Una rivoluzione quasi normale
Vittorio Sergi per Infoaut
Tunisi 11 marzo 2011
Da lunedì mattina la Kasbah di Tunisi è ritornata il centro simbolico del potere dello Stato. Era sempre stato così fino dai tempi del Bey, poi nel XX secolo gli invasori francesi vollero distruggere i simboli della legittimità araba e spostarono il centro del potere fuori dalla città vecchia. Dopo l’indipendenza Habib Bourguiba, il padre e padrone della nazione lo riportò al suo posto ma tant’è il palazzo del governo di Tunisi venne costruito un po’ più in alto, ai margini di una piazza moderna che voleva simboleggiare il distacco dalle forme di potere tradizionali.
Nemmeno più una scritta, nel luogo in cui decine di migliaia di persone venerdì 25 febbraio chiedevano a gran voce “libertà, dignità e lavoro” oggi sono tornate le mercedes blindate e le guardie del corpo, cancellate le scritte e scomparsi i manifestanti. Si vedono ancora le bandiere rosse con la luna e la stella, ma sono in spalla a dei gioviali turisti, avanguardie di un businness che vuole ricominciare, un settore economico fondamentale per la Tunisia.
E’ stata coperta da un velo di vernice anche la scritta “Hanchi forever in our hearts” dedicata al giovane Mohammed, ucciso dalla polizia nei primi scontri di quel venerdì indimenticabile. E’ su un muro del palazzo del primo ministro, sotto i raggi del sole spunta fuori, nero sotto bianco.
Tanta fretta di coprire i segni della storia recente mostra in realtà come la Kasbah, in modo essenzialmente spontaneo sia stata la manifestazione fisica dell’esistenza di un potere popolare, di una forza costituente che si è manifestata con forza nelle giornate insurrezionali di dicembre e gennaio. Se una caratteristica dirompente delle rivolte è stata la spontaneità, questa ha anche un lato problematico, ovvero la mancanza di cultura politica e di esperienza di auto-organizzazione di molti, specialmente nelle zone urbane . Le rivolte sono state sostenute e inventate spesso da gruppi di coetanei, collegati dai social network e dall’amicizia, che oggi a Tunisi come nelle regioni sono alla ricerca di modelli e forme di organizzazione alla loro portata.
A Tunisi sembra tornata la calma, niente grandi manifestazioni in vista ed anche l’8 marzo è passato piuttosto sotto tono, con un piccolo corteo in centro e quasi nessuna visibilità pubblica. Appena scende la sera le donne scompaiono dalle strade, fatta eccezione per i quartieri ricchi dove si vive all’europea e si gira in macchina.
Diversa è la situazione nelle regioni dell’interno dove è iniziata l’insurrezione contro il regime. A Thala, Kasserine, Sidi Bouzid, Regueb, Redeyef la tensione è palpabile. Le stazioni della polizia date alle fiamme nei primi giorni di gennaio sono ancora abbandonate e l’esercito presidia in forze le strade e gli edifici strategici, uffici pubblici, banche e industrie. Durante lo scorso fine settimana a Kasserine c’è stata una nuova ondata di saccheggi e attacchi a uffici pubblici e banche. Una parte dei giovani rivoluzionari attribuiscono queste azioni ai militanti dell’RCD, ma senza dubbio la povertà dilagante ed una conflittualità di classe spontanea hanno un ruolo fondamentale in questi episodi. In molte città si moltiplicano iniziative civiche di ricostruzione e di cooperazione spontanea per ripristinare i servizi interrotti e per presidiare imprese e negozi. Da tutti i centri medi e grandi stanno partendo carovane di associazioni, sindacalisti o semplici volontari verso il confine libico, per offrire un sostegno auto-organizzato alle decine di migliaia di profughi che l’UNCHR ed il governo tunisino non riescono da soli ad assistere.
Nei luoghi dove la rivolta ha sofferto più perdite di fatto le città vivono ancora una dualità di poteri, la polizia non è operativa e nei luoghi significativi del centro cittadino sono state costruiti dei monumenti e delle lapidi ai caduti con delle sottoscrizioni pubbliche.
Dal punto di vista delle trasformazioni politiche in atto lo scioglimento dell’RCD e la confisca dei suoi beni decretato ieri dal tribunale di Tunisi rappresenta un punto molto importante. I notabili del partito però hanno immediatamente fondato due nuove formazioni Al Watan (La Nazione) e il Nouveau Parti (Partito Nuovo) che fanno capo rispettivamente a due uomini forti del vecchio regime l’ex-ministro degli interni Ahmed Friaa e degli esteri Kamel Morjane, uomo di fiducia degli USA e successore designato di Ben Ali fino a poco prima della sua fuga. In totale sono già 32 i partiti politici che hanno ricevuto il riconoscimento legale, indice di una tendenza molto forte alla frammentazione delle forze politiche tunisine. Secondo Abdelhamid Hénia, professore di Storia all’università di Tunisi, gli avvenimenti in corso devono essere qualificati come una vera e propria rivoluzione per via della portata e della profondità dei cambiamenti in corso nella società ma dal punto di vista del potere costituente, esiste di fatto un vuoto dovuto anche al carattere inedito di questa trasformazione. Sono infatti praticamente assenti dei leader e delle organizzazioni egemoni, fatto nuovo anche per la cultura politica del paese.
La forza destituente del movimento, basata soprattutto nella conflittualità delle classi popolari contro la cricca di Ben Ali ed anche contro le élite, non ha successivamente prodotto delle istituzioni costituenti vere e proprie e di fatto la struttura della forma-Stato così come il sistema economico sono di rimaste in piedi. Questo aspetto centrale del processo in corso chiama in causa un altro protagonista fondamentale degli eventi in Tunisia, il sindacato UGTT, unico organo di rappresentanza del lavoro permesso sotto il passato governo e di fatto l’unica organizzazione sindacale nazionale. Il segretario generale Abdelsalem Jrad è stato un membro dell’RCD, sicuramente rappresenta un membro del vecchio establishment ed oggi comincia a ricevere critiche sia dall’interno del mondo del lavoro che dalla società civile per i suoi privilegi e per la struttura burocratica ed antidemocratica del sindacato.
Nei suoi quadri intermedi e nella base, l’UGTT ha partecipato all’insurrezione di gennaio, ma a livello nazionale ha scelto la strada di vertenze settoriali invece di chiamare ad uno sciopero generale quando le piazze chiedevano le dimissioni del primo governo provvisorio di Ghannouchi e non ha ancora affrontato di petto il grave problema della disoccupazione e dello statuto delle imprese straniere che hanno fatto enormi profitti accettando le regole della corruzione sotto il passato governo. Anche un membro storico dell’ UGTT, Adnane Hajji sindacalista dei minatori di Redeyef, i primi a ribellarsi a Ben Ali con lo sciopero nelle miniere di fosfati della regione di Gafsa nel 2008, è critico verso la mancanza di una solida strategia politica ed economica della rivoluzione. Egli è forse l’unica figura di spicco di questo movimento ma dietro la forza del movimento sindacale si agita il mondo non organizzato della disoccupazione di massa che ha fatto sentire la sua voce soprattutto attraverso i saccheggi, gli scontri con la polizia e l’immigrazione clandestina.
Le difficoltà del settore sindacale sono emblematiche nella regione di Kasserine dove accanto a un tasso di disoccupazione che in alcuni centri di montagna come Thala (30.000 abitanti) tocca l’80%, scopro la difficile situazione delle operaie del settore tessile. Si moltiplicano infatti le testimonianze riguardo agli stipendi da fame, circa 40 euro al mese per più di 8 ore al giorno, che verrebbero pagati alle operaie delle fabbriche tunisine fornitrici di Benetton. Nella sola regione di Kasserine sono presenti almeno 45 imprese che impiegano almeno 3000 persone in questo settore. Il meccanismo di sub-appalto formalmente svincola l’impresa italiana dalla responsabilità verso gli operai, ma di fatto i padroni tunisini speculano sulle spalle di giovani senza prospettive. La prima risposta che si sta diffondendo è il rifiuto massiccio del lavoro, diverse testimonianze indicano come molte lavoratrici, dopo il 14 gennaio abbiano semplicemente abbandonato il posto di lavoro senza preavviso.
Nelle prossime settimane è possibile ma non sicuro che un lavoro di inchiesta operaia e di auto-organizzazione possa iniziare in questi territori per costruire una prospettiva di lotta di classe all’altezza della difficile situazione. Il ricatto della disoccupazione esercita una pressione formidabile sulla generazione che ha messo la propria vita in gioco in questa rivoluzione tunisina e che oggi non vede ancora una via d’uscita dalla situazione contro cui si è ribellata. Nei bar lungo le strade fin dalle prime ore del mattino centinaia di giovani sorseggiano lentamente l’unico caffè che possono permettersi nella giornata, possibilmente con tanto zucchero. Però a differenza di prima dell’insurrezione, si parla di politica, circolano le idee e le persone e si fanno progetti. Il discorso più condiviso dagli attori di questa rivoluzione è che le rivendicazioni di libertà politica e sociale siano state prioritarie fino a questo punto e che la difesa del processo costituente e la riforma della giustizia e della polizia sia un passaggio prioritario. In realtà lo scioglimento della polizia politica ad esempio è un passaggio alquanto controverso, di fatto le inchieste sulle responsabilità penali degli assassini di manifestanti non hanno portato ancora a nessuna sanzione se non al pensionamento anticipato di una cinquantina di quadri del ministero degli interni ed all’arresto dorato del responsabile della sicurezza di Ben Ali.
Inoltre la polizia continua ad utilizzare le maniere forti soprattutto contro gli abitanti dei quartieri popolari e delle zone marginali delle province. L’RCD poteva contare su quasi due milioni di iscritti su dieci milioni di abitanti e come battuta oggi ci si da dell’ “indic” abbreviazione di “indicateur”, spesso addirittura volontario, ovvero le spie del regime, presenti in ogni spazio pubblico e posto di lavoro, tratto distintivo di una cultura dell’ordine pubblico e del sospetto che aveva permeato la società e che non può tramontare in poco tempo. Resta poi all’orizzonte l’incognita fondamentale di come la società tunisina reagirà alle forti pressioni dell’economia neo-liberale che continua ancora oggi a determinare le condizioni di vita della popolazione.
All’orizzonte la guerra civile in Libia che occupa giorno e notte i televisori di tutti i caffé e luoghi pubblici e aumenta la tensione anche all’interno della Tunisia, la minaccia di un intervento militare occidentale o di un allargamento del conflitto oltre confine sono molto sentite. Se il rais di Tripoli non cadesse, anche il senso del ciclo di lotte aperto a Sidi Bouzid potrebbe cambiare. E intanto all’orizzonte c’è il 20 marzo, festa dell’indipendenza, ancora tutta da conquistare.
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