Egitto: lotta operaia al Canale di Suez
Piazza Tahrir al Cairo è il luogo-simbolo delle lotte per i diritti e della costruzione di un nuovo Egitto. Il Canale di Suez invece diventa sempre di più il centro delle lotte operaie per la dignità del lavoro e gli aumenti salariali. Da tre settimane migliaia di dipendenti dell’Autorità del Canale di Suez (Acs) si battono per ottenere significativi aumenti dei salari e la loro battaglia potrebbe aprire una nuova stagione di scioperi simile a quella del 2010 che ha modo anticipato la rivolta di Piazza Tahrir contro l’ex raìs Hosni Mubarak e il suo regime.
«Credevamo e pensavamo di avere un ruolo nazionale e, quindi, di non poter fermare (il canale di Suez), una delle fonti di reddito del nostro paese. Ma ora le cose sono cambiate, siamo consapevoli dei nostri diritti e della piena legalità della nostra lotta», spiega al sito Ahram online Ahmed Ali, 52 anni, uno dei 2.200 operai che oggi cominciano il 23esimo giorno di sciopero. «Quando ti senti umiliato e depresso, sottopagato e non stimato allora scompare quel sentimento di romantico nazionalismo e ad esso si sostituiscono rabbia e amarezza», aggiunge Ali che parla appoggiato ad un muro dove campeggia uno striscione con la scritta «I lavoratori hanno sempre ragione, non i clienti». Scritta che si riferisce alle 60 navi cargo, grandi e medie, che annualmente si fermano per manutenzioni e riparazioni alla Suez Shipyard Co., una delle sette grandi compagnie che operano sotto l’Autorità del Canale di Suez che ha generato, tra il 2009 e il 2010, 4,5 miliardi di dollari per le casse statali. Ma il lavoro ora è fermo e cinque grandi navi mercantili e lo yacht del taycoon egiziano delle comunicazioni Naguib Sawiris attendono da tre settimane di essere riparate. «Un imprenditore siriano proprietario di uno dei mercantili in attesa ci ha offerto 100 mila dollari per farci interrompere lo sciopero ma noi non li abbiamo accettati perché conosciamo i nostri diritti e lottiamo per ottenerli», racconta un altro operaio, Hamdy Saleh.
L’agitazione è cominciata l’8 febbraio, quando i lavoratori della Acs hanno cominciato a chiedere aumenti salariali sull’onda delle manifestazioni oceaniche anti-Mubarak in corso in tutto il paese e che avevano visto protagonista la città-operaia di Suez. I dirigenti dell’Acs avevano fatto diverse promesse che non sono state mantenute.«L’8 giugno perciò i membri dei consiglio di fabbrica hanno tenuto un riunione d’emergenza per decidere cosa fare. Quindi è stato deciso un ampio sit-in per ribadire le nostre richieste. Infine sono partiti gli scioperi anche a Ismailiya, Port Said e qui a Suez», dice Ali Shaarawy, un portavoce dei lavoratori. «Chiediamo un aumento dei salari del 40 %, un aumento del 7% dei bonus di produzione, il miglioramento della quantità di cibo in mensa e le dimissioni del presidente dell’Acs Ahmed Fadel». Quest’ultimo, che gli operai chiamano «il dio arrogante», ha fatto promesse su promesse, senza alcun esito. Ma il clima nelle fabbriche e nelle rimesse del Canale di Suez è totalmente cambiato dopo la «rivoluzione del 25 gennaio» e oggi gli operai non si accontentano più di parole e di minuscole concessioni da parte dell’Acs.
L’aumento dei salari non è più rinviabile. Un operaio porta a casa ogni mese tra i 500 e il 1000 pound egiziani (70-140 euro) contro i 1.500-3.000 pound degli impiegati dell’amministrazione e i ben 24.000 pound dei consulenti del presidente del Acs. Una disparità non sopportabile. I lavoratori sono praticamente alla fame di fronte ad un costo della vita in continuo aumento. E non rinunciano all’arma dello sciopero che era e resta la loro più efficace forma di protesta. Secondo “Solidarity with Worker’ s Rights in Egypt”, un rapporto sul mondo del lavoro egiziano pubblicato nel febbraio 2010, tra il 2004 e il 2008, 1,7 milioni operai e manovali hanno partecipato a 1.900 scioperi. Un dato che non comprende la forte ondata di proteste dello scorso anno. Intanto a Suez la lotta si intensifica. Ieri gli operai hanno portato al sit-in permanente anche le loro famiglie. Minacciano inoltre di bloccare l’ingresso meridionale del Canale e quindi di interrompere l’enorme flusso di denaro generato dalle tasse di passaggio che versano le navi delle compagnie marittime di tutto il mondo che transitano per Suez.
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