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La strage di Torino e la depressione di un uomo, mio padre

Quest’uomo ha ucciso la propria famiglia non solo perché ha perso il lavoro ma perché, essendo rivestito del ruolo di “capofamiglia”, di “uomo della casa”, colui che “deve provvedere al mantenimento della famiglia”, perdendo l’impiego si è visto privato di questo ruolo. “Un uomo che non riesce a sostenere la propria famiglia non è un uomo”, questo è quello che la cultura ci impone. E non lo dico per modo di dire, ma perché l’ho vissuto con mio padre.

Mio padre ha lavorato, fin da bambino, nel negozio di famiglia. Non amava quel lavoro, lui era un “lupo di mare”, ma per vari motivi, su cui sorvolerò, è rimasto incastrato in quelle mura che per tutta la sua vita gli sono state strette. Quando, però, è arrivata l’età del pensionamento mio padre si è sentito perso: da una parte la pensione che ha ricevuto, essendo molto bassa, ha ridotto di molto il suo “potere economico” sulla nostra famiglia e dall’altra, essendo uno stacanovista, mio padre si è sentito spiazzato dall’avere così tanto tempo libero e non sapere come riempirlo.

Da quando mio padre è andato in pensione, la nostra vita, che non è mai stata economicamente rosea, è andata peggiorando. Man mano che i mesi passavo si palesava, agli occhi di tutt@, il fatto che non ce la si faceva a campare solo di quello. Mio padre ha anche cercato di trovarsi un altro lavoro, pur di non vedere sua moglie e me lavorare, ma è effettivamente vecchio e per di più il suo lo ha già fatto.

Mia madre, che non ha mai lavorato, si è fatta dunque coraggio e ha deciso di intraprendere l’unico lavoro che in Italia non conosce crisi, quello della signora che bada agli/lle anzian@ o che ne pulisce la casa. E’ stato difficile sia per lei che per mio padre. Ricordo le liti che si sono generate a causa di questa scelta, che tutt@ sapevamo essere indispensabile, dato che ci sono stati mesi in cui ce la siamo proprio vista brutta. Quello che mi ha colpito di più in quel periodo è stato lo stato di depressione e mortificazione in cui viveva mio padre, che sentiva di aver perso il suo ruolo e quindi di essere inutile.

“Ma allora sono inutile!” è la farse che spesso diceva quando litigavamo perché, oltre a mia mamma, anch’io lavoricchiavo per potermi sostenere. Il suo era un modo per continuare ad agire il suo potere economico su di noi ma anche un urlo di aiuto. Mio padre stava sbarellando perché non sapeva più quale ruolo avesse in quella famiglia, dato che il “padre-padrone” non era più padrone. E allo stesso tempo aveva dovuto accettare/ammettere che quei soldi in più, non ci facevano solo comodo, ma erano essenziali.

Ricordo la scena all’interno di un supermercato, in un anno in cui mia madre aveva avuto un aumento a lavoro, e inizia a sobbarcarsi spese che prima erano di mio padre, come quella della spesa. Al momento della cassa mia madre, per non offendere mio padre o meglio il suo ruolo, gli passa, in sordina, i soldi in mano affinché fosse lui a pagare. Ne ricordo la sofferenza, quello sguardo che mi faceva male perché parlava di una cultura che stava uccidendo lui e noi. Se per tutta la vita cresci con l’idea che devi essere tu a pagare tutto, che i soldi li deve portare l’uomo di casa, che lo stipendio maggiore deve averlo lui, immaginate cosa si può provare quando tutto ciò viene meno.

Ho visto mio padre fissarsi le mani per ore, seduto sul suo letto, nel buio di una stanza, perché non sapeva più cosa fare. Ho visto l’umiliazione nei suoi occhi quando ha dovuto chiedere dei soldi a mia madre, quando per anni era avvenuto il contrario. Ho visto in lui la rabbia che abbiamo provato sia io che mia madre quando si subisce quella violenza chiamata “ricatto economico”.

Oggi mia madre ha perso il posto di lavoro ed io ne ho uno che non mi serve a molto, ma che non posso mollare altrimenti è la fine, e, anche se mio padre aveva iniziato ad accettare che anche mia madre avesse voce in capitolo in casa, dal momento che lavorava, non posso non ammettere che da quando non lavora più lui è rinato. E’ decisamente felice anche se si rende conto che quell’entrata ci aveva fatto sopravvivere per molti anni.

I sentimenti non sono mai bianchi o neri, sono così confusi che è difficile capirli. Mio padre non è mai arrivato ad atti estremi non perché fosse migliore di chi uccide tutta la propria famiglia, dato che sono imbevuti della stessa schifosa cultura, ma perché aveva una pensione che, seppur bassa, è fondamentale per noi e che ancora gli permette di stare a galla, di non cadere nella disperazione di perde la propria identità. Perché è questo quello che si rischia quando si legano le persone a dei ruoli ed è questo quello che bisognerebbe minare.

La lotta alla crisi economica, allo sfruttamento che subiamo quotidianamente, al concetto di lavoro capitalista, ad un sistema che ti riduce ad un conto in banca, al precariato, al lavoro in nero che io stessa vivo, è giustissima ma non deve offuscare quell’altra lotta che è quella al sessismo, contro una cultura maschilista e patriarcale che ci riduce a proprietà, ad oggetti/uteri su cui poter legiferare regolandone l’uso del corpo e della sessualità. Fin quando non intersezioneremo le lotte, fin quando ragioneremo per gerarchie di violenze, come se ne esistessero di più importanti rispetto ad altre, come se la morte di milioni di donne fosse cosa da niente, nulla cambierà perché non si può combattere un sistema continuando a mantenerne viva la cultura improntata sulla sopraffazione del soggetto subalterno, che vede in primis la donna. Rinnovo quindi questo appello.

Da Femminismo a Sud

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