I fiori del Maghreb
Intervista allo studioso Hamadi Redissi. Il ruolo della Rete come strumento di organizzazione politica, la secolarizzazione della società, la presenza di un alto numero di giovani scolarizzati, ma condannati alla disoccupazione e alla precarietà sono stati gli elementi che hanno caratterizzato la rivolta post-islamica
Hamadi Redissi, docente di scienze politiche dell’Università di Tunisi e impegnato nel’Associazione per la difesa della laicità, ha recentemente tenuto a Bologna una lezione sull’insorgenza nel Maghreb. In quell’occasione, conversando con un gruppo di studenti e ricercatori che partecipano all’esperienza transnazionale del Knowledge Liberation Front, ha parlato anche dell’incontro in corso di prepazione che si terrà a Tunisi nei prossimi mesi. «Non diamo – esordisce lo studioso tunisino – a questo progetto il nome di carovana, perché noi non abbiamo bisogno del vostro aiuto o della vostra solidarietà di occidentali perché la rivoluzione abbiamo dimostrato di saperla fare senza che qualcuno ci insegnasse. Inoltre, dall’altra sponda del Mediterraneo quello che vediamo arrivare con l’etichetta umanitaria sono le bombe e la guerra. Noi abbiamo invece bisogno di unire le due sponde del Mediterraneo attraverso le lotte e la ricerca di libertà». Noto per aver lavorato sul concetto di «eccezione islamica» (L’exception islamique, Edition du Seuil), usato per una critica radicale del fondamentalismo islamico e il suo richiamo a una identità immutabile nel tempo, elementi propedeutici alla riproduzione di uno stato di minorità economica e politica dei paesi arabi nell’economia mondiale . Hamadi Redissi si definisce un radicale, anche se ironicamente afferma che spesso rappresentatato come un moderato. «La Tunisia – continua Hamadi Radissi – è un laboratorio sociale e politico, perché stiamo vivendo una rivoluzione. Una rivoluzione post-islamica e per certi aspetti postmoderna, nel senso che presenta dei caratteri nuovi rispetto al passato. Per utilizzare il termine democrazia, dobbiamo dire che in Tunisia oggi questa viene dalla società e non dal governo, non è octroyée dallo Stato. Per questo il nostro processo rivoluzionario può diventare un modello, anche se la sua direzione è ancora incerta».
Una rivoluzione che molti hanno definito inaspettata…
Alcuni dicono di aver previsto le cause della rivoluzione, ma non è vero. Chi guardava alla Tunisia con le lenti degli studi politici o delle tradizioni politiche occidentali, non trovava le ragioni di una prospettiva rivoluzionaria: per vent’anni si è registrato un alto tasso di crescita, con una classe media forte, una radicata cultura secolare e civile, una bassa fecondità e famiglie ristrette. Ben Ali ha ricevuto molti soldi dall’Europa, senza che nessuno gli chiedesse di fare qualche riforma, perché ritenevano che lui dovesse garantire stabilità, controllo del blocco islamico e la gestione del commercio internazionale. Nessuno pensava che i tunisini avessero bisogno di piena libertà. Ed ecco che scoppia, inaspettata, la rivoluzione.
Quali sono allora gli elementi e la composizione sociale di questa rivoluzione?
Ci sono quattro elementi decisivi del processo rivoluzionario: innanzitutto, la disoccupazione intellettuale; poi, il ruolo di Facebook e della rete; in terzo luogo, l’uso dei sindacati; infine, il peso dei giovani delle classi medie in crisi. Questi elementi hanno fatto saltare il quadro dipinto dagli studi europei e americani, secondo cui il regime autoritario era destinato a durare perché aveva la polizia, la capacità di redistribuire la ricchezza, un solido sistema clientelare, il supporto dell’Europa – in primis la Francia – e degli Stati Uniti. Le persone avevano paura, e anch’io pensavo che l’autoritarismo potesse durare a lungo. Le cose sono cambiate quando le persone hanno smesso di avere paura. Giorno dopo giorno è cominciata una resistenza sempre più forte verso il comportamento della polizia, fino a quando Ben Ali ha deciso di proclamare lo stato d’emergenza. A quel punto le persone hanno cominciato, in massa, a uscire la sera: non avevano più paura. È iniziata la guerra civile. Ben Ali ha introdotto provocatori per accusare i ribelli di essere terroristi e criminali, ma il movimento ha dimostrato, attraverso foto e video, che si trattava di gente pagata dal regime e di cecchini. Questi quattro elementi, insieme al superamento della paura, hanno quindi portato a una rivoluzione di tipo nuovo. Qualcosa di simile sta avvenendo in Egitto, Yemen, Siria.
Quali, secondo lei, i punti di contatto tra la situazione tunisina e quella in Egitto?
Ci sono punti di contatto, ma anche differenze. In primo luogo, il ruolo dell’esercito e la componente islamica, che In Egitto hanno un peso molto maggiore che non nel mio paese. Ci sono anche tratti comuni anche con i movimenti sociali europei contro le politiche di austerity: giovani altamente scolarizzati, ma precari o disoccupati che vivono un processo di declassamento permanente, e usano la rete per l’aggregazione collettiva e per le mobilitazioni… È questa la figura sociale che ha fatto la rivoluzione. Dopo essere cresciuto a tamburo battente, c’è stato un tasso di diminuzione del pil del 3%; ogni anno 30.000 giovani diplomati e laureati sono rimasti senza lavoro, anno dopo anno si è formata una sacca di disoccupazione enorme. Non è un caso che la rivoluzione sia cominciata da quando Mohamed Bouazizi, giovane scolarizzato costretto a fare il venditore ambulante a Sidi Bouzid, si è dato fuoco. Già nel 2008 c’erano state delle rivolte a Gafsa e a Gassrin contro i risultati di concorsi truccati: sono durate sette mesi, con manifestazioni e sit-in. La democrazia indubbiamente ha una capacità di regolazione che non esiste nella dittatura: e allora, come è possibile che centinaia di migliaia di persone scendano in piazza e manifestino in un paese in cui non c’è libertà di informazione? Attraverso la rete, con Facebook. L’informazione circola, e la polizia non può arrestarla. Ben Ali ha represso le forze organizzate in forma tradizionale, ma questa rivoluzione è stata fatta da forze non organizzate in forma tradizionale. I processi di organizzazione sono dunque passati attraverso gli sms, Internet, i social network. In Tunisia ci sono dieci milioni di abitanti, di cui la metà è connessa a Facebook. Dunque, un milione sa in termini istantanei che c’è una manifestazione domani a Gafsa o a Sidi Bouzid. Il governo ha tentato di bloccare e reprimere questa circolazione di informazioni e conoscenza, ma non ha potuto fare nulla.
Le nuove forme organizzative hanno costruito continuità?
Dopo il 14 gennaio, giorno in cui è stato raggiunto l’obiettivo di cacciare Ben Ali e la sua famiglia, le persone si sono organizzate in associazioni, che si sono moltiplicate su varie temi: la libertà, per aiutare i migranti, per la redistribuzione della ricchezza, contro la corruzione, con obiettivi politici e intellettuali. Queste organizzazioni hanno un grande peso nel processo in corso. Il governo non ha più alcuna legittimità per sostenere che non sono rappresentative perché loro giustamente dicono: noi abbiamo fatto la rivoluzione. Ora la polizia è stata spogliata dei propri poteri, mentre prima era abituata a rastrellare le persone, picchiare e mettere in prigione. Il ministro dell’interno è stato sostituito quattro volte, la polizia politica è stata sciolta. Le persone si sono dunque riorganizzate attraverso i comitati rivoluzionari. Si è poi formato un consiglio per la difesa della rivoluzione, di cui fanno parte i comunisti, che hanno una base sociale dura, una presenza nei sindacati, hanno combattuto in modo forte la dittatura. Quando nel 1987 Ben Ali ha compiuto il colpo di Stato contro Bourguiba in tanti erano con lui, pensavano che avrebbe portato la democrazia, nessuna delle altre forze politiche si è opposta. Ora alcuni vogliono affidare nuovamente allo Stato il compito di fare le riforme, bloccando così la rivoluzione. Il consiglio rivoluzionario si oppone, temono che ci sia un altro colpo di Stato nel momento in cui la temperatura sociale si abbassa, e hanno ragione. È per questa ragione che si è preteso lo scioglimento del partito di Ben Ali (fondato nel 1920, il più vecchio dell’Africa), così come l’abolizione della polizia politica e l’arresto dei capi del partito che hanno saccheggiato i soldi e i beni pubblici. Molti descrivono la rivoluzione tunisina come una rivolta interna allo Stato o condotta dall’esercito: è falso. È stata una vera rivoluzione. Non conosciamo esattamente la direzione che il processo prenderà, abbiamo un’agenda programmatica ma non sappiamo se sarà applicata: insomma, la realtà rivoluzionaria è del tutto aperta.
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