Comunicato di Antigone ER sulla vicenda Ex-Telecom
Negli ultimi 11 mesi, le forme innovative di solidarietà realizzate nell’occupazione della palazzina ex-Telecom, abbandonata da un decennio, hanno segnato la vita sociale di Bologna: 280 persone con 17 nazionalità rappresentate (italiani inclusi), 120 nuclei familiari (con un centinaio di minori) hanno recuperato lo stabile, trasformando gli uffici in appartamenti belli e accoglienti. Chiunque abbia “respirato” il clima e conosciuto la socialità all’interno ne ha tratto sensazioni positive.
Questo fino allo sgombero di martedì 20 ottobre 2015, operato da più di 200 poliziotti in tenuta anti sommossa, che ha posto fine a questo interessante esperimento di solidarietà dal basso, caratterizzato dalla contaminazione di diverse comunità nazionali e dalla ricerca di soluzioni creative ai problemi sociali e residenziali che si sono radicalizzati nel corso di questi anni di crisi economica.
Tale evento si colloca in un momento davvero buio per la città, che sembra rinnegare la sua tradizione politico-culturale assistendo quasi quotidianamente a interventi poliziali e amministrativi che si accaniscono contro le esperienze di autogestione senza interrogarsi sul loro valore sociale e attraverso un dispositivo combinato di strumenti di criminalizzazione: fogli di via, sanzioni patrimoniali, misure cautelari, divieti e obblighi di dimora. Insomma un puro campionario di pratiche di esclusione.
Di eccezionale gravità, in questo contesto, l’acquisizione da parte della Digos dei filmati contenenti le dichiarazioni dell’assessore al welfare Frascaroli, che all’indomani dell’azione in via Solferino, altro recente sgombero su un’occupazione abitativa dove erano presenti famiglie e minori e che aveva recuperato un bene da anni in disuso, con agenti in assetto militare e avvenuto senza che nè la Procura nè la Prefettura e la Questura avvisassero il Comune per un suo intervento con i servizi sociali, si diceva colpita dal fatto di non essere stata avvertita dalla questura e aveva dichiarato che le occupazioni talvolta ”creano valore sociale”.
Anche noi dell’Associazione Antigone Emilia-Romagna ci sentiamo di intervenire poiché questa pratica essenzialmente repressiva ci sembra rimandare a una pesante distorsione del concetto di legalità e a un utilizzo degli interventi poliziali e degli strumenti penali ormai diffuso fuori misura. Siamo di fronte all’applicazione strategica di una sorta di diritto penale massimo, attivato per il controllo della marginalità e della conflittualità sociale, indebitamente intese come puri illegalismi riconducibili a responsabilità individuali.
Non è così: il disagio e le rivendicazioni che si esprimono oggi nei contesti urbani, attraverso forme anche radicali di conflittualità sociale e politica rimandano a responsabilità collettive, hanno origine nei mutamenti strutturali in campo economico e nelle strategie politiche (anche retoriche) che li accompagnano. Proprio nelle dimensione locale gli effetti più avvilenti e dannosi di questi cambiamenti si rendono manifesti, ed è a livello locale che dalle agenzie istituzionali (amministrazione comunale e regionale, questura e prefettura) sarebbe legittimo attendersi proposte organiche di gestione che non si limitino a un uso della forza di per sè fallimentare e di corto respiro politico.
Il diritto penale non è mai neutro nelle sue declinazioni repressive così come in quelle orientate alla tutela della sicurezza e delle garanzie. Certo è significativo che alcuni suoi istituti sopravvissuti dall’era del codice Rocco vengano oggi recuperati nella gestione dei conflitti per donare agli interventi appena menzionati non solo l’etichetta della legalità ma, clamorosamente, quelli della legittimità politica. Ed è senz’altro interessante che questa dinamica si verifichi in particolare a Bologna, che appare così configurarsi come avamposto di una sperimentazione reazionaria, al di là del solidarismo di facciata che le sue élite esprimono costantemente.
Siamo di fronte alla realizzazione di una politica del controllo dei problemi sociali che ricorre al penale nel quadro della dissoluzione delle forme (anche locali) di welfare?
Queste applicazioni del diritto, queste misure poliziali, queste forme di neutralizzazione derivano piuttosto da un ventennale processo di disumanizzazione e demonizzazione delle figure destinate a subire le “nuove” strategie repressive agli occhi della pubblica opinione. Migranti, poveri, marginali, ex detenuti: altri, diversi da noi, non-persone. Forse non è un caso che la maggioranza degli occupanti dell’ex-Telecom fossero migranti e siano stati “affrontati” (madri e bimbi inclusi) con un dispiegamento di forze di polizia inusitato. Forse non è casuale che esso poi si sia giustificato per “fronteggiare” i gruppi di militanti di base che sostenevano l’occupazione al fine di giustificare una declinazione e gestione solo in termini di ordine pubblico di una situazione sociale.
Il diritto penale è politico. E se la nostra battaglia vuole andare nella direzione di cambiare le leggi, essa deve essere anche lucida nell’analisi di come le leggi vengono utilizzate e contro chi vengono utilizzate, e non deve mai separare il concetto di legalità da quello di giustizia.
Antigone Emilia Romagna
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