Dai Sud Contro la Crisi
Dai Sud Contro la Crisi – Orizzonti Meridiani atto II
Riassumeremmo così il significato – o meglio, l’ambizione costitutiva – dell’appuntamento che, insieme a collettivi e movimenti da tutto il meridione, vogliamo costruire il 3 e 4 novembre a Palermo. Un riassunto che forse però semplifica troppo il portato di appuntamenti di questo tipo. Questo perché simili incontri non vogliono cedere a formule “meccaniche” di movimento né essere revival di paradigmi superati dalla realtà sociale ancor prima della nostra elaborazione ed analisi; hanno invece la pretesa di costruire uno spazio nuovo attraverso cui produrre nuovi linguaggi, nuove analisi, nuove pratiche. Perché – eccola la partita che intendiamo giocarci – ci si deve porre l’obiettivo di essere particolare e originale attore in una fase socio-politica in cui originali e generali spazi si vanno aprendo con estrema e positiva irruenza. In altri termini, partire dalla “parzialità” dell’essere oggi meridionali può, a nostro avviso, essere un ulteriore moltiplicatore della ricchezza e delle prospettive con cui sta nascendo uno spazio mediterraneo delle lotte contro il capitale. Un momento di confronto quindi interlocutorio ma produttivo se in grado di costruire narrazioni comuni.
Già nei giorni dell’appuntamento sul Matese (CE) di “Orizzonti meridiani” (1-2 settembre) abbiamo voluto sottolineare come imprescindibile fosse dare continuità di analisi e confronto a queste nostre “sperimentazioni discorsive, teoriche e pratiche” affinché una simile occasione di convergenza non venisse dispersa: oggi più che mai siamo convinti della necessità di produrre nuovi elementi (e nuovi fermenti) in grado di ridisegnare, nella geografia delle lotte, i luoghi di attacco e sovversione alla moderna subalternità capitalistica. Se queste cartografie sono in rifacimento, è il momento di costruire il nostro autonomo spazio!
Prendiamo atto con estremo favore che negli stessi giorni si terrà un meeting euromediterraneo a Madrid cui anche noi vogliamo dare il più grande contributo possibile. Pensiamo – anzi, siamo convinti – che questa coincidenza di date imponga a noi il tentativo di realizzare dei salti nello sviluppo maturo e conflittuale della sfida antagonista che abbiamo accettato di lanciare a partire dai nostri Sud d’Italia. Che questo autunno – si spera – di lotte conosca anche una nostra proposta politica!
Passo per passo, senza fretta né scorciatoie (ma con organizzazione in grado di valorizzare le eccedenze territoriali) vogliamo continuare ad inchiestare i nodi problematici e le prospettive autonome di un siffatto percorso scompaginante di dispositivi discorsivi, originali forme di governance e rapporti di sfruttamento caratteristici del “Sud subalterno” e “non-ancora” sviluppato (basti pensare alle conclusioni dell’ultima elaborazione statistica dello Svimez che indicava in 400 anni il tempo attualmente necessario calcolato per il raggiungimento dei livelli di benessere del Nord da parte del ritardato Mezzogiorno). Da un lato esercizi di esodo semantico e un nuovo “dizionario” a fungere da basilari strumenti nella nostre “cassette degli attrezzi”; dall’altro, parallelamente, costruzione e sedimentazione di rapporti di forza antagonistici: lotta, cioè, ai dispositivi materiali di assoggettamento che, a partire dalle modernissime (e attualissime) categorie dell’orientalismo di stampo europeo ed italiano, si traducono in forme ben precise di governo dei territori, delle forze sociali e del lavoro vivo. Da comuni linguaggi a comuni pratiche solo così valorizzeremmo la nostra natura di soggettività militanti.
Nodo centrale per l’elaborazione politica che si vuole produrre è l’identificazione e il posizionamento del soggetto a cui vogliamo far riferimento. Se infatti crediamo sia chiaro che qualsiasi prospettiva di uno spazio nazionale (o sub-nazionale) di lotta anti-capitalista sia illusoria, quando non immediatamente contro-producente, è a partire da questo presupposto che dobbiamo prendere le mosse per parlare e parlarci dei Sud e del Mezzogiorno.
Naturalmente, anche in questa occasione, non c’è nessuna intenzione di riaprire alcuna dicotomia Nord-Sud, ma semmai la necessità di allungare il fiato, attraverso una progettualità pratico-teorica, a soggettività sociali già in grado in questi anni di esprimere un nuovo protagonismo, seppur con pratiche e metodi differenti, e ridefinire “dai margini” il cuore della fortezza-Europa. Superando così l’infinita rincorsa a una supposta e interiorizzata superiorità del Nord “sviluppato” e spezzare i discorsi di inferiorizzazione a cui è sottoposta – senza però ricadere in una dimensione identitaria di un Sud “originario” e “romantico” – ci porremo finalmente dentro e contro quei processi destinati a riprodurre, su scale diverse ma con forme assimilabili, i meccanismi di razzializzazione della forza lavoro che attualmente dominano le nostre società.
Puntiamo quindi all’affermazione di Sud all’interno dei quali le soggettività in campo sono in grado di tradurre in positivo i dispositivi di inferiorizzazione che gli sono imposti dalla governance attuale e di diventare un tassello di instabilità proprio per quest’ultima. E ciò non attraverso la creazione di più o meno “nuove” identità (sub)nazionali e totalizzanti, ma costruendo, invece, discorsi sempre parziali, di classe, gli unici in grado di perseguire ricomposizioni tra i tanti Sud dello spazio mediterraneo.
Con questo spirito ci rivolgiamo immediatamente alle rivolte e alle lotte di tutte le sponde del Mediterraneo; dall’Egitto alla Spagna, dalla Tunisia alla Grecia: nodo primario da ragionare diviene quello della costituzione di processualità transnazionali della contro-soggettivazione e di forme permanenti di gestione collettiva dei territori e riproduzione sociale autonoma. Ribaltare gerarchie per attaccarne il cuore.
Stare dentro e contro anche la modernità e le categorie binarie ad essa sottoposte. Continua a essere questa la sfida che siamo chiamati a vincere se vogliamo pensare che la nostra azione contaminante produca una vera valorizzazione delle eccedenze e la loro messa in “comune”. Compito, come già discusso, tanto affascinante quanto lungo e minuzioso in quanto tanti sono i condizionamenti inevitabilmente legati alle pervasive costruzioni semantiche ed epistemologiche del sud. In riferimento al tessuto economico, paradigmi come “modello di sviluppo arretrato o modernità senza sviluppo” sono spesso utilizzati per rappresentare e stigmatizzare delle determinate e peculiari condizioni socio-economiche-ontologiche sviluppatesi nei territori del mezzogiorno; condizioni che però vanno lette attraverso le coordinate spazio temporali imposte dalla sussunzione capitalistica. Prerogativa indispensabile ai fini del nostro ordine del discorso, infatti, è capire quelle norme e quei dispositivi di gestione e controllo sociale che hanno permesso una sperimentazione e gestione capitalistica differenziale di un territorio specifico e delle sue eccedenze; una sperimentazione di un modello che innalzando lo sfruttamento del lavoro vivo e delle risorse territoriali e cooperative ha però lasciata invariata se non peggiorata la distribuzione di garanzie, diritti, reddito. Un “mancato sviluppo e progresso”, quello del sud, posto come esempio negativo al fine di modellare un’identità nazionale basata sulla necessità di una selvaggia industrializzazione, effettivamente dispiegatasi nel primo e nel secondo dopoguerra in quasi tutto il resto d’Italia. Ma non si tratta esclusivamente di un piano ideologico; esso ha funto da cornice perfetta dentro cui iscrivere la nascita del capitalismo all’italiana: non sarebbe, per esempio, esistito nessun triangolo industriale senza i flussi monetari delle rendite agricole dei latifondi (istituzioni mai del tutto scomparse – tanto meno con la riforma agraria – prima degli anni ottanta) e senza l’esercito di migranti che tra gli anni ’50 e ’60 con le loro valigie di cartone andavano a cercare maggior fortuna nelle metropoli del nord; nessun boom economico senza il bacino di consumo del mezzogiorno per le merci e i prodotti del nord.
La forma modale capitalistica imposta al sud ricorda tanto le gerarchizzazioni di potere del periodo coloniale del neoliberismo, dove la salarizzazione delle forme di reddito preesistenti e l’ideazione del piano semantico ed epistemologico del sottosviluppo rappresentano un totalizzante esercizio di governance. Il funzionamento è rodato, anche se mai lineare e liscio, e come accade nelle fasi di accumulazione originaria del capitalismo la distruzione dell’antecedente sistema produttivo (nel caso osservato si tratta di quello agricolo) e la diffusione di scarsità di risorse e accesso al reddito permettono di fondare le basi dei meccanismi di sfruttamento e di estrazione di plusvalore, valorizzando esclusivamente il flusso di merci e consumi.
Nello stesso momento in cui il mantenimento delle grandi proprietà terriere imponeva di reprimere briganti e contadini che lottavano per il diritto alla terra, nascevano le cattedrali nel deserto, famelici mostri industriali in grado di devastare territori e la vita di intere comunità, cambiandone nel lungo tempo aspettative, desideri, valori, stili di vita. Un esempio di tale impatto biopolitico sulle popolazioni è sicuramente quello dell’Ilva di Taranto. La più grande acciaieria d’Europa è da circa trent’anni il cuore produttivo dell’intera Puglia, a cui tutto è assoggettato e permesso. Nonostante le emissioni tossiche del comparto siderurgico abbiano incrementato spaventosamente le percentuali di malattie e morti dovute alla diossina (scorie della lavorazione del metallo) gli operai e i cittadini tutti sono come rimasti interdetti difronte al sequestro dell’impianto da parte della magistratura, come se ormai fosse la normalità vedere nottetempo il cielo tinto di rosso. Si apre così la contraddizione tra salute e lavoro, dove non si sa se bisogna lottare per il diritto alla vita o per il diritto al lavoro/morte, dove ormai molti operai vivono un’identificazione esistenziale con l’azienda (in grado addirittura di spingerli alla protesta contro la chiusura) e molti cittadini rintracciano nell’Ilva l’unico motore produttivo possibile per il loro territorio. A tal punto l’esistenza è sussunta al lavoro, tanto da equiparare la vita alla necessità di un salario; tanto da escludere la sola possibilità che esistano forme altre di cooperazione produttiva oltre a quella del lavoro salariato e di fabbrica.
Come evinciamo da queste osservazioni, il Mezzogiorno non rappresenta affatto un capitalismo arretrato e poco progredito, ma al contrario è proprio nei nostri territori che si dipanano le modalità più invasive e sperimentali del moderno capitalismo finanziario; dove meglio si palesa la frammentazione e la dispersione del mondo del lavoro e la distruzione dei territori. E ancora una volta, all’illuminare “le forme più avanzate della governance neoliberale” e i possibili punti di rottura di queste ultime, vorremmo dedicare ampio spazio del dibattito di questa due giorni. Al caso dell’Ilva certamente ma anche, e più in generale, a quei modelli di sviluppo vincolanti e predatori (oltre che devastanti) che ormai da secoli hanno condotto i nostri territori a dover abbandonare l’idea stessa di un’alternativa produttiva e sociale. Quel processo insomma di imposizione del “progetto occidentale (e universale) di modernità” passa per Taranto come per i poli industriali di Milazzo e Gela in Sicilia; per i mostri di Gioia Tauro o per quelli di Bagnoli; per il forzato abbandono degli usi civici della terra come per discariche, inceneritori e gassificatori campani. Il pensiero universale del capitalismo non ammette alternative.
Noi invece vogliamo continuare i nostri percorsi di inchiesta e iniziativa militante per provare ad allargare il perimetro concettuale all’interno del quale porsi le giuste domande: a quale modello di modernizzazione siamo stati sottoposti in termini mentali e materiali? Cosa è stato per noi lo sviluppo? E perché no: esistono logiche e modi di intendere modernità e sviluppo al di fuori del capitalismo e delle sue maglie tanto concettuali quanto mercificanti (mercato e valore di scambio) e predatorie? Ma se delle nuove domande stiamo iniziando a porre a partire dai nostri percorsi di conricerca è anche il tempo di iniziare a darci delle risposte adeguate, di costruire nuovi rapporti sociali all’altezza della sfida alla produzione biopolitica e agli interstizi che la ristrutturazione del capitale in crisi inevitabilmente apre. A partire per esempio dal particolare legame, che accomuna i nostri Sud, che abbiamo coi nostri territori; quel genius loci che ci consente non soltanto di difenderli, amarli e resistere in essi ma anche e soprattutto di avviare veri e propri processi di contropotere e gestione autonoma di essi. Serve fattivamente ripartire dai nostri territori!
Riappropriarci dell’alternativa per costruire autonomia: aprire campi di battaglia all’interno dei quali praticare il nostro attacco e sedimentare produzione e riproduzione autonoma e indipendente dalla sussunzione al capitalismo. Quest’obiettivo non può prescindere dalla continuazione della nostra analisi sull’importanza del rovesciamento del dispositivo emergenziale come elemento costituente che dà forma al governo dei territori meridionali: ci siamo lasciati al precedente appuntamento con l’invito/auspicio a uscire dalla “rincorsa dell’emergenza” attraverso la pratica dell’obiettivo. In questo senso possiamo in semplicità fare un salto concettuale – meglio, creare un ponte – tra i suddetti discorsi sulle varie emergenze occupazionali/ambientali e la questione tanto annosa del “reddito”.
Vogliamo infatti continuare a discutere in maniera franca di una simile “questione” in continuità con quello dettoci a inizio settembre; in particolare due coordinate di riferimento. La prima ci ricorda che una battaglia sul reddito va necessariamente intesa nella sua natura processuale piuttosto che subordinata ad una logica evenemenziale e saltuaria: questo perché un simile campo di scontro si nutre di pratiche quotidiane di riappropriazione e solo attraverso l’accumulo di forza, e quindi con rapporti di forza costruiti antagonisticamente, diventa immune alla captazione istituzionale nel nome di un assistenzialismo dall’alto. La seconda coordinata di riferimento chiudeva il report di “Orizzonti meridiani” e faceva riferimento al rischio, su cui spesso pezzi di movimento sono inciampati, di restare bloccati nell’alveo del “reclamare reddito ad un principe trascendentale”: una stagione di battaglie di reddito deve conoscere interlocutori/controparti su cui esercitare conflittualità, antagonismo e autonomia; i rapporti di forza sopracitati insomma. Sapendo che questo campo ha necessariamente una struttura multipolare e molteplici nodi da attaccare, possiamo pensare di rintracciare convergenze tra le diverse esperienze che hanno animato i nostri territori così da provare a fare del “reddito” non più slogan ma una leva attraverso cui piegare i dispositivi tanto della subalternità meridionale quanto dei meccanismi capitalistici di sfruttamento tout court.
I nostri centri sociali ospiteranno i/le compagn* senza alcun problema e/o limitazione.
Chiunque sia interessato ci faccia pervenire le adesioni all’indirizzo palermo@infoaut.org o al numero 3899981308
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