Un passamontagna contro il regime della valutazione
Spotted Professori, il rapporto valutativo e le strategie di uscita dall’anonimato
Levata di scudi e unanimi cori di sdegno contro l’iniziativa “Spotted Professori Unibo” promossa dal Laboratorio Hobo di Bologna. Si tratta di una pagina Spotted su Facebook che consente di segnalare in forma anonima in uno spazio pubblico l’inaccettabilità dei modi di stare all’università imposti dall’abuso della relazione di potere tra docente e studente.
Accuse di “fascismo” e di “populismo grillista” piovono sugli studenti promotori dell’iniziativa. Addirittura la magistratura ha aperto un fascicolo per monitorare la pagina.
La vicenda merita attenzione. Essa mette in gioco i temi della valutazione, dell’asimmetria nel potere di valutare e dei vettori di riscatto insiti nell’espressione di giudizi collettivi. Lo fa alla prova degli strumenti delle lotte e dunque dei tentativi di ricomposizione sociale contro una comune subalternità, giusto per essere schematici. Inoltre, a partire dal dibattito innescatosi, pone anche problematiche relative a una sintassi delle pratiche di movimento e delle identità ad essa connesse.
Quali lotte?
Proviamo ad approfondire alcuni di questi temi partendo dalla seguente domanda: come intendere il tema della valutazione a partire da un punto di vista dei comportamenti di classe, ovvero a partire da un’insopportabilità che si dà a partire dallo sottostare allo stesso regime della valutazione?
Fino a ora siamo riusciti a cogliere una necessaria genealogia e un’analitica della valutazione. Preziosi a riguardo i recenti contributi di studio di Valeria Pinto1.
Ma come lottare contro la valutazione? Il problema politico è certo un problema distinto da quello teoretico ma questo può servire il primo. D’altra parte lo stesso Foucault – autore il cui metodo genealogico è capace di orientare l’opera di mappatura dei territori sociali a partire dalle trasformazione dei rapporti di potere – partiva dalla consapevolezza che il suo lavoro avrebbe aiutato a “posizionare” le traiettorie delle lotte3.
Ma torniamo alla domanda iniziale: come lottare contro il regime della valutazione?
Scartiamo una prima possibile risposta. Non possiamo accontentarci della semplice denuncia, questa sarebbe impotente e testimoniale.
Scartiamone una seconda. Non possiamo accontentarci del rifiuto, questo relegherebbe alla marginalità e costituirebbe un gesto al massimo eticamente lodevole ma difficilmente generalizzabile.
Mettiamola così: l’esigenza è che si elaborino nuovi codici di comportamento collettivamente attraversabili, ovvero interni ma devianti rispetto ai comportamenti imposti dal regime della valutazione. Torneremo in seguito sull’accezione dell’aggettivo “deviante”.
Questa esigenza ha una duplice radice.
Da un lato, in termini generali, quello della valutazione costituisce un regime totalizzante rispetto al quale è ben difficile tornare indietro o sottrarsi. Non c’è ambito della vita relazionale che ne sia escluso, specie se la relazionalità è messa a lavoro. Anzi il regime della valutazione costituisce una fondamentale risorsa governamentale orientata – nei valori e nel verso della valutazione – a mantenere immutati i ruoli sociali esistenti e i rapporti specifici da questi istituiti.
Dall’altro lato, da un punto di vista soggettivo, proprio perché è ben difficile definire un “fuori” dalla valutazione, c’è sempre un valutato e un valutatore. Bisogna capire da che parte ci si trova e come negarsi al proprio ruolo. Ribaltarlo è un modo per farlo.
È vero, spesso si ha una reciprocità nella valutazione ma il punto è cogliere la “microfisica del potere della valutazione”, ovvero quali gerarchie di potere definisce comunque uno specifico potere di valutazione.
Quale valutazione?
Una importante annotazione: non si prende qui in considerazione il valore in sé della valutazione ma si considera come prioritario il carattere specifico del rapporto valutativo. Esiste infatti un complesso di valori della valutazione al di fuori di un regime di governamentalità, dei suoi fini e dei suoi attori? Probabilmente no. Quando parliamo di “valutazione” ci riferiamo sempre al regime-di-governamentalità-della-valutazione.
Non cogliere adeguatamente questo passaggio significa mettere in questione il diritto di appropriarsi del potere di giudicare, ovvero si rischia di affermare l’impossibilità di ridiscutere il problema del potere nei rapporti umani.
Facciamo da questo un ulteriore passaggio provando a situare parte della risposta alla domanda iniziale: tematizzare nelle lotte il problema della valutazione significa sottrarsi al subire su di noi la valutazione guadagnando il potere politico di giudicarla, di esprimere un’alterità. Questo potremmo intendere con “elaborare nuovi codici di comportamento interni ma devianti rispetto ai comportamenti imposti”. Ovvero stare nel rapporto valutativo per esprimere un giudizio di ricomposizione collettiva contro chi dentro questo rapporto ci valuta illegittimamente, impropriamente o costringendoci a una condotta di vita subalterna e indegna.
Proviamo a trarre dalle lotte un esempio che illustri al meglio questo movimento che prova a elaborare un “dentro e contro” in linea con la medietà dei comportamenti sociali e dei rapporti di potere nei quali ci troviamo inseriti.
Nella lotta per la casa e per la dignità dell’abitare nel quartiere di Sant’Ermete a Pisa una delle prime e prioritarie rivendicazioni è stata la richiesta di assegnazione degli alloggi popolari vuoti. Con blocchi e mobilitazioni è stato strappato il fatto che venissero assegnati. Non si sarebbe vinto davvero se a decidere dell’assegnazione di quelle case fosse stato lo stesso meccanismo del welfare del debito che governa le graduatorie erp. Si sarebbe al più compensata una mancanza amministrativa senza inserire né elementi di rottura né innovazioni riconsegnando gli sforzi della lotta allo stesso meccanismo che aveva prodotto la mancanza di case contro la quale il quartiere ha iniziato a ribellarsi. Allora si è dovuto lottare ancora perché ad avere il potere di decidere dell’assegnazione delle case fosse il quartiere in lotta. Si sono dovuti immaginare nuovi criteri. E bisogna dirla tutta anche se suona disturbante: criteri di merito. Ma criteri di parte, della lotta; criteri di un merito antagonista a quello di chi ha il ruolo di governare un nostro diritto all’abitare scarso. Il merito di chi ha iniziato a sottrarsi al proprio ruolo di valutato dagli assistenti sociali addetti ad amministrare, imponendo tale o tal’altro comportamento, una risorsa che politicamente si vuole mantenere scarsa.
Quali identità?
Ma come restare dentro il rapporto valutativo per agirlo contro? Come rappresentare una minaccia effettiva capace di rompere alcuni equilibri di potere? Ancora, come stare dentro i comportamenti reali?
Le accuse di fascismo e populismo3 si sprecano contro Spotted Professori, ma ciò che più incuriosisce è l’avvio di procedimenti disciplinari sia da parte del Miur, che ha fatto partire un’indagine interna, sia da parte della magistratura che ha aperto un fascicolo per monitorare la pagina. Dunque, da un lato osserviamo un disordinato correre ai ripari dovuto alla preoccupazione che nascano strumenti di contro-valutazione, di giudizio; dall’altro lato registriamo uno spaesamento di fondo sulle forme di questa iniziativa, a quanto pare talmente bene ancorata ai comportamenti reali da render difficile una sua stigmatizzazione nel minoritarismo garantito della tollerabilità delle espressioni di movimento. L’assessore alla cultura del Comune di Bologna Ronchi infatti lamenta che “Solo 10 anni fa una qualsiasi organizzazione anche dell’estrema sinistra, che incitava alla delazione anonima facendo liste di prescrizione non era nemmeno immaginabile”. Bene – diciamo noi – vuol dire che a questo repertorio dell’estrema sinistra, rispetto al quale Ronchi si mostra nostalgico, erano insensibili tanti studenti e che, assorbitene le forme dal nemico, era inservibile per costituire una reale minaccia politica nei confronti delle controparti.
Il lavoro del provare a ricondurre a un margine di governabilità il rapporto valutativo viene tentato anche dal prorettore agli studenti dell’Alma Mater, Roberto Nicoletti il quale afferma che “per le segnalazioni e i casi di veri o presunti soprusi esiste la figura istituzionale del Garante di Ateneo”. Ma, ancora una volta, questo dispositivo, precisamente come i cosiddetti questionari di valutazione dei docenti, risulta essere interno sì al rapporto valutativo, ma appiattendosi su di questo, non ne inverte in alcuna maniera il verso. La segnalazione al Garante d’ateneo o tramite i questionari non esprime alcun potere di cambiare le cose, e non solo per la sua inefficacia come strumento. Infatti, nello specifico, i questionari di valutazione, sono funzionali ad atomizzare un corpo collettivo, quello studentesco, frammentandone i giudizi secondo formulari imposti e impedendone la riaggregazione sui principi della condivisione e della riconoscibilità dei giudizi espressi. Il nostro problema è invece quello di capire come stare nel rapporto valutativo per ricomporre un corpo collettivo nell’espressione di giudizio di parte e comune.
Quali Spotted e di chi?
Spotted Professori usa l’ambivalenza di un potere di valutazione per scagliarlo contro un’insopportabilità sistemica, perché poi non è tanto parlare di baronato che ci interessa. Le segnalazioni fino a ora puntano il dito laddove sono più pesanti i ritmi di studio e le forme di disciplinamento della vita studentesca (pre-esami, moduli, obbligo di frequenza, costi dei libri). Si tratta di un disciplinamento spesso scaricato tutto su una regolamentazione verso il basso, solo tra docente e studente.
Spotted Professori si muove certo su un terreno scivoloso, definito da criteri condivisi con l’architettura della governamentalità (valutazione, merito, demerito), ma questi dispositivi di disciplinamento, proprio in quanto strutturati sull’ambivalenza di attivare comunque una volontà individuale di affermazione di capacità, possono diventare anche contenitori di possibili istanze di classe quando la volontà di affermarsi si radica in uno scontro agito verso l’alto. Dalle promesse disattese dalle leggi del merito e della valutazione, sembra possibile approfondire i comportamenti delle soggettività governate da questi dispositivi, non tanto infrangendone il codice ma invertendone il verso.
A partire dal rapporto di potere docente-studente, sia in sede d’esame sia nell’aula di lezione, tutta una serie di livelli bassi di disciplinamento, si prestano a essere contro-valutati, non con la misura pseudo-oggettiva del dispositivo della governance ma dalla dimensione parziale e soggettiva del valore di parte che diventa giudizio e sanzionamento collettivamente agito. Bisogna sempre mirare all’attacco delle gerarchie di potere che si strutturano nei ruoli sociali che interpretiamo, senza negare che questi ruoli esistano e contino nelle loro forme.
Come smontiamo (dal basso, dall’alto ci ha già pensato il Bologna Process) il ruolo di questa docenza fondata su un potere di valutazione illegittimo? Come smontiamo il Miur che valuta la qualità di un buon professori? Ovvero come i professori si costruiscono il proprio Spotted Miur?
Uscire dall’anonimato
Molte critiche si sono soffermate sulla forma anonima delle denunce tramite Spotted, deprecando non liceità morale della forma. Ma, a ben vedere, non è molto conveniente nascondersi dietro la foglia di fico della “trasparenza”, la quale risulta essere tra l’altro un dettato fondamentale dello stesso regime di valutazione che si prova a mettere a critica. Infatti la trasparenza impone la pubblicità delle informazioni ma a partire da una asimettria dei rapporti di potere che mettono in circolo queste informazioni. In altre parole: se il MIUR non avesse la prerogativa di valutare non pretenderebbe di indicizzare tutte le pubblicazioni dei docenti.
Il rapporto docente/discente, per quanto ci si possa sforzare, è di per sé asimettrico. Succede che uno (il docente) detiene la parola, intesa anche come parola da trasmettere, e l’altro (lo studente) no. Per di più, in sede d’esame, comunque, uno valuta e l’altro è valutato. Allora il problema non è tanto non essere anonimi (essere pubblici) ma come ci guadagniamo uno spazio pubblico per il giudizio? È legittimo passare anche per l’anonimato se non si ha “per meriti di ruolo” il potere di porre una questione pubblica, di “essere pubblici”. Si tratta pur sempre di una strategia di uscita dall’anonimato in cerca di una parola, un giudizio, un’espressione capace di ricomporre un corpo collettivo.
In una certa maniera potremmo dire che se lo squilibrio attuale nei rapporti di potere impone che la forma della denuncia resti anonima, è però vero che è l’informazione ad uscire dall’anonimato, a rendersi riconoscibile e condivisibile. Come fosse il gesto di calarsi il passamontagna per praticare un linguaggio collettivo…
Collettivo Universitario Autonomo – Pisa
da Cua Pisa
Ascolta anche l’intervista a Gigi Roggero del collettivo Hobo realizzata ai microfoni di Radio Blackout all’interno della trasmissione Parole Ribelli:
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1 Valeria Pinto, Valutare e punire, Napoli, Cronopio, 2012; Valeria Pinto, La valutazione come strumento di intelligence e tecnologia di governo, in «Aut Aut», 360/2013 (consultabile on line all’indirizzo http://www.leparoleelecose.it/?p=13284)
2 “(…) Quello che il sapere dovrebbe fare è dire, rivolgendosi a coloro che vogliono lottare, ‘se volete lottare, ecco dei punti chiave, delle linee di forza, delle zone di chiusura e di blocco’ ”, Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005, p. 15.
3 Lunga è la tradizione nella sinistra bene italiana di accusare ogni sua sinistra di essere “fascista”, “diciannovista”, “squadrista” etc.). Quanto all’accusa di grillismo, non è forse (stato?) il fenomeno Grillo vettore di tante istanze di riscatto sociale frustrate in questo paese? Al di là della sua capacità di traduzione in politica esso è stato riferimento di spinte molto più ampie. Allora pensiamo non serva criminalizzare il grillismo come feticcio perenne di una reductio ad Hitlerum di ogni espressione “umorale” di riscatto non garbato. Lo stesso dicasi per i forconi. Bisogna piuttosto lavorare per direzionare le forme di questa saturazione. Coglierne l’ambivalenza, come dire.
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