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Ritorno dalla frontiera – Prima parte

a cura di Info Free Flow

Un mito, quello della frontiera americana, che negli anni ’90 si rinnova con l’internet di massa e la new economy: si è scritto di come nell’immaginario statunitense alla lotta contro la wilderness, “la barbarie della natura e dei popoli”, subentri l’ideologia californiana e la sua promessa della salvezza attraverso la tecnologia. Quella che nello storico documento di Barbrook e Cameron procede attraverso l’alleanza tra hippies e yuppies, le classi sociali cruciali nell’emersione del paradigma dell’economia in rete e a rete, della finanziarizzazione e della conoscenza, unite dal collante del capitale di ventura. Ed un ritorno che parte dalle innovazioni introdotte nel cammino verso quella frontiera e dalle nuove energie che hanno il compito di sostenerne il paradigma produttivo: dove c’erano le ferrovie ora scorrono i cavi delle broadband, ed il petrolio di Rockefeller cede il passo alle energie verdi.

Molti sono i protagonisti di quest’ondata, e tra i principali figura indubbiamente Google; grande sopravvissuta al naufragio della new economy (o dovremmo dire fortunata scopritrice dell’oro californiano?), nello scorso decennio la start-up di Page, Brin e Schmidt ha saputo consolidarsi fino al dominio assoluto ma temporaneo del mercato dei mercati, quello della ricerca delle informazioni in rete. Da questo core business l’azienda di Mountain View si è rapidamente affermata come fornitore di applicazioni, servizi e beni digitali in rete, attraverso piattaforme interconnesse in quella “googlesfera” in grado di ricostruire profili di consumo a partire da una progressiva accumulazione delle preferenze dei suoi utenti. Una traiettoria non dissimile da quella delle classiche operazioni di consolidamento settoriale nelle industrie tradizionali e che non per niente sta venendo replicata da altri attori: ad esempio Facebook, fresco di acquisizione delle start-up Beluga (per comunicare in mobilità tra gruppi privati di amici) e Snaptu (per utilizzare alcune sue funzionalità anche sui vecchi telefonini e conquistare i mercati emergenti). Ed è stata proprio la creatura di Mark Zuckerberg, assieme a Twitter, LinkedIn, Flickr, LastFM e tutti gli altri social network a rivoluzionare le modalità di circolazione dell’informazione sul web: decostruendone e ricostruendone il mercato con la creazione di database tematici di profilazioni individuali e collettive innervati principalmente dal general intellect dei propri utenti anziché da algoritmi come PageRank.

Tuttavia negli ultimi anni sembra configurarsi un’ulteriore evoluzione a cui accennavamo qualche riga sopra: quella del rimodellamento della struttura economica sulle esigenze di quell'”Internet delle Cose” teorizzata al MIT di Boston ma divenuta realtà a partire dalla Bay Area di San Francisco. In questo Google, forte non solo del consolidamento del suo ruolo come intermediario di rete ma anche delle ingenti somme raccolte attraverso la propria riuscita e profittevole capitalizzazione di borsa – ambito di finanziamento, ma anche dell’esercizio del potere – si pone ancora all’avanguardia di questo processo di espansione nell’economia reale a partire da tutte quelle industrie che, in senso lato, rappresentano l'”indotto” della distribuzione del suo “prodotto” – autosufficienza energetica, archiviazione, trasmissione di dati. Quattro sono i campi principali in cui Google indirizza e finanzia sempre più direttamente la sua ricerca (attraverso borse di studio come i Google Research Awards e la sussidiaria di venture capital Google Ventures): intelligenza artificiale, utilizzo dei cellulari come strumenti di raccolta dati per la salute pubblica ed il monitoraggio dell’ambiente, efficienza energetica degli elaboratori, privacy (ovviamente da intendersi in senso modulare); ma anche box per la televisione on demand e prototipi di auto elettriche. Un processo che non si arresta: come cerchi concentrici dopo il lancio di un sasso in uno stagno, le imprese del web 2.0 cercano di estendere ad ondate la loro proiezione sulla superficie del reale. 

(segue nella prossima pagina)

 

 

 


 

Your world is connected

 

Quanto finora introdotto non va rimosso dal contesto delle grandi trasformazioni economiche e tecnologiche degli anni 2000: da una parte gli azionisti dei grandi hedge fund sono alla ricerca di nuovi mercati da conquistare, dopo il tracollo globale prodottosi a partire dalla crisi del mercato immobiliare statunitense del 2007 (settore a sua volta foraggiato dai capitali in fuga dal crac della new economy). Dall’altra, i progressi delle reti wireless e la semplificazione delle interfacce e del design dei dispositivi telematici hanno visto l’affermazione a livello mainstream (sempre nel 2007 con la commercializzazione dell’IPhone di Apple) degli smartphone come strumenti di navigazione web; strumenti sempre più centrali in un mondo-mercato affamato di mobilità e portabilità dell’informazione e dei suoi media.

E’ con questi passaggi che si affermano alcune forme di colonizzazione del reale e della sua economia da parte dei reduci della frontiera: ad esempio determinate forme di implementazione e fruizione della realtà aumentata (la sovrapposizione di molteplici livelli informativi agli oggetti dell’esperienza sensoriale). La quale cessa di essere una funzionalità tecnica su cui speculare in asettici laboratori e fumose press conferences, per divenire un terreno dei rapporti di produzione; su cui catalogazioni e costruzioni di senso collaborative dal basso si muovono in quella che vuole costituirsi come struttura di intermediazione totale dei beni reali e digitali (ruolo che in passato hanno provato a giocare, in ambito ben più limitato e settoriale, attori come RIAA e MPAA) da parte di vecchi e nuovi infolatifondisti del Web 2.0.

Così, ai fini di qualificare le esperienze individuali e collettive, la geolocalizzazione, il check-in, la connessione del proprio mondo a quello degli intermediari di rete divengono il punto di convergenza ed il fulcro dell’incontro tra economia reale e virtuale. Un esempio viene dal social network FourSquare in cui – autenticandosi un certo numero di volte al servizio da una qualunque posizione, attività o luogo localizzato nel mondo reale – si ha la possibilità di redarre descrizioni per gli altri utenti, segnalare i posti più interessanti delle città, socializzare tutta una serie di itinerari quotidiani a fini ludici e meno ludici. Tuttavia non manca, anzi è pervasivo l’aspetto commerciale: fidelizzazione dei clienti che effettuano più check-in presso un negozio, profilazione in base alle categorie di acquisti per segnalare loro gli esercizi maggiormente (?) attraenti, fino ad arrivare alla creazione delle abitudini più appropriate per accaparrarsi il badge più esclusivo della multinazionale X – tutte attività per cui FourSquare riceve una percentuale.

Altro attore emergente a godere di simili meccanismi di rendita è GroupOn, un sito che raccoglie sconti ed offerte presso varie attività città per città, che vengono corrisposte in presenza di un numero minimo di consumatori: così l’attività si pubblicizza o si libera di scorte di magazzino, mentre GroupOn trattiene per sé parte delle transazioni.

Anche qui, forti delle loro economie di scopo, Google e Facebook hanno iniziato ad investire, annunciando l’aggiunta alle proprie funzionalità “Places” (che replicano Foursquare) delle “Google Offers” e dei “Facebook Deals” (di funzionamento simile a quelli di GruopOn), e contando entrambe di implementare nel prossimo futuro proprie piattaforme di pagamento mobile (Google Checkout) o di valuta interna (Facebook Credits); ma il discorso vale anche per altre aziende immerse dalla prima ora nel settore dell’e-commerce quali E-bay, che dallo scorso dicembre con l’acquisizione di Milo.com offre la possibilità di ricercare e pubblicizzare prodotti presso esercizi localizzati.

Ma quali sono gli effetti di queste trasformazioni nei rapporti tutti materiali dell’economia sulle istituzioni finanziarie e sul potere politico?

(continua…)

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