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Tracciare un dentro e un fuori. Recensione di Peripherein di A.Petrillo

 

Nella prima parte del suo testo “Peripherein” (FrancoAngeli 2013) Agostino Petrillo, docente di Sociologia al Politecnico di Milano, pone una riflessione quantomeno stimolante, invitando a ragionare su come sia quasi sempre mancata “una storia del concetto di periferia” che potesse porsi da complemento alla “storia del concetto di centro” su cui invece abbonda il materiale.

Il titolo stesso, “peripherein”, è una parola di origine greca traducibile con l’atto di tracciare una circonferenza, delineando quindi un dentro e un fuori. Un atto gravido di conseguenze quando da un piano astratto di trasla su un piano reale, comportando quindi la creazione di un dispositivo di potere basato sull’appartenenza ad un campo all’altro e dal godimento delle risorse di un campo o dell’altro.

Proprio l’enfasi sull‘inter-relazionalità dei concetti di centro e periferia, intendendo il primo come campo di contesa nel quale portare le pratiche che nascono nella seconda, è uno dei punti che risultano maggiormente interessanti del testo di Petrillo. Del resto, come negare che il concetto stesso di centro non esiste, biunivocamente, se non in relazione al concetto di periferia, definendosi in opposizione ad essa ma allo stesso tempo a rischio costante di modificazione proprio a partire dall’esistenza stessa del suo contrario?

La stessa divisione manichea tra un interno e un esterno, tra un solo centro e una sola periferia caratterizzate in senso omogeneo, sembra sempre più sciogliersi nella compresenza di diversi centri e periferie contemporaneamente  all’interno di una unica dimensione spaziale e sociale. Basti pensare alle Città Globali o alle Mega-Cities, dove quartieri dall’incomparabile diseguaglianza quanto a distribuzione della ricchezza si trovano affiancati l’un l’altro, dove proletariato e classi agiate sono portate necessariamente a convivere a stretto giro di posta per motivi quali ad esempio l’organizzazione logistica del capitalismo dei flussi e delle reti.

Si disegna così nelle città una sorta di “esternità interna”, come la definisce l’autore, dove processi di gentrification e musealizzazione si abbinano agli effetti della migrazione sulla divisione del lavoro costruendo spazialità dove vige un vero e proprio apartheid economico e sociale.

Lo sguardo adeguato sul tema è quindi quello che non racchiude la periferia all’interno di una connotazione puramente spaziale, ma definisce con questo termine quegli spazi anche culturali, sociali e politici dove da un lato – in negativo, spesso un negativo peloso e funzionale alla stigmatizzazione sociale – regnano degrado, miseria, esclusione.  Mentre dall’altro – in positivo, sempre un positivo nascosto e forzato a non rappresentarsi – vivono in nuce le possibilità di un’alterità tutta da sperimentare all’interno di quell’”oscurità” che è allo stesso tempo laboratorio di innovazione delle relazioni organizzative sociali.

Va rigettato insomma un paradigma unicamente topografico di analisi della questione, per provare ad approcciarne uno complessivo, interdisciplinare e capace di cogliere la costellazione di ambiti che significano oggi la stessa dialettica tra centro e periferia. Azzardando un paragone, si potrebbe adattare la visione trontiana della lotta di classe come protagonista del movimento storico e della risposta capitalistica ad una nuova filosofia della città, con una periferia non più da intendere come vittima delle decisioni del centro bensì come elemento capace di avere la possibilità di dettare l’agenda e scatenare processi di trasformazione.

A prescindere dalla correttezza analitica di tale riferimento, ciò che rimane è davvero la presenza – se agita attraverso l’organizzazione e l’inchiesta – di una forte latenza trasformativa all’interno delle periferie, fatta dal combinato del ritiro dello stato nella forma dell’abbandono del sistema welfaristico con l’emergere di segmenti di nuove povertà, di nuove figure della e nella crisi potenzialmente ricettive di nuove proposte di forme di vita.

Senz’altro non si può negare come quelle stesse figure possano essere vittime di tendenze reazionarie e/o nichiliste, come da un lato (perlomeno in Francia/Belgio) vediamo rispetto al richiamo jihadista e dall’altro (anche nei nostri territori) con il complesso tema dell’utilizzo nichilista delle sostanze o con il disimpegno più estremo. Ma è approcciare la periferia come campo di contesa, come spazio di possibilità e di trasformazione dell’esistente ciò che deve interessare chi abita e forma i movimenti sociali al giorno d’oggi, per rifiutare contemporaneamente anche la demonizzazione e la stigmatizzazione della periferia come elemento di rinforzo dell’autorità di un centro sempre più rinchiuso in sé stesso, che si espande solo facendo il deserto.

La speranza in conclusione è forse da cercare nella stessa origine etimologica della parola ban-lieue: ovvero luogo dove vigeva il diritto di bando, di esclusione sociale, da parte degli amministratori del centro della città nei confronti di chi viveva nei territori prossimi ad esso (ma costretta ad esserne dipendente legalmente). Una condizione che però implica contemporaneamente la possibilità della rivolta nei confronti del centro da parte dei banditi, che non è detto saranno sempre disponibili ad essere tali…

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