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La variante cinese

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Condividiamo questo interessante articolo di Nico Maccentelli da Carmilla sul nuovo (ed ennesimo?) innamoramento di alcuni ambienti verso la Cina di Xi Jinping. Ecco che l’eterna ricerca di un modello a cui affidarsi, di un blocco geopolitico a cui associarsi in quella che di fondo diventa l’ennesima lotta intrisa di idealismo tra bene e male produce le ovvie distorsioni nella lettura del capitalismo contemporaneo. Il problema, che si ripropone ogni qual volta ci si misura con la contemporaneità, è proprio ed inevitabilmente quello di ripensare interamente l’esperienza comunista alla luce delle evoluzioni e delle tendenze storiche in atto. Un percorso difficile e sicuramente poco gratificante, ma inevitabile. Infine, va sottolineato, rifiutare la lettura per cui la Cina rappresenta un percorso al socialismo non vuol dire cadere nell’estremo opposto, cioè nella occidentalissima retorica anticinese montante. E’ evidente che le asimmetrie, le catene del valore, le scale interne alla globalizzazione (senza la quale il neoliberismo occidentale non potrebbe esistere), vanno tenute in conto nell’analisi e non sono anch’esse indifferenti al fine di comprendere il presente e progettare itinerari alternativi, seppure di fronte alle contraddizioni interne ed esterne che, in grado sempre più elevato, si vedono esprimersi negli Stati Uniti.

“Uno degli elementi più negativi nel pensiero comunista europeo degli ultimi 30 anni è sicuramente rappresentato da una concezione astratta del “socialismo”. Ridotto a una serie di princìpi totalmente indipendenti dalla realtà storica, validi in modo identico per qualsiasi formazione sociale (europea, asiatica, africana o americana), pressoché impossibili da rispettare concretamente. Una sorta di paradiso originario collocato nel lontano futuro anziché nel passato remoto.”

Inizia così un articolo di Contropiano a firma di Francesco Piccioni su un pezzo di Guido Salerno Aletta, dal titolo: Tra stato e mercato la Cina e l’Occidente neoliberista, attaccando praticamente chi riguardo la Cina di oggi non ripone fiducia nelle “magnifiche sorti” del suo inesistente socialismo.

In realtà l’articolo in questione inizia con un falso storico-temporale che occulta e separa dalla questione cinese odierna un tema fondamentale per tutto il movimento comunista novecentesco e odierno: la lotta contro il revisionismo e ciò che differenzia una sinistra rivoluzionaria da questo. Altrimenti la storiella della “concezione astratta del socialismo” non reggerebbe. E il falso è nella datazione dei 30 anni.

E in realtà non sono 30, bensì 60 anni che questo dibattito divide il movimento comunista, sin dai tempi in cui il maoismo ha rappresentato nello scontro politico con il togliattismo la linea di demarcazione tra una visione rivoluzionaria e una revisionista. E fu proprio la politica rivoluzionaria maoista a fare da incipit a gran parte delle lotte di liberazione antimperialista e alle sinistre rivoluzionarie dalle campagne alle metropoli.

Dunque è dai primi anni ’60 che inizia la polemica tra il Partito Comunista Cinese e quello italiano (1). Da questa polemica nacque un linea rivoluzionaria che ripudiava il gradualismo togliattiano, la coesistenza pacifica con il capitalismo, che criticava una visione politica che metteva al centro il riformismo, le riforme di struttura versus un riproposizione del leninismo nei suoi principi tutt’ora validi negli anni ’60 come oggi.

Detto per inciso, l’approccio revisionista è stato poi sviluppato attraverso il denghismo con la sconfitta della Rivoluzione Culturale di Mao e l’avvento della borghesia burocratica nel PCC. Per cui se una chiave di lettura marxista va data della Cina di oggi è da allora che occorre partire, non da 30 anni fa. E non certo da una visione pragmatica e tecnocratica che evidentemente ha affascinato i compagni di Contropiano.

In Italia, la critica al togliattismo proveniente dai compagni cinesi agli inizi degli anni ’60 fu il propellente di tutto il movimento comunista alla sinistra del PCI. E questa datazione postuma è solo un tentativo di mistificare la questione per non far vedere che ci si sta sbarazzando non dell’acqua sporca, ma del bambino. Questa impostazione filo cinese è in palese contraddizione con la provenienza politica di molti compagni della sinistra di classe. È una questione che pertiene la memoria storica della lotta di classe rivoluzionaria in Italia e non solo, su questa separazione tra rivoluzione e riformismo hanno combattuto generazioni di comunisti, scegliendo strade e strategie politiche di rottura con la compatibilità “tattica” col capitalismo.

Questa “concezione astratta del socialismo” non creò solo le organizzazioni di stretta osservanza maoista, ma influenzò tutta la sinistra extraparlamentare  e lo stesso operaismo. Questa “concezione astratta del socialismo” in Cina diede vita alla più straordinaria mobilitazione dal basso per un intero decennio dalla metà degli anni ’60 fino al 1976: la Rivoluziona Culturale con le Guardie Rosse, che rimettevano in discussione la presenza nel PCC di un’ala borghese che stava andando esattamente dove la Cina è arrivata oggi.

Per cui si abbia il coraggio di dire che Mao aveva sbagliato e Deng Xiaping ragione invece di starci a girare attorno facendo giochetti sulle date. Almeno Giorgio Cremaschi nel suo intervento al convegno della Rete dei Comunisti dello scorso anno sulla Cina è stato coerente con la sua storia politica (la sua provenienza è il PCI) nel sostenere che Togliatti aveva ragione e Mao torto. È più apprezzabile perché pur se opinione che ritengo sbagliata, quanto meno è lineare col suo imprinting politico.

Di fatto senza questa spaccatura nel movimento comunista internazionale, non ci sarebbe stata politica rivoluzionaria, autonomia di classe, ma neppure quella critica culturale che partiva dai Sartre, dai Sanguineti fino ad arrivare ai Godard, ai movimenti operai e studenteschi dalla Francia del maggio agli USA dei campus, all’Italia con le due ondate del ’68 e del ’77, alle culture dell’antagonismo e della rottura con le convenzioni borghesi degli anni ’70, nelle quali il PCI stesso si ritrovava ingessato, incapace di capire i mutamenti della società, dei cicli di produzione del capitale, della composizione di classe e via dicendo.

Dunque per Piccioni e soci un’analisi critica riguardo una Cina governata da un’oligarchia di mandarini di stato e di partito con forti interessi finanziari e azionari nelle multinazionali cinesi private e di stato è astratta. Per costoro il fatto che l’intreccio di interessi e potere tra i 600 miliardari cinesi e questi mandarini sarà un dettaglio: peccato che sia il risultato di un revisionismo che ha fatto leva sulle contraddizioni di una rivoluzione in un paese di centinaia di milioni di persone, bloccandola e facendo tornare indietro gli orologi della storia, creando una nuova borghesia in un’economia di fatto capitalista che di socialismo non ha più neppure l’odore. 

Forse per costoro sono astrazioni anche le posizioni politiche delle forze comuniste che oggi come ieri combattono concretamente l’imperialismo, come il Partito Comunista delle Filippine: qui le sue annotazioni al fulgido e magnificamente progressivo discorso di Xi Jinping.

Saranno astrazioni, ma a queste domande che sorgono spontanee nel vedere la Cina di oggi che risposta diamo? Che risposta diamo a:

nel  potere classista composto da un’oligarchia di burocrati insieme al manageriato di multinazionali, del capitale privato…

nell’integrazione tra capitali finanziari e multinazionali…

nella polarizzazione tra 626 miliardari che concentrano la ricchezza sociale e le classi popolari cinesi in un miliardo e 400 milioni di persone…

nel divario salariale abissale tra classi e settori sociali…

nel ammortizzare la caduta tendenziale del saggio di profitto occidentale consentendo proficue esternalizzazioni al capitale occidentale…

nell’uso della forza-lavoro dalle campagne come i nostri caporali usano quella esterna dei migranti…

… che socialismo c’è?

È sufficiente uno stato che pianifica per definire una società come socialista? Dalle mie parti era la socializzazione dei mezzi di produzione non lo sviluppo di un’economia privata (pur con tutte le sue diversità dai modelli neoliberale e ordoliberale occidentali) a definire la transizione al socialismo. Nemmeno Togliatti con le sue riforme di struttura dava come prospettiva l’uscita dalla povertà e basta… ma che il popolo non governi, non si socializzino i mezzi della riproduzione sociale, non si abbia come scopo l’uguaglianza sociale. L’armonia confuciana regni tra sottoposti e dignitari del sovrano. E tutto resti così com’è nelle differenze sociali, nei rapporti di classe. Ma la critica a tutto questo è evidentemente un’astrazione per i nostri amici di Contropiano. Astrazioni che hanno ricadute ben concrete in una lotta di classe che in Cina è proseguita anche nella repressione antioperaia da parte delle autorità dello stato e del PCC contro i gruppi maoisti e i lavoratori che protestano e vogliono sindacati indipendenti (2).

Un’economia capitalista, che si fonda sul globalismo e l’interconnessione di filiere, capitali e mercati, che non va verso la socializzazione dei mezzi di produzione, ma verso uno sviluppo di questo modello capitalistico, per gli amici di Contropiano è “socialismo dalle caratteristiche originali”. Sino alla bestialità di definire “lotta di classe” la contraddizione intercapitalistica tra Cina e potenze imperialiste atlantiste (3), come se da parte cinese vi sia un proletariato al potere con la sua strategia internazionalista al socialismo, che sia comunismo di guerra o NEP, o arrivo a dire persino revisionista e kruscioviana “coesistenza pacifica”. Persino quest’ultima, persino il revisionismo classico non arriva alle alte vette di spregiudicata tecnocrazia e integrazione intercapitalistica degli attuali gruppi dirigenti cinesi, così ben decantate dai suoi esegeti.

Cosa significa allora oggi riesumare il denghismo (perché di questo si tratta), il suo approdo non a un socialismo, ma neppure a una sua transizione, bensì a un sistema capitalistico che utilizza altre leve della politica economica, più stato nel mercato (un refrain dello “stato piano” degli anni del dopoguerra della seconda metà del Novecento)? Cosa significa tessere le lodi del confuciano PCC di Xi Jinping, che ha abbandonato la teoria e la prassi maoiste della contraddizione? Cosa significa collocare la Cina di oggi in una sorta di “socialismo originale”, termine usato non solo da Salerno Aletta e Contropiano, ma anche da Carlo Formenti, e dal gruppo di Marx21?

Significa porsi alla destra del riformismo togliattiano uscito dall’VIII congresso del PCI nel 1956 (4) e, se si analizza bene, probabilmente anche di quello di Amendola degli anni ’60: una posizione ancora più moderata delle “riforme di struttura”, ancora più gradualistica, ancora più compromissoria col mercato capitalistico.

Dobbiamo arrivare all’Eurocomunismo del periodo berlingueriano per trovare quelle logiche di commistione con i tempi e i modi della produzione capitalistica, della riproduzione sociale del rapporto capitale/lavoro che oggi caratterizzano le stesse logiche cinesi: quando il PCI nel laboratorio emiliano metteva in atto con il decentramento produttivo la scomposizione di classe funzionalizzando la “rossa” Emilia ai tempi e ai modi della produzione capitalistica e alle modalità in cui il capitale procedeva con la ristrutturazione dei cicli di produzione.

La politica economica dei “mandarini” cinesi di partito nel rapporto capitale/lavoro non ricorda forse queste alchimie produttiviste e di irrigimentazione della forza-lavoro in Emilia di un PCI che negli anni ’70 spacciava l’attacco alla rigidità operaia per modernità? E non sono forse queste le politiche sociali e di produzione tipiche della peggiore socialdemocrazia? 

Concludo con un’ultima perla, sempre dall’articolo Tra stato e mercato, la Cina e l’Occidente neoliberista.

Sino ad ora abbiamo visto il nostro autore criticare la “concezione astratta del socialismo” rivolta a chi critica il “socialismo originale” cinese. Come se non fosse ovvio che il socialismo scientifico si basa sull’analisi concreta della situazione concreta. Come se non fosse evidente che dalla storia della lotta di classe e dalle esperienze di socialismo del Novecento si è compreso che ogni paese, ogni formazione economico-sociale deve trovare il suo percorso al socialismo nel processo rivoluzionario di abbattimento del capitalismo.

Sicuramente sono tanti i comunisti che hanno un approccio libresco e astratto della rivoluzione socialista. Vengono in mente le battaglie di cortile tra i vari “ismi”, rivangando diatribe superate ed episodi morti e sepolti della storia del movimento comunista mondiale: queste caricature del marxismo servono alla fine per creare un comodo alibi. La rampa di lancio dei salti della quaglia.

Ma venendo al sodo: cosa sta alla base dell’analisi concreta della situazione concreta dell’autore di questo articolo? Ossia, contro la visione “astratta” del socialismo cosa contrappone il nostro? Ce lo spiega così:

“Ricordiamo che la definizione di Marx era molto più laica: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro. Che è certamente una formulazione astratta, ma che descrive un criterio invece che una serie di “istituti” teoricamente caratterizzanti una formazione sociale “socialista” (inevitabilmente varianti a seconda del livello di sviluppo di un certo paese, le tradizioni locali, le culture, ecc). L’“eguaglianza” – per esempio – in condizioni di povertà o di relativo benessere generale, in pace o in guerra, ecc, può significare cose molto diverse.”(5)

Va bene l’originalità di un dato socialismo in un dato contesto sociale, ma se il socialismo si distingue per la sola massima timbrata e controfirmata da Marx: da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro, c’è proprio da star freschi! Anche perché Marx ha detto tanto altro nella definizione di socialismo. E non è un caso che proprio un aspetto dirimente manchi dalla definizione data da Piccioni. Una questione su cui Marx, Engels, Lenin, praticamente tutti hanno posto al centro dell’ontologia del socialismo. La socializzazione dei mezzi di produzione, ecco cos’è l’aspetto qualificante il socialismo. Ed è qui che casca l’asino.

Che una classe dirigente borghese utilizzi lo Stato e la pianificazione per un’economia di mercato sarebbe già socialismo, è così? Lo abbiamo già visto prima che non basta.

Ma proprio per non scadere in una visione astratta, occorre considerare tutto il processo economico-sociale, non solo lo sviluppo delle forze produttive (chi le sviluppa? Anche nel capitalismo c’è una borghesia che le sviluppa…), non tanto quindi un approccio tecnocratico, ma una progressione a forte partecipazione popolare, un processo economico-sociale che nella transizione procede alla socializzazione dei mezzi della riproduzione sociale. In Cina dal 1976 avviene il contrario. E parlare delle centinaia di milioni che stanno uscendo dalla fame, di progresso tecnologico, non caratterizza questo paese come socialista, quando insieme alla crescita di una forte economia privata si forma una vasta classe media, quando le differenze sociali si acuiscono e, soprattutto, quando non c’è una reale democrazia socialista di popolo.

Da ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo il suo lavoro grazie, anche nel capitalismo può essere applicato questo criterio. Allora questo cosa vuol dire: che se io sono disabile e le mie capacità danno una certa performance nel lavoro, ottengo in base al mio lavoro? Ma questo è liberalismo! Esattamente come la concezione cinese. Semmai il criterio è quello di dare a tutti in base ai propri bisogni, dare a tutti l’opportunità e il diritto a un’esistenza soddisfacente. Questa è l’uguaglianza, non il pastrocchio darwiniano che emerge da queste poche righe maldestre! E il liberalismo si pone per l’appunto alla destra del togliattismo, ossia di una visione gradualistica del cambiamento al socialismo.

Solo se affianchi questo tipo di uguaglianza sociale alla socializzazione dei mezzi di produzione (questo voleva dire Marx), ossia alla democrazia economica e sociale, alla gestione di un’economia sempre più pubblica e sempre meno privata da parte degli organismi democratici popolari, si può parlare di transizione al socialismo. Ciò che non sta avvenendo in Cina. La Cina è un paese liberale la cui progressione non è la socializzazione.

In definitiva la “variante cinese” è un virus ideologico che colpisce i comunisti, non è “uno spettro che si aggira per l’Europa”. È parte di un revisionismo ricorrente che si ripresenta nei contesti più impensabili e in forme sempre nuove.

Ma allora, l’ultima domanda che sorge al di là di tutte le belle chiacchiere sulle “magnifiche sorti del socialismo” cinese, è: quale politica per il proletariato italiano? Un movimento comunista affetto da questa variante cinese quale strategia politica svilupperà in coerenza con questa nuova visione così “concreta” che ha assunto?

Chiedo per un amico.

  • § §
  • Note:

  • 1 Le divergenze tra il compagno Togliatti e noi e Ancora sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi, Reprint a cura della Cooperativa Editrice Nuova Cultura, Casa Editrice in lingue estere Pechino, 1963

  • 2 Ho analizzato qui, sempre su Carmilla, un articolo della sociologa cinese Pun Ngai sulla lotta operaia nel 2018 alla Jasic Technology di Shenzhen
  • 3 https://contropiano.org/news/news-economia/2021/12/30/loccidente-sta-perdendo-la-lotta-di-classe-0145289

    4 Si veda: https://fondazionefeltrinelli.it/app/uploads/2019/03/Socialismo-e-riforme-di-struttura_Togliatti-1956_download.pdf

    5 Tra stato e mercato, la Cina e l’Occidente neoliberista:https://contropiano.org/news/politica-news/2022/01/01/tra-stato-e-mercato-la-cina-e-loccidente-neoliberista-0145335?fbclid=IwAR3CMeiHCYYD-KfsXdMIJ25-WuJl8Y61ZQ3OFxljZpy8BOUwyAIN1y82i1w

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