La complessa realtà di Occupy Central dietro le mobilitazioni a Hong Kong
La modalità è sempre quella, tipica di ogni costruzione mediatica che aldilà di un’analisi critica dell’ambivalenza di un processo sociale dato, vuole storcere un fatto sociale a fini di propaganda. L’incipit dell’articolo di Giampaolo Visetti su Repubblica del 28/9 ne è prova evidente, e merita di essere citato per poter capire cosa si muove dietro i fatti di Hong Kong di questi giorni:
“Come in piazza Tienanmen, un quarto di secolo dopo, Pechino torna a picchiare e ad arrestare gli studenti democratici per difendere l’autoritarismo del partito comunista. Il fronte tra libertà e oppressione, dalla capitale, si è spostato ad Hong Kong, l’ex colonia britannica che la Cina, in meno di vent’anni, ha trasformato nella sua cassaforte finanziaria del Sud.”
L’incipit in questione inizia inanzitutto negando la natura composita che informava il movimento cosiddetto di piazza Tienanmen, non certo limitato a semplici studenti per la democrazia, ma risultante di un’ampia coalizione di interessi capace di creare scossoni in ampli pezzi dello stesso PCC, che ancora una volta nell’occasione veniva dipinto dai media come un moloch assolutamente privo di differenze al suo interno; senza che venisse sottolineato il fatto centrale che il movimento avesse creato problemi al PCC più di gestione interna dei propri equilibri che di gestione di ordine pubblico esterno.
Inoltre leggiamo in Visetti l’utilizzo della solita dicotomia tra libertà e oppressione, e quindi traslatamente tra Bene e Male, riferita al contesto Occupy vs. Cina, facendo a meno di un’analisi complessiva della composizione sociale del movimento Occupy Central (ormai esteso però a molti più distretti di Hong Kong) e del contesto in cui si è sviluppato. I fatti ci parlano di una situazione molto più complessa della riduzione ad una “Umbrella Revolution” che già circola sul web.
Meno di un mese fa, nell’ambito del dibattito pubblico verso le elezioni del 2017, si inserisce una dichiarazione di Pechino che afferma testualmente che solo “candidati che amano la Cina sono eleggibili”. Ergo, restringendo fortemente le possibilità di scelta di rappresentanza politica da parte della popolazione di Hong Kong. Da qui si rilancia una mobilitazione fortissima, che si era data dei passaggi già in precedenza – ad esempio utilizzando il 4 giugno scorso anche il capitale simbolico dell’anniversario numero 25 di Piazza Tienanmen – per costruire una narrazione contro “ogni coercizione di Pechino”. Una mobilitazione capace di portare in piazza anche centinaia di migliaia di persone con le parole semplici di “libertà, diritti e democrazia” a farla da padrone.
Quella di HK è una situazione particolare all’interno della Cina. Il sistema amministrativo differenziato dovuto al modello “un paese due sistemi” in atto dal 1997, anno del ritorno dell’ex colonia inglese alla madrepatria, ha permesso negli anni agli hongkonghini di godere di una maggiore libertà politica rispetto a chi vive nella mainland. Un caso su tutti, la maggior libertà della stampa è un patrimonio della popolazione: molte notizie riguardanti gli scandali e le malversazioni dei poteri forti cinesi ad esempio vengono alla luce grazie alle relazioni tra giornalisti della Cina continentale che passano notizie sottobanco a colleghi di HK i quali hanno margine di pubblicazione e diffusione delle notizie molto maggiori.
Basti prendere il lavoro di giornali come il South China Morning Post, sicuramente più “professionale” dei quotidiani addomesticati sotto il controllo Pechino; ma allo stesso tempo proprio il SCMP è, come tutti i giornali, anch’esso portatore di un punto di vista di parte: quello dei molti interessi finanziari e politici del mondo occidentale che sono sopravvissuti all’esodo britannico, interessi votati alla perenne ricerca di profitti economici e all’utilizzo di strumenti di soft power contro la grande potenza in ascesa. Basterebbe dire che quella cassaforte finanziaria di cui si parla nell’articolo è proprio ciò che a tanti investitori occidentali è sempre molto piaciuta, a prescindere dalla democraticità e dalla legittimità di un modello di amministrazione che deriva direttamente dalla democraticissima Gran Bretagna.
Non è un caso che il fatto che a Hong Kong il leader politico sia definito “Amministratore Delegato” non sia mai stato quantomeno discusso, né che non sia mai stato questionato un sistema in cui sono 1200 individui, esponenti delle lobby economiche principali della città, ad eleggerlo. Né ora viene sottolineato il minimo dubbio che di democrazia sostanziale oltre che formale non ce ne sia poi cosi molta, a prescindere dalla querelle sulle elezioni del 2017. Questa gestione amministrativa era parte del sistema di accordi che riportavano HK alla Cina in cambio dell’ulteriore allargamento degli interessi occidentali sul territorio cinese.
L’accordo era ai tempi tra un mantenimento delle libertà economiche dei rappresentanti della finanza occidentale a HK e in Cina (e quindi la possibilità di usare HK come base per gli investimenti sulla mainland cinese) in cambio di un provvedimento che a livello politico significava un surplus di potenza e di prestigio per Pechino, la fine della presenza di colonie sul suo territorio. Ed è proprio su interessi economici, soft power e politica del prestigio che va capito lo scontro in atto. La prova di forza della Cina è semplicemente ovvia rispetto alla sfida che Hong Kong pone, ovvero di un suo passaggio ad una democrazia politica di stampo occidentale, aldilà della questione se questa poi nei fatti sia più formale che sostanziale.
Il punto vero è che sin dal suo insediamento il presidente Xi Jinping ha fatto ben capire come il modello occidentale, basato sul costituzionalismo democratico e su un certo grado di libertà nei contesti elettorali, non sia assolutamente un sistema vincente e adeguato alla fase. Dietro le cariche poliziesche e i gas lacrimogeni di Hong Kong c’è questo ulteriore cambiamento nei rapporti di forza globali, un primo punto di attacco al predominio del concetto di democrazia all’occidentale come modello politico adatto alla governabilità del secolo attuale; una questione che in realtà non tocca minimamente il processo di liberalizzazione dell’economia in corso a Pechino, che non toccherà le libertà economiche di Hong Kong che anzi sta iniziando a realizzare anche in altre zone del paese (vedi Free Trade Zone di Shanghai).
Un comportamento, quello della leadership cinese, che stuzzica del resto molti analisti e molte elites politiche, anche in seguito al fallimento interno della maggior parte delle società democratiche occidentali, dovuto alla crisi e a trent’anni di neoliberismo. La battaglia di Hong Kong è testimonianza di una fase politica delle relazioni internazionali cambiata rispetto al 1997. In questo scontro la Cina aldilà del semplice destino della sua ex-colonia interna vuole semplicemente ribadire che da grande potenza qual è, e con i dati economici che registra (seppur in relativa discesa) ha tutta la potenza di imporre nelle relazioni internazionali le sue volontà e i propri modelli di governance.
Ma nei fatti di OccupyHK c’è anche una componente che nessuno sta sottolineando, e ovvero la crescita nella mobilitazione di un segmento all’interno della composizione sociale che rifiuta sia l’autoritarismo di Pechino sia lo status quo della sua cassaforte meridionale. Come sottolinea giustamente Gabriele Battaglia su China Files, “l’opposizione di Hong Kong è un movimento trasversale, in cui convivono i fautori di una liberaldemocrazia prettamente elettorale, alla occidentale, e istanze radicali anarchiche o sindacalista-rivoluzionarie. I media mainstream occidentali, naturalmente, danno visibilità alla prima componente e ignorano completamente le istanze autenticamente anticapitaliste che pure ci sono. “
Fare paragoni con altre piazze e altri casi recenti è fuorviante, ma è evidente che nonostante le prime prese di posizione delle potenze occidentali (USA e GB), già precedute dal battage a mezzo stampa di questi primi giorni, anche in questo nessuno è disposto a morire per Hong Kong; preferendo piuttosto limitarsi all’azione di pennivendoli che descrivono scontri epici tra Bene e Male senza ammettere che dietro questo scontro ci sono precise responsabilità storiche e affari molto più grossi della voglia di difendere quei diritti umani tanto sbandierati e mai davvero rispettati neanche in patria.
Il destino di una vera libertà politica per Hong Kong, che vada oltre la questione del voto e dei candidati, dipenderà da quanto le istanze anticapitaliste nella piazza riusciranno a radicarsi, rifiutando di essere carne da macello in uno scontro che sia ad Usa ed Europa che alla Cina interessa dirigere in termini di aumento della quota di influenza globale. Fanno ben sperare ad esempio le notizie che danno i lavoratori portuali ed altre categorie operaie andare a solidarizzare con gli studenti, prefigurando un allargamento del conflitto che inizia anche ad essere difficilmente gestibile da quella che alcuni media hanno definito “la leadership della protesta” (alcuni professori universitari) mentre è da valutare le conseguenze di un coinvolgimento diretto delle strutture sindacali di HK.
E’ probabile ad ogni modo che si arrivi ad un compromesso, che potrebbe essere rappresentato dalle dimissioni dell’attuale Chief Executive di HK, sebbene questo potrebbe costituire un colpo abbastanza forte all’immagine da pugno di ferro costruita da Xi sin dall’ascesa alla presidenza. Tutto dipenderà dalla tenuta del movimento e di un elemento centrale, mancante nel periodo di TienAnMen: la capacità del movimento di sfruttare la potenza dei social media per allargarsi e riscuotere ampio consenso e appoggio su scala internazionale.Ciò che è certo è che la giornata del primo ottobre, con le parate militari che anche ad Hong Kong festeggeranno il 65 anniversario della rivoluzione maoista (sempre che la cerimonia non venga per qualche motivo annullata), sarà una nuova importante giornata di conflitto per le strade della regione amministrativa speciale..
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