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Via Balbo si ama? Né spaccio, né madama

Da qualche settimana abbiamo intrapreso una serie d’iniziative in via Balbo, contro la trasformazione del luogo in un mercato a cielo aperto e in un luogo devoluto al profitto. Nella fattispecie, la merce che circola con un impatto sempre maggiore, in termini di volume di denaro ed estensione della clientela, sono alcune sostanze. In alcune occasioni nel corso della settimana, soprattutto il weekend, abbiamo appeso striscioni contro questo tipo di attività e mantenuto una presenza volta ad impedire lo smercio di sostanze nell’area pedonale, che si trova a ridosso del centro sociale, di una palestra di quartiere, di due scuole primarie (un asilo nido e una scuola elementare). Abbiamo montato gazebo, offerto vin brule ai passanti, spiegando a voce o con dei volantini il senso e le ragioni della nostra iniziativa.
Se da un lato le famiglie e i genitori dei bambini (italiani e stranieri) hanno mostrato vivo apprezzamento per questa campagna, sostenendo che da tempo il quartiere ne sentiva la necessità, non sono mancate reazioni imbarazzate o indispettite da parte di altre persone. Sapevamo perfettamente che i nostri presidi avrebbero potuto creare dei musi lunghi, perché sappiamo quanto profonda sia l’assenza di dibattito politico sostanziale intorno a questi temi, e quanto radicata la tendenza a concepire l’antagonismo come assunzione di pose precostituite, avulse dalla realtà, dalle sue contraddizioni e soprattutto dal desiderio di affrontarle per cambiare le cose.
Abbiamo creduto utile, allora, tentare di entrare nel merito delle ragioni che ci spingono con convinzione non soltanto ad intraprendere questa piccola ma importante battaglia, ma a promuovere con urgenza una meditazione critica rispetto ad alcuni gravi fraintendimenti e luoghi comuni propri della sinistra, più o meno “rispettabile”, “alternativa” o “radicale”. Speriamo che ciò che segue possa rappresentare un punto di partenza per una discussione non banale con tutti coloro che hanno un desiderio di discussione e confronto. Per chi, invece, non riesce fin d’ora che a blaterare di “cose da sbirri”, “ronde” e “fascisti rossi”, quanto segue può rappresentare una prima, elementare alfabetizzazione politica sull’argomento.

Commercio e consumo. Intraprendere una battaglia contro lo smercio di sostanze in un luogo della città che si concepisce come liberato non comporta in alcun modo una presa di posizione contro il loro consumo. Non una parola è stata spesa, né vuole esserlo, riguardo all’uso che ognuno intende fare del proprio tempo. È del tutto fuorviante, quindi, vedere nella campagna contro lo spaccio in via Balbo un’iniziativa direttamente o indirettamente rivolta contro l’uso di sostanze. Del resto a non pochi, tra i partecipanti ai presidi in questione, appartiene questa pratica. È una contraddizione? Non crediamo: ciò che combattiamo è l’assoggettamento di un luogo di ritrovo, e soprattutto di un’area urbana attraversata da esperienze di autogestione, ad attività approntate da imprese private dedite al commercio, non la possibilità in generale di usare o di procurarsi/prodursi determinati beni.
Non tutti coloro che fanno uso di un bene prodotto con la trasformazione della natura e con il lavoro umano concordano con il modo in cui tale bene viene prodotto e distribuito nella società capitalista in cui viviamo, né con le implicazioni sociali che il suo commercio ha o può avere nel luogo specifico in cui viviamo e tentiamo di costruire spazi di condivisione. Questo vale per le droghe come per qualsiasi altra cosa. Un conto è discutere, come è sempre possibile fare, sull’utilità o la nocività di qualcosa: delle sostanze come dell’alcol, della bicicletta come delle automobili, di questo o quel prodotto agricolo o tecnologico, e così via; un altro sul modo di produzione capitalista in cui ciascuna di queste entità è una merce prodotta attraverso lo sfruttamento e distribuita attraverso forme di speculazione e assoggettamento delle vite e dei territori ad istituzioni legali o illegali.
Non abbiamo mai creduto che il modo migliore per impedire lo sfruttamento minorile sia il boicottaggio di una marca di scarpe, o che per contrastare la repressione dei “sindacalisti colombiani” sia intelligente astenersi dal bere coca-cola. Allo stesso modo nessuno di noi pensa di astenersi dall’uso di sostanze – qualora intenda farne uso – “per non finanziare le mafie”. Semmai occorre individuare le istituzioni e le imprese che assoggettano la creatività e i comportamenti al profitto e combatterle ove possibile, con i mezzi di cui disponiamo. La nostra ostilità è animata da un desiderio di cambiamento e da un’appartenenza di classe. Per questo è lungi da noi voler fare i moralisti rispetto a chi è ultimo anello di una catena che funziona come un’azienda (o tanto meno verso chi, fuori da qualsiasi azienda, compra o produce e distribuisce, semplicemente, in cerchie ristrette). Quando diciamo “spaccio” intendiamo l’azienda dello smercio come tale, l’insieme dei suoi rapporti – di cui, indubbiamente, anche l’ultimo anello della catena è purtroppo una parte.

Zone liberate. I nostri presidi, d’altra parte, non hanno la pretesa né la volontà di rimuovere il commercio delle sostanze da questo mondo, ma di difendere una zona liberata da interessi e rapporti che nulla hanno a che fare con la costruzione di un’alternativa alle relazioni di potere esistenti. Che cos’è una zona liberata? Non è facile dirlo. In una società come la nostra, questa espressione rischia di essere una contraddizione in termini: il capitale tutto avvolge e tutto racchiude, essendo non un’istituzione, non una persona né un gruppo o una classe, ma un tipo di relazione sociale. Non è sufficiente organizzare attività antagoniste in un’area urbana per “liberarla” da tali relazioni; né è sufficiente occupare uno stabile per creare una zona effettivamente autonoma. Le relazioni sociali restano in vario modo influenzate dalle logiche capitaliste anche nei quartieri o nelle città, nelle vallate o negli edifici occupati che si contrappongono in vario modo e con concezioni diverse a questo stato di cose. Non esisterà zona realmente liberata finché il capitalismo non sarà distrutto e sostituito da forme di relazione che sono ancora da costruire.
Ciò che chiamiamo “zona liberata” è, quindi, una zona in cui è in corso una lotta di liberazione dalle relazioni capitaliste; un luogo in cui si sperimentano tattiche e strategie per liberarsi da queste relazioni e dal sistema di potere che le preserva. Le zone liberate, come può essere un centro sociale (se politicamente antagonista), o la zona in cui le sue attività si irradiano, sono aree dove non si china la testa, si organizzano lotte e si immagina un mondo diverso da quello attuale. L’attività politica che contraddistingue una zona di questo tipo non può progettarsi in conformità alla legge. Le zone liberate sono spazi autogestiti, dove la legittimità delle pratiche non ha nella legge il suo punto di riferimento, e dove ci si rapporta, almeno in tendenza, a partire dal valore d’uso anziché di scambio, ci si orienta alla condivisione anziché al profitto. Proprio per questo non è né può essere una zona franca, dove un’impresa illegale può arbitrariamente installarsi per far fruttare i propri interessi sullo sfruttamento di una manovalanza oppressa, approfittando cinicamente dei risultati, in termini di liberazione dal controllo, delle pratiche di resistenza di chi si contrappone a questo stato di cose.

Spaccio e potere. Le attività di commercio di sostanze non sono attività volte alla liberazione dei luoghi, ma all’assoggettamento di essi a dinamiche di potere. Il mondo delle relazioni capitalistiche è fatto di connessioni invisibili, non per questo meno violente. Se l’impresa legale si basa sulla violenza delle forze di polizia che impongono il dettato del codice civile e di quello penale, e tutelano la proprietà privata, quelle illegali si spartiscono mercato e territori, ossia esercitano il loro diritto alla proprietà e quindi alla privatizzazione di beni e profitti attraverso il fatto compiuto. L’uso della forza, se non è necessario e quindi evidente in un dato momento, è sempre presupposto, sempre latente, pronto a manifestarsi. Non cadiamo nell’errore di confondere l’aspetto innocuo del ragazzo che ci vende qualche grammo con il pericolo che cela il capitale che è alle sue spalle, il cui obiettivo resterà sempre quello di allargarsi in termini di dominio di pratiche e luoghi. L’uso della violenza è il fondamento del capitalismo legale e illegale. Dobbiamo riconoscerne, in entrambi i casi, le fisionomie minacciose anche quando apparentemente o inizialmente appaiono con un aspetto sornione: esso resterà tale soltanto finché nessuno ne metterà materialmente in discussione gli interessi soggiacenti.
Gli spacciatori possono avere diverse storie personali, diversa origine geografica e occupare una diversa posizione nella gerarchia della propria azienda. Alcuni sono sfruttati, altri sfruttatori; e, come sempre nella vita, soprattutto in una società complessa, ogni cosa e ogni persona va vista in controluce, nelle sue innumerevoli contraddizioni. Questo non significa che si possa prescindere dal ruolo sociale che ciascuno, effettivamente, occupa. I nostri presidi non sono rivolti contro le persone: questo l’hanno capito tutti (tranne chi è in malafede), a cominciare dai diretti interessati. Tuttavia, anche la forza-lavoro oppressa può e deve confrontarsi con il suo prossimo, dialogare ed essere ricettiva, perché di tale forza-lavoro ne esiste ovunque, e l’individualismo esasperato o l’indifferenza a esigenze collettive non possono essere considerate manifestazioni di particolare apertura mentale. Lo diciamo, in grande, rispetto agli operai del cantiere Tav di Chiomonte; lo diciamo – più in piccolo – rispetto ai commercianti che insistono a voler farsi scudo di pratiche e zone liberate per portare avanti il proprio profitto.

Spaccio e polizia. Creare un mercato di sostanze di rilievo sempre più ampio (che da tempo ha iniziato a travalicare ampiamente lo stesso quartiere) a ridosso di un centro sociale, è di per sé una provocazione e un gesto di disprezzo verso le lotte e le attività che in quel centro si organizzano. Questo soprattutto perché, se da un lato chi oggi lucra su via Balbo, in grande e in piccolo, si fa vigliaccamente scudo della nostra presenza, domani può tranquillamente essere cavallo di Troia per il ristabilimento del controllo poliziesco su tutta o su parte dell’area. Quale scusa migliore, per le forze dell’ordine, di un’attività simile in quel luogo, per di più a ridosso di scuole primarie e dell’infanzia, per far fare al poliziotto la parte dell’angioletto e giustificare una stretta verso una zona rossa che negli anni si è radicata a due passi dal centro cittadino?
Questo, naturalmente, agli spacciatori e ai loro capi (e a molti dei loro clienti) non interessa minimamente. Cosa può loro interessare di questi tristi e noiosi aspetti “politici”, “sociali”, “utopistici”? L’importante è guardare al proprio piccolo orticello (grande nel caso dei fornitori). Ai capoccia, anzi, non importa neanche se i “dipendenti” finiranno in galera, ma è così che funziona, the racket must go on: in fondo, la manodopera del mercato illegale è pura merda per chi la sfrutta, merda “illegale” anche per lo stato italiano che la discrimina e infine la ingabbia, due volte sottomessa e sfruttata; un po’ di galera (per i sottomessi) è messa nel conto dai loro padroncini, anzi: magari sarà proprio il furbetto di turno a mettersi d’accordo con chi di dovere, così che le mostrine di qualcun altro avranno lo scatto di carriera e salva la reputazione. Qualche giornalista potrà gridare vittoria, chiedere più polizia nel nostro (e in altri) quartieri e, naturalmente, non farsi mancare di accusare i compagni di connivenza o contiguità con questi fenomeni, il che non fa mai male.
Si noti che il moralismo istituzionale sul consumo, che indubbiamente esiste e ha caratteri propri, ancora una volta si distingue da quello sul commercio. Il commercio viene da sempre condannato dalle istituzioni legali, ma sempre, regolarmente, favorito e promosso. Si pensi all’azione di Israele, che favorisce lo smercio di sostanze nei territori palestinesi e a Gerusalemme est, per inquinare le relazioni sociali e distogliere i giovani dalla voglia di continuare a resistere. Si pensi all’uso che gli stati dell’America Latina hanno fatto, nei decenni, del loro braccio armato illegale (i narcos) contro le guerriglie comuniste e i progetti di autogestione e autogoverno nelle città e nelle campagne. Si pensi, senza andare tanto lontano, ai legami tra stato e narcotrafficanti dal nord a sud dell’Italia, almeno dagli anni Sessanta e Settanta. Se da un lato si trattava, già in quell’epoca, di accumulare capitali da investire nella devastazione democristiana della penisola (poi berlusconiana, oggi renziana: cambiano soltanto gli anni sul calendario, e i nomi dei clan), dall’altro si trattò di avere una rete di picchiatori e informatori in ogni quartiere, per debellare ogni resistenza antagonista, dall’hinterland milanese alla Sicilia.
Ciò che oggi ha l’aria innocente di un modo per divertirsi e comprare il proprio divertimento, domani potrà diventare violenza contro di noi e contro le esperienze di lotta vissute dal quartiere; né possiamo pensare che l’impresa illegale assuma tratti politicamente diversi se la manodopera o altri livelli della sua gerarchia sono stranieri. Non ci interessa se sarà l’affarista a iniziare, sottraendo al quartiere i suoi spazi non mercantili (lavorando d’intesa con il capitale legale della gentrification), o il graduato cui un giorno ordineranno di fare un po’ di spettacolo per creare ghetti attorno a chi aveva cercato di uscirne. Non subiremo un simile processo in silenzio, come altri hanno fatto (a loro spese) in altre città italiane. Sappiamo bene che la forma attuale in cui avviene la vendita di droghe (di qualsiasi tipo e, torniamo a ricordarlo, questo non implica una presa di posizione sulla scelta del consumo) è il cavallo di Troia per la militarizzazione e l’assoluta sottomissione a logiche di profitto. Sappiamo anche che il mercato attuale della droga è una delle maggiori fonti d’informazione e controllo per le istituzioni repressive. L’antidroga controlla le comunicazioni di una fetta enorme di popolazione: là dove si instaura lo spaccio, la polizia ascolta; frequenta in borghese, sotto mentite spoglie, le “piazze”; usa gli spacciatori, grandi o piccoli, come terminali di patti e ricatti, come confidenti e informatori.

Razzismi di destra e di sinistra. Difendere gli spazi liberati da questi rapporti malsani e da questi poteri invadenti significa, inoltre, difenderli dall’irruzione della strumentalizzazione reazionaria che da sempre accompagna la militarizzazione invisibile del racket e precede quella spettacolarizzata delle questure. Là dove una proposta antagonista di aggregazione non è in grado di guardare alla realtà e interpretarne le implicazioni sociali, economiche, politiche – prendendo conseguentemente una posizione e passando all’azione – si apre il vuoto politico in cui s’insinuano i partiti, e con essi gendarmi e poliziotti. In particolare, la questione puramente economica e di classe che descrive i meccanismi dello spaccio come settore aziendale nella nostra città, diventa una questione di colore della pelle, di status di cittadinanza, di origine geografica o di accento, di sbarre, divise e deportazioni. Dobbiamo criticare i meccanismi di potere e combatterli nella loro materialità, senza ideologia – vale a dire nelle loro nude e crude implicazioni sociali.
Queste implicazioni sono talmente nude, e talmente crude, da svelare non soltanto la strumentalità delle campagne della destra, ma anche l’ipocrisia della “sinistra” istituzionale e di gran parte del “movimento”. Sia pur in buona fede, non pochi faticano a concepire come problematica una qualsivoglia attività se, eventualmente, è svolta da un migrante, da un nomade, da uno “straniero”. Questa attitudine, per quanto può talvolta essere innocente nelle sue cause psicologiche (dovute a superficialità), non lo è mai nelle sue conseguenze. La destra fascista, leghista o di governo cerca sempre più astutamente di accantonare l’antico discorso propriamente razzista (quello sull’inferiorità della razza, che viene silenziosamente presupposta ma raramente nominata) per fare leva sul fenomeno correlato ma differente della xenofobia. Ciò che viene attaccata è la diversità, la differenza come tale; ciò che si cerca è un’identità immaginaria e mitica, una “comunità” basata su una “normalità” inesistente; il che, in maniera ancora più moderna, tende oggi a sublimarsi asciuttamente nella pura differenza dei comportamenti, nella devianza. È per questo che una fascista contemporanea come Marine Le Pen può tranquillamente appellarsi anche ai musulmani allineati con una certa idea di Francia.
Chi professa, senza accorgersene, un vero e proprio, patente e “antiquato” razzismo è, invece, proprio la sinistra politically correct che, nel suo nauseante paternalismo pietistico, presuppone una tale inferiorità psichica o culturale dello straniero, che con esso non è possibile misurarsi politicamente come faremmo con qualsiasi altra persona. Cerchiamo di essere ancora più espliciti: avere “pietà” per i migranti è razzista. È espressione di quell’odioso senso di superiorità coloniale che ereditiamo come europei dall’illuminismo e dall’umanesimo che, nei secoli, fecero del maschio bianco adulto il metro di paragone dell’umanità intera. È il razzismo che giustificò la riduzione delle terre di nuova scoperta a prigioni a cielo aperto in nome del cristianesimo, il colonialismo ottocentesco in nome del progresso e le guerre “contro il terrorismo” in nome dell’instaurazione della democrazia o di forme fasulle e ipocrite di emancipazione; è l’idea per cui l’africano va aiutato perché è non soltanto inferiore economicamente e giuridicamente, ma globalmente – ossia, anche se non lo si ammetterebbe mai, mentalmente.
Questo razzismo terribile e profondissimo ha spazio, nei linguaggi come nei gesti microscopici o macroscopici, anche nei movimenti, nei posti occupati, nei partiti di sinistra e nei loro elettori. È l’idea per cui lo schiaffo che darei all’italiano o al bianco che commette un’ingiustizia, non lo dovrei dare al nero o al migrante. È l’idea secondo cui, quando parlo al migrante, devo assumere una particolare espressione del volto, simile a quella che rivolgo a un bambino; e non potrò mai ridere o scherzare di lui, mentre posso farlo di chiunque altro. Perché l’antirazzista malinteso non sa mettersi come dovrebbe, in ultima analisi, alla pari con lei o con lui, non sa starle o stargli di fronte in modo sincero: perché è turbato da una cultura razzista che ha ereditato e non riesce a elaborare criticamente, per distanziarsene; è sempre, segretamente, in imbarazzo. Mettersi alla pari, da esseri umani, con tutti gli esseri umani: questo è l’unico antirazzismo che riconosciamo. “Proletari di tutti i paesi unitevi” non è “proletari di tutti i paesi, compatitevi”; e neanche: “consumatori di x o y del sabato sera, compatite gli schiavetti stranieri da cui desiderate rifornirvi, per pura comodità e agio, sotto casa”.

Ribaltare la situazione. Trattare qualsiasi essere umano da pari a pari non significa, d’altra parte, non rendersi conto che, qualora si tratti di migranti, un’uguaglianza che prescinda dal dato sociale e giuridico – puramente astratta – non può essere presupposta. Il migrante porta con sé una serie interminabile di contraddizioni. L’eredità culturale, la nostalgia, la distanza dagli affetti, lo sradicamento sociale, le difficoltà con la lingua, quelle economiche e, non ultimo, l’abitudine allo sguardo ostile dei “cittadini di destra” e a quello velato di compiacente e malsana superiorità dei “cittadini di sinistra”. Soprattutto, oltre alle contraddizioni storiche e a quelle di classe, i migranti vivono la discriminazione giuridica: non sono cittadini e lo stato ha approntato per loro una sfera predestinata della legge, un accesso differenziale, e non certo preferenziale, al diritto. Il modo in cui una mobilitazione concreta contro lo spaccio viene portata avanti deve tenere conto nella sua analisi di tutti questi aspetti e di tutte queste contraddizioni, qualora migranti vi siano a qualunque titolo coinvolti: e non per senso di cortesia, ma perché siamo sfruttate e sfruttati e intendiamo comprendere e comprenderci, e se possibile agire di concerto, con tutte le sfruttate e gli sfruttati.
Proprio per questo, proprio per questa esigenza squisitamente politica di intesa tra oppressi, anche la persona più discriminata, se messa di fronte a un problema che coinvolge persone che condividono con lui o con lei un comune destino di classe è chiamata alla comunicazione e all’ascolto: perché i piani del capitale fanno sempre uso di oppressi contro altri oppressi, e prestarsi a questo gioco non è accettabile da una parte, come non lo è dall’altra. I nostri presidi sono presidi ostili a ogni xenofobia o razzismo di destra e di sinistra, ad ogni tentazione, anche popolare, di utilizzare il problema oggi esistente per dividere chi sul territorio vive analoghe contraddizioni di classe. Sono presidi ostili anche verso chi, per conservare il proprio attuale lavoro e il proprio attuale guadagno (piccolo o grande che sia) non è disposto ad ascoltare la richiesta di un quartiere che non apprezza semplicemente la scelta cinica del luogo su cui la sua azienda ha deciso di svolgere la sua attività.
Molti hanno capito, altri capiranno; ma chi mantiene un atteggiamento di indifferenza alle nostre iniziative, oltre a mostrare palese disprezzo per il percorso politico legato al centro sociale di cui di fatto si fa scudo, mostra anche una buona dose di imbecillità. Abbiamo avuto modo di parlare di questa questione con molte persone del quartiere, e abbiamo dovuto stupirci di quanto profonda sia già divenuta l’ostilità di tanti abitanti nei confronti di chi pratica questa attività in quel luogo. Ben pochi vogliono questo tipo di scenario in quell’area, così particolare per la vita del quartiere, se si escludono i clienti (e diversi anche tra loro si rendono conto del problema, tant’è che alcuni hanno smesso di rifornirsi lì). Abbiamo anche sentito giudizi pesanti, affermazioni che rasentavano la xenofobia, e ne abbiamo approfittato per lunghe discussioni che hanno dato buoni frutti: non sempre è difficile distruggere i luoghi comuni, se si usa l’umiltà e si cerca un’intesa nell’analisi critica comune all’attuale potere, analizzando insieme e con pazienza i problemi, i rapporti e le connessioni.

“Cose da leghisti”. Contro la Lega Nord abbiamo più volte manifestato e manifesteremo, e alcuni di noi affrontano per quei fatti procedimenti giudiziari. Abbiamo scritto e detto, abbiamo agito, stiamo agendo, anche attraverso questi presidi; perché il modo migliore per rendere inutili tutte le manifestazioni antifasciste o antileghiste è ignorare la realtà sociale contraddittoria che esse tentano e troppo spesso riescono ad attraversare e curvare in senso deprimente/opprimente e reazionario. Non si tratta di riciclare contenuti “di destra” e riverniciarli in senso “antagonista”; al contrario, occorre contrapporre una visione completamente diversa, che può essere capita dalla gente e inquadrata in una critica reale, che (indirizzandosi, nel caso dello smercio di sostanze, contro il processo di cui lo spacciatore è parte, più che contro lo spacciatore stesso) sappia sottrarre terreno alle possibili strumentalizzazioni dei partiti. Occorre creare la consapevolezza che affrontare le problematiche metropolitane senza politicanti, poliziotti e fascisti è possibile. Il fatto che la questione delle relazioni sociali che evolvono nei quartieri (non sempre in modo positivo) sia stata lasciata negli anni alla propaganda di destra e ai partiti di sistema non significa che tale questione gli appartenga.
Creare processi di critica e mobilitazione contro le trasformazioni urbane e l’assoggettamento al racket degli spazi delle nostre città non è un optional, di cui qualche autonomo in cerca di violenza è diventato improvvisamente fan sfegatato. È un dovere irrinunciabile per chiunque si dica o si concepisca antifascista e antirazzista, pena il non essere effettivamente tale. Chi difende, direttamente o indirettamente, lo spaccio come fenomeno economico, tanto più quando esso tenta di radicarsi in una zona liberata, non è né un libertario né un ribelle, né un progressista né un “inclusivo”, ma il migliore alleato dello stato, dei partiti di potere e della polizia. Deve esistere la possibilità di divertirsi, di comprendersi reciprocamente, di trovare soluzioni autogestite, ma anche di contrapporsi per davvero, nei fatti e non a parole (ed efficacemente) (a) a chi lucra economicamente sui territori (b) a chi lucra politicamente sui problemi dei territori. Non è che i compagni “sembrano leghisti”: sono i leghisti (e i loro simili) che, nel tempo, hanno sottratto alla “sinistra”, e alle vecchie strutture dell’antagonismo, il rapporto con i territori che tentano di incanalare verso la xenofobia e l’autoritarismo, e che noi dobbiamo incanalare verso la critica reale, la solidarietà e la rivolta.

Cose da compagni. La memoria, spesso, aiuta. Noi non dimentichiamo Fausto e Iaio, compagni del Leoncavallo di Milano assassinati il 18 marzo del 1978, proprio mentre conducevano un’inchiesta sullo spaccio nei quartieri di Casoretto e Lambrate e sui legami a cui, anello dopo anello (come sempre) quel commercio conduceva. Sebbene magistratura (delle inchieste si occupò un certo Armando Spataro) e polizia avessero tentato di derubricare l’evento a semplice delitto fascista, le inchieste indipendenti del centro sociale mostrarono che gli elementi di destra che avevano premuto otto volte il grilletto erano legati al commercio di sostanze e, proprio perché legati a quel commercio, avevano trovato l’attività di inchiesta dei due giovani militanti troppo pericolosa. Non a caso, tutti i nastri su cui i due avevano inciso le interviste realizzate nei quartieri furono trafugate subito dopo la loro morte. I racket sono sempre stati nemici dei rivoluzionari, perché i racket non esisterebbero nel mondo che i rivoluzionari vogliono creare.
Anche i rivoluzionari sono sempre stati nemici del racket. Il 19 giugno 1978, nel quartiere romano di Centocelle, in via delle Begonie 9, alcuni compagni spararono e uccisero Giampiero Cacioni, spacciatore di eroina. Il 3 novembre dello stesso anno venne ucciso Maurizio Tucci, in un bar di via Clelia, sempre a Roma. Il volantino di rivendicazione lo indicò nuovamente come spacciatore. Il 7 novembre 1978, a Milano, un gruppo di compagni uccise, nel quartiere Gratosoglio, lo spacciatore Giampiero Grandi. Il 27 novembre è la volta di Saaudi Vaturi, in via Tuscolana a Roma; poco dopo, i compagni attaccarono a colpi di pistola una nota piazza di spaccio, lo Speak Easy del quartiere Appio Latino, uccidendo Enrico Donati. Una campagna dura che contrappose le compagne e i compagni milanesi e romani alle reti dello spaccio di eroina che stavano prendendo diversi quartieri sotto controllo, non di rado con l’appoggio di bande fasciste e servizi segreti intenzionati a usare gli spacciatori come manovalanza per pestaggi e omicidi, o come utili informatori.
Oggi la situazione è molto cambiata: le logiche e le forme del consumo, da un lato, sono mutate – benché l’eroina arrivi ancora a a diffondersi sulle piazze di spaccio quando esse si radicano nel tempo, inasprendo in senso tutt’altro che conflittuale le tensioni sociali nei territori – il contesto sociale e storico è completamente diverso, ed anche la composizione sociale delle organizzazioni del racket ha subito dei mutamenti, così come i micro o macro-rapporti tra racket e polizia, e tra narcotraffico e stato, si sono evolute e sono cambiate, benché siano tutt’altro che cessate. I mutamenti avvenuti, in ogni caso, non hanno in alcun modo reso il racket compatibile con un utilizzo libero e antagonista degli spazi urbani.
Facciamo un esempio più recente tra i tanti, soltanto perché è il più noto.
A Roma, tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, alcuni spacciatori rivendicarono il “diritto” a fare commercio in una delle strade più intensamente vissute dai movimenti antagonisti della città. Qualcuno decise di stringere compromessi che, ovviamente, non sarebbe stato in grado di gestire nel tempo. Chi si oppose, tra i compagni, fu cacciato in malo modo; e non aggiungiamo altro, perché non è la nostra città, anche se ci sarebbe molto da aggiungere. Nel tempo diversi “imprenditori illegali” che da allora frequentarono con sempre maggiore intensità la via non disdegnarono di manifestare apertamente le loro simpatie fasciste. Alcuni dei capoccia/geni di quel tempo, che furono dietro a quelle lungimiranti scelte, diventarono in seguito politicanti. Oggi quella via è per gran parte del tempo occupata da gruppi di spacciatori che minacciano chiunque non vada loro a genio, al punto che le stesse attività politiche e culturali faticano ad essere portate avanti tra continue intimidazioni, violenze e retate della polizia.

Vuoto mentale. Non pensiamo che le nostre analisi siano sempre corrette, né che lo siano mai totalmente. Possiamo sempre sbagliarci su uno o molti punti, ma è necessario che ce ne venga spiegato effettivamente il motivo perché le critiche ci risultino quantomeno comprensibili. Ad oggi, dopo oltre un mese di presidi in via Balbo, non è stata avanzata una critica compiuta e articolata degna di questo nome. Sono già partiti gli insulti che ci attendevamo: sbirri, fascisti, leghisti, squadristi; ciò che ci lascia completamente indifferenti, perché non fanno che evidenziare la nullità di chi li proferisce. Soprattutto, non si tratta di critiche, né di argomentazioni: dire che i nostri presidi “somigliano” a quelli della Lega è una pura bestialità; dire che siamo brutti e cattivi perché ce ne stiamo al freddo e al buio tutti vestiti di nero non rileva alcun interesse; sostenere che l’iniziativa va bene, ma deve essere più “inclusiva” verso chi dovrebbe allontanare la sua attività è, se non una contraddizione palese, quanto meno una proposta oscura, che andrebbe meglio spiegata (ciò che per ora non è avvenuto). Dire che è le nostre iniziative potrebbero essere inefficaci serve a poco se non si propongono alternative credibili e concrete.
C’è addirittura chi ha sostenuto che la parola “spaccio” non andrebbe usata perché è un vocabolo… leghista. Simili affermazioni sono puramente grottesche. Dimostrano quanto profonda sia la mancanza non vogliamo dire di contenuti, ma anche soltanto di contatto quotidiano con la realtà che esiste negli ambienti da cui simili affermazioni provengono. Non varrebbe spendere una parola su simili amenità se esse non mostrassero così chiaramente che una certa identità sinistrorsa è ormai vissuta puramente in negativo, nella pura e semplice consegna dei linguaggi ordinari, delle storie e dei mondi della vita della gente comune al potere e a chi lo difende, nella completa incapacità di articolare sull’esistente e sul nostro tempo una prospettiva che abbia un diverso segno politico. Il corollario di un simile mutismo è l’impotenza; e il corollario dell’impotenza è la fine di qualsiasi resistenza all’avanzata dei nuovi fascismi nei nostri quartieri e nelle nostre città. Anche se i vissuti e i linguaggi degli oppressi venissero a cercarci, oggi, non ci troverebbero; e di questo – si badi – soltanto noi dovremo in futuro portare la responsabilità.
Vediamo come molte persone “di sinistra” o “libertarie”, più o meno “istituzionali” o “radicali” (in Italia come altrove) siano sempre più ostaggio della cultura accademica e intellettualistica del politicamente corretto o della sua volgarizzazione divulgativa, là dove importante non è il problema che affronti, ma come lo nomini: esattamente ciò che le masse oppresse di ogni parte del mondo e di ogni tempo odiano, giacché questo ricorda terribilmente l’ipocrisia di ogni potere – anzitutto di quello liquido e benpensante dell’era democratica. Di fronte a una simile pochezza, a un tale vuoto mentale, fascisti, leghisti, nazionalisti, fanatici, integralisti e xenofobi troveranno sempre aperte di fronte a sé praterie politiche – al solo prezzo di dire qualcosa che la gente possa anche soltanto capire in termini di vocabolario.
Con questo non vogliamo dire che si debba concepire il linguaggio come spazio neutro. Con questo non vogliamo dire che l’ordine del discorso vada subito per come si presenta. Ci mancherebbe: non bisogna neanche seguire il flusso, molto spesso soltanto apparente, di una mitica “opinione pubblica”. Eppure, resta il problema dei ponti, quei famosi ponti – anche linguistici – che dobbiamo costruire tra noi e gli altri, tra oppressi, in tutte le direzioni. Tra noi e questi ragazzi; tra loro e le famiglie che li guardano in cagnesco, che li malsopportano, o di cui hanno paura; tra noi e queste famiglie come tra noi e la variegata clientela di questo commercio e le sue striature e contraddizioni, con tutte le intersezioni e ramificazioni contorte che possono avere questi piani nel quartiere in cui viviamo e che amiamo. Questi ponti si costruiscono piano piano, pietra su pietra, senza volere tutto e subito; perché tutto e subito lo si ottiene o con l’imposizione generalizzata di un punto di vista (ma allora lo si ottiene per finta) o con il silenzio-assenso di chi, in realtà, non ti sta neanche ad ascoltare. A volte può anche essere giusto parlare più o meno come mangiamo, per intendersi: le canne sono canne, le pere sono pere, la bonza è bonza e lo spaccio è spaccio; perché altrimenti si rischia di essere così politicamente corretti che il ponte lo si costruisce soltanto tra chi passa insieme tanto di quel tempo che, ogni tanto, sarebbe bene prendesse una boccata d’aria.
Abbiamo ricevuto le critiche di persone che, dopo qualche minuto di confronto, hanno ammesso di essere innervosite soltanto perché sono parte della clientela, quindi per questioni di comodità. Questo atteggiamento è cinico, tanto più se proviene da chi si spella le mani per i film di Sabina Guzzanti, senza rendersi conto che i grandi poteri di cui vedono rappresentazione sul grande schermo agiscono a partire dal quotidiano, dalla città, dalle sue relazioni concrete. Abbiamo ricevuto attestati di perplessità da parte di persone che hanno mostrato di sentirsi semplicemente a disagio rispetto a un’identità culturale concepita come aperta, accogliente, solidale, orientata all’incontro e non all’esclusione, al dialogo e non alla contrapposizione. Noi amiamo l’incontro e la condivisione, ma quelli veri, non quelli viziati dal commercio e dal denaro; con il sistema del denaro e del commercio, a ben vedere, cerchiamo il conflitto e la contrapposizione. Nulla di questo mondo ci appartiene, e riusciamo a pensarlo soltanto a partire dalla sua negazione; in esso siamo stranieri e l’unico orizzonte attuale che ci appartiene è la rivolta contro questa società. Non sono certo i retaggi di un liberalismo imbelle, anche quando travestito da trasgressione fittizia, a trasformarci in amici delle certezze a buon mercato.
Ma magari ci accorgeremo (lo speriamo) che intorno a noi c’è tanto, molto di più…

                                                                   Centro Sociale Occupato Autogestito Askatasuna

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