Commedia Capitale: cade il reato di associazione mafiosa
Hanno scomodato perfino la Divina Commedia per questo processo e non solo, diverse figure e riferimenti a opere letterarie, cinematografiche ed epiche. Lo scopo probabilmente è quello di continuare a confondere, invece che fare luce sui meccanismi alla base del funzionamento di Roma Capitale, ma probabilmente dell’intero paese.
La procura di Roma nelle figure di Giuseppe Pignatone, Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli hanno ricevuto una sonora sconfitta sull’accusa di associazione mafiosa per cui ieri si è espresso il tribunale di Roma escludendo il reato 416 bis per gli imputati del processo “Mafia Capitale”. Questi Pm provengono da esperienze legate ai processi anti-mafia e trovano ormai occupazione grazie ai loro principali datori di lavoro: il Movimento 5 Stelle. Chiaro a tutti che questo processo ha definito l’ascesa del movimento pentastellato a Roma e in Italia e l’affossamento del Partito democratico e del centro destra romano. Una considerazione scontata, insomma, già alla portata di tutti grazie ai fatti evidenti che si sono succeduti davanti ai nostri occhi dopo la caduta di Marino. Ciò che però preme sottolineare e rimane ancora nascosto sotto la mole di articoli inutili della stampa nazionale è che l’accusa di “mafia” è figlia di quel legalitarismo stucchevole targato 5 stelle ma anche di uno stato che assolve sempre se stesso.
L’ accusa della Procura ha puntato su associazione mafiosa affermando in sede processuale che alcune organizzazioni a capo delle quali c’erano i famosi Buzzi e Carminati, comunque condannati a 19 e 20 anni, minacciavano e facevano pressioni sul comune per il controllo del territorio e il proprio tornaconto personale. In realtà la sentenza di ieri è molto più grave (non in termini di anni di carcere) di quello che vogliono far apparire. Non c’è associazione mafiosa semplicemente perché c’era una disponibilità totale da parte degli amministratori locali, da destra a sinistra, nel gestire la cosa pubblica attraverso le regole emerse dalle intercettazioni e che tutti a Roma conoscevano bene. Gli amministratori, quindi, non come vittime ma come parte integrante di un sistema di governance ben definito. Mafia capitale non è un’organizzazione che ha infiltrato l’amministrazione pubblica ma un modo di gestire gli appalti e i posti di lavoro. Quello che emerge da questa sentenza, quindi, sono responsabilità politiche molto più forti di quello che avrebbero voluto far emergere con l’accusa di “associazione mafiosa” e attraverso le polemiche di questi giorni, tutte centrate ad oscurare questo punto fondamentale. Non stupisce, infatti, che il Pd si spacchi sulle dichiarazioni tra chi sostiene che finalmente questa sentenza riscatta il danno d’immagine subito in questi anni e chi, come il commissario, Matteo Orfini, sostiene che “la Mafia c’è ed è radicata”. Se è vero, come sottolinea Carminati durante una delle rare volte in cui ha rilasciato dichiarazioni, che tutto si svolgeva nel mondo di mezzo, i partiti e i loro delegati ne erano parte integrante. Buzzi e Carminati sembrano essere più dei servi dello Stato che dei criminali che tenevano sotto scacco il comune di Roma. Basta dare un’occhiata alla carriera di Carminati dagli anni ’70 ad oggi. La difesa parla di un semplice ladruncolo ma il pirata legato alla Banda della Magliana faceva parte dei NAR ed è scampato alle accuse sulla strage della stazione di Bologna e non è stata mai fatta piena luce sulla rapina alla Banca di Roma negli anni ’90 con la complicità di alcuni uomini dell’Arma, dove furono rubate non solo valori in contanti e gioielli ma anche faldoni e documenti di magistrati, avvocati e uomini delle istituzioni mai più ritrovati.
L’inchiesta Mafia Capitale è parziale e punta in alto nelle accuse paradossalmente per attenuare le responsabilità politiche. Il sistema di gestione fatto di emergenze, appalti, voti di scambio, sprechi e mazzette è parte della storia del capitalismo di questo paese crollato per la crisi profonda dei partiti. Non è antropologicamente intrinseca alla città, è diffusa nel paese e ha una storia antica. Inoltre, la fine di questo paradigma è ancora tutta da verificare ma è coincisa con l’apertura al mercato dei principali servizi che offre Roma Capitale. I tentativi di privatizzare Ama, Atac, Acea e le municipalizzate più grandi con più di 5.000 addetti rappresentano un cambio di passo nella gestione di bacini di posti di lavoro e consenso. L’ultima grande tornata di assunzioni annesse al voto di scambio risalgono alla giunta Alemanno con l’inserimento di centinaia di persone in Atac. La fuga da Roma di decine e decine di aziende verso Milano, il licenziamento di 1660 persone ad Almaviva, la crisi di Alitalia è l’indice di una città in profonda crisi di gestione, produzione, riallocamento di risorse e poteri perché è di questo che stiamo parlando. In questa fase di transizione che vorrebbe essere governata dalla giunta Raggi convive il vecchio sistema e uno nuovo che stenta a nascere perchè giocato dai pentastellati tutto su un’idea legalitaria che non trova nessuna aderenza alla realtà perché le leggi sono state create dentro lo stesso sistema che ha generato Mafia Capitale e diverse altre vicende del nostro paese. Su questi scenari si gioca il futuro della Capitale. Approfondire questa crisi, sottrarla alla promessa elettorale con il voto di protesta dato al 5 stelle lo scorso giugno, ribaltare il discorso sulla “mafia” e il ricatto del debito, ricostruire le condizioni per cui saranno le lotte, le conquiste e il riscatto di chi ha subito in passato e sta subendo ora le conseguenze di questo sistema di potere in evoluzione, sarà la sfida da cogliere per cambiare il destino di questa città.
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