Territori subalterni e città globalizzate. Per una critica partigiana dello spazio urbano
Contributo di Emilio Quadrelli verso il convegno “Per una critica della città globalizzata” del 30-31 maggio a Bologna. Nelle prossime settimane pubblicheremo altri materiali preparatori alla discussione per l’iniziativa.
La fantasmagoria della civiltà capitalista tocca la sua espansione più radiosa nell’esposizione universale del 1867. L’Impero è al culmine della sua potenza. Parigi si conferma capitale del lusso e delle mode. Offenbach detta il ritmo alla vita parigina. L’operetta è l’utopia ironica di un dominio permanente del capitale.
W. Benjamin, Parigi. La capitale del XIX secolo
Mi sembra opportuno partire con il definire che cos’è la città oggi. Pare evidente che l’era globale ha sedimentato una dimensione politica della città che non trova alcuna similitudine con ciò che l’ha preceduta. L’aria di città rende liberi ha accomunato classi dominanti e subalterni per una lunga arcata storica poiché la città cristallizzava l’essenza di determinati rapporti sociali che legavano tutte le classi sociali, pur in maniera assai diversa, a un luogo. Questa relazione pare essere andata radicalmente in frantumi. Due sembrano essere, pertanto, gli aspetti intorno ai quali è necessario soffermarsi. Il primo riguarda la scissione intervenuta intorno alla percezione della città tra le classi sociali. Classicamente si è potuto parlare, a ragione, di città divisa, di città borghese e quartieri operai e proletari ma anche, avendo a mente soprattutto il mondo e il modello anglosassone, di città rispettabile e ghetti urbani. A unire mondi così diversi era la comune condivisione da parte di tutte le classi sociali del proprio territorio. Tanto le classi dominanti quanto le masse subalterne si sentivano legate e appartenenti alla propria dimensione urbana. Non a caso le città mostravano caratteristiche particolari. Queste caratteristiche erano le cristallizzazioni di una storia che aveva sullo sfondo quell’idea di Nazione costruita dalla borghesia sin dai tempi della sua ascesa come classe dominante. Una storia complessa e per nulla lineare tanto che la stessa Nazione, o più precisamente una sua particolare forma, è stata anche l’orizzonte dei subalterni. Argomento denso, complesso e spigoloso che, nel contesto, non si può che porre tra parentesi. Ciò che realmente importa evidenziare, invece, è come oggi assistiamo a una totale archiviazione di tutto questo.
Le città, o almeno le sue parti rispettabili, si uniformano finendo col perdere ogni specificità storica e culturale. La realizzazione della città globalizzata non è che una sorta di non – luogo indistinto che, nella struttura architettonica di un qualunque aeroporto, trova la sua forma compiuta. Non è un caso, forse, che nel romanzo di formazione delle classi dominanti contemporanee il viaggio non rappresenti più un momento centrale. Sicuramente le classi dominanti si spostano in continuazione ma tutto ciò non ha più nulla a che vedere con la dimensione del viaggio. Ci si sposta in una continua Disneyland sempre uguale a se stessa poiché il turismo ha sostituito il viaggio e il turista non si muove per fare un’esperienza, per conoscere, imparare, scoprire ma per entrare in un continuum le cui coordinate sono tanto inamovibili quanto prevedibili. La classe agiata può finalmente essere a casa nel mondo perché lo ha reso uniforme.
Parafrasando Simmel si potrebbe dire che, come la filosofia del denaro ha comportato la fine e la rottura di ogni legame sociale fondato sul vincolo comunitario, la filosofia del capitale finanziario ha dissolto ogni legame tra classi dominanti e territorio. Oggi il territorio e la sua dimensione sono qualcosa che interessa solo i subalterni. Loro e solo loro rimangono obiettivamente legati alla dimensione territoriale o, per meglio dire, tellurica. Mentre la globalizzazione ha reso superflua la dimensione territoriale per le classi agiate, rendendo fattibile la vecchia utopia cosmopolita propria delle élite, per i globalizzati in basso la dimensione territoriale si è, se possibile, fatta ancora più forte. Le classi dominanti vivono nel mondo generale e uniforme, i subalterni nella particolarità dei territori. L’espulsione dei subalterni dai centri gentrificati, come le ordinanze sul decoro urbano sono lì a testimoniare, mostrano come questi spazi urbani debbano essere uniformati anche sotto il profilo antropologico. Ma questo è un passaggio che ha ben poco di estetico o perbenista poiché, dentro questi provvedimenti proni alla dimensione del turismo, si cela un passaggio politico in qualche modo epocale. Non si tratta dell’ennesimo atto repressivo, piuttosto della cristallizzazione di una rottura storica della relazione tra le classi. Per le classi dominanti i territori, e i suoi abitanti, sono diventati infatti inessenziali. Quel far vivere e lasciar morire che aveva caratterizzato, pur in maniera non omogenea, la linea di condotta della borghesia verso i subalterni è stata riposta in archivio. Territorio e popolazione diventano inessenziali per la filosofia del capitale finanziario. Ciò ha delle ricadute non secondarie. Tutto ciò che rimanda a un’idea di territorialità e popolazione non può che essere oggetto di marginalizzazione ed esclusione. Si tratta però di una marginalizzazione e di una forma di esclusione con tratti assai diversi dal passato.
Classicamente i marginali e gli esclusi, quelli cioè che si doveva lasciar morire, erano i corpi di coloro che, per un insieme di motivi, risultavano inutili, inidonei e persino dannosi per la produzione e la guerra. Quindi estranei al corpo della Nazione. Non è un caso che, nelle retoriche di senso comune, marginale ed escluso sia stato solitamente associato a anormale. Su ciò Foucault ha scritto testi essenziali ai quali non si può che rimandare. Questo ha fatto sì che, la stessa teoria marxiana, si sia ben poco occupata di esclusi e marginali. Del resto, aspetto certamente non irrilevante, marginali ed esclusi ben poco avevano a che spartire non solo con la produzione ma con lo stesso territorio. Il marginale come soggetto errante non è un semplice luogo comune. In un mondo organizzato intorno alla produzione e all’esercito il marginale, errabondo e vagabondo, trovava ben poco spazio. A conti fatti il mondo dei marginali e quello dei proletari aveva ben pochi punti in comune. Nel mondo attuale le cose sono decisamente cambiate. I processi di marginalizzazione ed esclusione investono quote consistenti di subalterni per nulla estranei ai processi di valorizzazione. In altre parole esclusione e marginalità non incarnano una eccedenza o una alterità ma la prosaica esistenza di ampie quote di subalterni. In qualche modo sembra di essere ritornati a un’epoca in cui i contorni della “questione sociale” non erano neppure ipotizzati. Di tutto ciò le città, e le forme da queste assunte, ne sono lo specchio per nulla deformato.
La città globalizzata, e la sua organizzazione, fotografano esattamente la tipologia dei rapporti sociali in atto. Accanto a uno spazio urbano globalizzato, sostanzialmente uniforme e fortemente protetto si stagliano i territori del nulla deputati a contenere la forza lavoro marginalizzata. Un’organizzazione dello spazio urbano contrassegnato da un moltiplicarsi di confini pressoché invalicabili destinati a confinare i subalterni entro i rigidi perimetri dei territori. In questo senso, per paradossale che possa sembrare, lo spazio urbano globalizzato attinge a piene mani dal modello proprio della città coloniale dove è la linea del colore a farla da padrona. La città globalizzata, infatti, non si pensa e percepisce più come luogo di conflitti di natura simmetrica ma come uno spazio totalmente asimmetrico dove i subalterni sono sottoposti a una serie permanente di confinamenti. Questa realtà non è modificabile poiché le sue radici non sono il frutto di una particolare politica bensì il cuore stesso della formazione economica e sociale contemporanea. Questa linea di condotta delle classi dominanti affonda le sue radici nel ciclo di accumulazione e valorizzazione del capitale contemporaneo, nessun riformismo è in grado di attenuarne gli effetti. Del resto la morte di ogni ipotesi socialdemocratica, per quanto coltivata a piene mani in questi anni da non poche residualità comuniste e antagoniste sino ad arrivare al “populismo di sinistra”, dovrebbe essere talmente evidente da non richiedere ulteriori precisazioni. Se quanto argomentato è vero una cosa, e qua entriamo immediatamente nel merito del secondo punto, diventa chiara: le trasformazioni dello spazio urbano sono la cristallizzazione di una trasformazione politica che chiama immediatamente in causa la forma – stato.
L’organizzazione dello spazio urbano è una buona esemplificazione e cristallizzazione del modello statuale entro cui siamo immessi. Così come i subalterni sono oggetto di esclusione e marginalizzazione sociale entro i perimetri delle città globalizzate, allo stesso modo sono oggetto di esclusione politica. Si può asserire infatti che l’attuale modello di città non faccia altro che rendere in forma empirica quanto messo in forma dall’astrazione politica. Di fronte a tutto ciò ben poco senso, e allo stesso tempo ricadute di una qualche consistenza, sembrano avere tutte quelle ipotesi neosovraniste e populiste che ipotizzano un ritorno al mondo di ieri come se, questo, fosse il semplice frutto di una volontà politica e non l’effetto di processi materiali che hanno posto in soffitta tutto un ciclo capitalistico e, con questo, le forme politiche a lui coeve. Più sensatamente e realisticamente, invece, pare utile focalizzare l’attenzione sull’oggettività dei processi materiali del presente e cogliere e approfondire le contraddizioni che l’attuale modello capitalistico si porta appresso. In altre parole agire nel presente, con le spalle al futuro, evitando, al contempo, di coltivare “utopie conservatrici”. Non è la città di ieri, frutto di quella costruzione, storica e non naturale, propria dello Stato/Nazione che dobbiamo sognare ma l’insorgenza tellurica dei territori proletari contro l’alienazione della città globalizzata. Non una nuova incarnazione del, parafrasando Marx, “socialismo reazionario”, ma l’attualità del comunismo. Non un ritorno alla governance dello Stato/Nazione ma la presa di congedo dalla forma stato capitalista sotto ogni sua veste.
Se, palesemente, lo stato si ritira dai territori il problema non è chiedere più stato ma organizzarsi fuori e contro lo stato. Il problema non è chiedere diritti ma costruire e affermare il contropotere in grado di affermare non il diritto in generale ma la propria forza particolare. Inoltre, aspetto non proprio secondario, in un’epoca incentrata sulla logica del far morire l’unica via d’uscita per i subalterni è organizzarsi fuori e contro lo stato. Una condizione obiettiva che, tra l’altro, offre l’occasione per riprendere tra le mani il fil ruge della critica marxiana allo stato che, anni e anni di egemonia socialdemocratica, hanno finito con il riporre in secondo piano. Con ogni probabilità dobbiamo riprendere tra le mani Stato e rivoluzione e ri – comprenderne l’importanza. Dobbiamo, cioè, rimettere in circolo l’idea – forza centrale della rivoluzione comunista: spezzare la macchina burocratica – militare che l’apparato statuale incarna.
Il vuoto di potere che obiettivamente è osservabile dentro i territori è qualcosa che va colto. Questo terreno di potere è forse la grande scommessa che va pensata e organizzata. Ma questo cosa significa? Cominciamo col dire che non si tratta di inventarsi nulla. Sappiamo che solo la lotta di classe, la prassi della classe è in grado di rispondere a questa domanda. La Comune e i Soviet sono state il frutto della strategia della classe non la messa a punto della risoluzione di un qualche ceto politico. Detto e ribadito questo la soluzione non è certo l’attendismo o il fatalismo storico. Se il partito non fa la rivoluzione sicuramente la prepara. Questa preparazione non può che realizzarsi sapendo non solo stare dentro il conflitto ma cogliendo dal conflitto le indicazioni strategiche che questo indica e, su queste, modellare l’organizzazione. Sicuramente non sembra di essere in tempi da assalto frontale piuttosto in un contesto in cui la disgregazione statuale passa attraverso un suo costante e permanente svuotamento. Ma questo è possibile e pensabile solo se la pratica dell’inchiesta torna a essere la “linea di condotta” dei soggetti antagonisti e rivoluzionari. Non dobbiamo farci circuire dalle retoriche proprie delle élite che hanno codificato il presente dei subalterni ascritto irrimediabilmente entro le metropoli del nulla. A ben vedere è dentro questo nulla che si condensano le contraddizioni del presente ed è dentro questo nulla che prendono forma rapporti sociali che hanno, in potenza, la possibilità di destrutturare le rigidità statuali. Iniziare a discutere della e sulla città non può, quindi, che portarci ad affrontare la questione dello stato, della sua critica e delle forme di potere in grado di metterlo in crisi.
Emilio Quadrelli
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