati dello stesso movimento, è sostanzialmente contraddistinto dalla forte crescita della Lega di Salvini.
Le letture “ufficiali”, quelle degli addetti ai lavori (soprattutto degli sconfitti di centro sinistra) e dell’alta borghesia italiana (e meridionale), oscillano tra due poli: la lettura anti-establishment-europa che unirebbe l’Italia che è andata a votare seppur con risposte differenti; il dualismo produttività-assistenzialismo.
Entrambe, a mio avviso, risultano essere inappropriate, o fuorvianti, o addirittura offensive e pregiudiziali. Dico subito perché. La prima rischia di accomunare territori, composizioni, immaginari, soggettività e aspirazioni molto differenti tra loro. Se è vero che il rifiuto della vecchia classe dirigente ha avuto un peso enorme (soprattutto al Sud) va comunque sottolineato il differente ruolo dei due partiti “vincitori”: la Lega ha già governato, ha propri governatori in importanti regioni e si presentava con il non-proprio-giovanissimo Berlusconi; inoltre, appena quattro mesi fa, in Sicilia, a vincere le elezioni è stata la coalizione del “vecchio” centro-destra regionale (ciò aprirebbe anche a svariate riflessioni sulla differenza tra elezioni per gli enti locali e quelle politico-nazionali). Insomma, quello che viene superficialmente definito “voto di protesta” ha sì avuto un ruolo, ma non può essere considerato né l’unico fattore agente sul campo né un comune denominatore che annullerebbe le distanze tra le “due Italie”.
Altra lettura molto diffusa in questi giorni vede la geografia del voto determinata da ataviche e inossidabili forme di relazione tra stato e cittadini: da un lato un Nord concepito come locomotiva produttiva del paese in cerca di affermazione reale nel mercato; dall’altro un Sud i cui abitanti non rinunciano alla ricerca di forme di parassitismo assistenzialista e che, quindi, hanno votato in blocco il 5 stelle per avere “regalato” il reddito di cittadinanza promesso da Di Maio.
Questo piano di analisi è ciò che ci dischiude le porte da attraversare per arrivare al nocciolo della questione. Nella sua palese premessa etnicizzante e razzista permette comunque di chiederci: esiste una nuova questione meridionale?
La mia risposta è Sì. Ma si faccia attenzione: questa emergeva nei mesi e negli anni precedenti a quest’ultima tornata elettorale; essa si palesava tanto nelle questioni prettamente socio-economiche quanto persino nelle forme di rifiuto, mobilitazione e protesta che i soggetti sociali hanno messo in scena negli ultimi anni. Da un lato i dati macroeconomici sul Sud parlano chiaro: disoccupazione, Pil procapite, reddito, aspettativa di vita; tutte statistiche che avrebbero dovuto suggerire agli analisti molto prima che l’allargamento della forbice rispetto al Nord avrebbe presto aperto originali scenari politici; dall’altro movimenti poco-chiari (ambigui e ambivalenti, come spesso diciamo nei nostri ambiti) come quello dei Forconi siciliani che raccontano di condizioni sociali e di classe che si vanno polarizzando, distanziandosi.
Tagliando con l’accetta (e mi scuso per questo) la storia potremmo affermare come le tappe della lunga trasformazione del Sud siano facilmente individuabili. Dal dopo-guerra fino a pochi anni fa il Sud aveva conosciuto un recente passaggio determinante nel proprio immaginario socio-politico. Prima gli anni (i decenni) dei grandi partiti di massa nazionali: radicati, di classe e … unitari. Decenni di “piani statali” per risolvere la questione meridionale, finanziare l’industrializzazione, formare la classe operaia, ridurre la forbice tra le macro-aree. Chi non trovava spazio in questi grandi “piani” di intervento statale poteva sempre emigrare al nord e trasformarsi in forza lavoro di fabbrica. Erano strategie di Stato, insomma, volte cioè alla crescita organica del sistema-paese. Ovviamente trattasi di uno sviluppo che passava dalla connotazione di un centro trainante e una periferia, di un alto e un basso. Questo dualismo è stato costitutivo nella formazione “nazionale”; ma era anche un vincolo imprescindibile per i partiti politici costretti a confrontarsi col tema.
Con la fine dei grandi interventi sul Mezzogiorno e con la sola parentesi (diacronica) delle guerre di mafia, dagli anni ’90 il gioco cambia. Al Sud trionfa il Berlusconismo. Tutti gli analisti e le sinistre dipingono questo trionfo come un quadro esclusivamente legato alle capacità clientelari e di corruttela (peraltro enormi) dei “berlusconiani”. In realtà ad affermarsi è l’ideologia di base del Berlusconismo: lo Stato da “facilitatore” è diventato un problema – non aiuta e disturba con tasse e burocrazia – ; il riscatto sociale non passa per le collettività ma è un gioco individuale; con tutte le differenze del caso, rispetto ad altre e lontane latitudini, è comunque il pensiero del self-made che si afferma al Sud. Indebitamento e impresa familiare sono i prodotti della sbornia berlusconiana. Quando la crisi inizierà a colpire ecco che, per l’appunto, saranno soggettività quali quelle dei Forconi ad emergere. Da allora, sostanzialmente, siamo di fronte al più totale abbandono del Sud. Se non attraverso progetti liberisti (soprattutto infrastrutturali) che “una tantum” riattivano la circuitazione di flussi di capitali e denaro, il Sud oggi non conosce vie al riscatto. Nessun tessuto produttivo e tante nocività ereditate dalle industrializzazione del passato, nell’epoca della competizione trans-territoriale, allo Stato (ed ai suoi partiti) non interessa lo sviluppo complessivo e organico: ciò che contano sono le capacità di valorizzazione di singoli settori nei diversi territori; il resto può anche restare misero.
Tutto ciò ha oggi prodotto il “cappotto” dei 5 stelle al Sud. Dice bene chi sostiene che il risultato è un mix tra rifiuto dei vecchi assetti e questione sociale/reddito; vanno però ribaltati causa e conseguenza: è la nuova questione meridionale che ha portato ad un simile risultato; non è stato l’esito elettorale a determinare la nascita di una nuova questione.
Se non ci fosse stato il contemporaneo risultato della Lega al Nord, oggi, probabilmente, ci troveremmo a leggere analisi sul voto “ignorante” dei meridionali (tipo quello per Trump o per la Brexit). Per fortuna il quadro si è presentato più complicato rendendo poco agevole la vita a quei pezzi di sinistra che avrebbero etichettato tutto come “pancia vomitevole” del paese. Del resto, cosa è più politicamente parassitario? Il voto per la flat tax o quello per il reddito di cittadinanza?
I 5 stelle sono stati gli unici a parlare, in campagna elettorale, di temi legati al riscatto sociale per e nel sud. E il reddito per i disoccupati (più del “lavoro” astratto chiamato in causa dagli altri partiti) è il più forte tra questi. Lo hanno fatto con efficacia utilizzando giusti schemi comunicativi. Due esempi: dopo essere nati per scavalcare la sinistra sul tema della “moralità” e della legalità, Grillo può permettersi di affermare in pubblica piazza “la crisi sta uccidendo più della mafia”; e anche le posizioni sulla questione immigrazione sembrano più funzionali al volersi distinguere (al Sud dove il dispositivo-sicurezza non ha la stessa importanza che al nord) dalle sinistre storiche e “buoniste” che non utili alla definizione della “linea politica di partito”. Efficacia comunicativa e ricette sociali contro la povertà: questi gli ingredienti dell’affermazione netta al Sud. Affermazione che parla di un “voto di classe”.
Per concludere. Credo che il voto di domenica possa tornare utile se analizzato da diversi punti prospettici. La crisi delle sinistre e dei partiti socialdemocratici; la traiettoria cosiddetta “populista”; la nuova destra “lepenista”: tanti possono essere gli spunti. A questi aggiungerei proprio il segnale lanciato da questa nuova questione meridionale come indicatore di una generale “territorializzazione” tanto di Stato e capitale quanto delle forme di rifiuto. In altre parole, ritengo che queste nette differenze e questi territoriali spostamenti elettorali saranno, momento storico per momento storico, sempre più presenti. Allora, nostro compito è quello di riuscire a individuare le matrici di classe spurie che si presenteranno territorio per territorio senza cadere in ingannevoli letture omologanti. Perché nei differenti contesti le nostre composizioni di classe di riferimento si comporteranno spesso in maniere differenti: ma sempre le nostre composizioni restano!
Sporchiamoci le mani, il tempo è arrivato.
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