Regno Unito. La miccia accesa dell’impoverimento
Il Regno Unito ha paura. Il governo conservatore ha schierato un esercito per riportare l’ordine. C’è da scommettere che quei poliziotti saranno visti come una truppa d’occupazione di un territorio divenuto ostile nel giro di una manciata di giorni. Unanime è la condanna della rivolta che da Londra si è spostata in altre città. Poche, invece, le analisi che cercano di capire come una grande metropoli si sia trovata a fronteggiare un riot così radicale. Fra queste, va segnalata quella di Nina Power su «The guardian». La filosofa inglese scrive dei tagli al welfare state, di tasse aumentate per gli studenti, di un governo che, in nome del progetto conservatore di Big society, vuol riportare «legge e ordine» per ospitare le olimpiadi. Una miscela esplosiva che ha preso fuoco, come spesso accade, per l’omicidio «accidentale» da parte della polizia di un uomo dal passato segnato da piccoli crimini. E come in ogni rivolta tutti i criteri interpretativi della società vanno in tilt. Perché i riot non seguono le coordinate del conflitto sociale, fermano il tempo sociale, cioè la normalità dei rapporti di esclusione e sfruttamento.
L’inghilterra brucia, ma la riappropriazione della merce segue criteri facilmente comprensibili. Si saccheggia un negozio di elettronica perché i gagdet tecnologici sono ritenuti simbolo dell’integrazione sociale. Lo stesso si può dire per abiti e sneakers griffati, indicati come espressione di uno status e di stili di vita acquistabili a prezzi molto alti. Logico che la riappropriazione contempli anche un abbigliamento confacente a quanto di cool viene declamato. C’è poi la presenza di gang criminali. Ovvio che sì. Una banda coltiva il controllo del territorio con attenzione maniacale. Se c’è qualcuno che lo invade, i suoi componenti sono in prima fila negli scontri.
Ma questa è solo immaginazione sociologica. Più rilevante è il contesto in cui collocare la rivolte inglesi. Un contesto di impoverimento progressivo e tuttavia relativo a una popolazione che ha nei giovani il simbolo più evidente. I tagli al welfare state significano riduzione del numero e della qualità dei servizi sociali. Le tasse scolastiche, aumentate al punto tale che diventa proibitiva l’aspirazione a frequentare l’università, determina un cambiamento delle prospettive di vita futura. Lo stesso si può dire del rapporto con il lavoro. I rivoltosi di Londra non sono solo disoccupati cronici, ma anche precari a tempo indeterminato. E come ha scritto «The guardian» alcuni degli arrestati sono infatti grafici pubblicitari, informatici. Non è certo un caso che l’espressione più usata sia lost generation, la generazione perduta. Un impoverimento, che è cosa diversa dalla povertà assoluta, che ha come contraltare la crescita delle diseguaglianze sociali. Un recente studio sulla forbice dei redditi tra la popolazione attiva inglese presentava un quadro non molto diverso da quello statunitense. Il rapporto tra un salario medio e i redditi di un top manager è di 1 a 70. È questo il contesto in cui collocare quei riot.
Infine, le misure prese da Cameron per edificare la Big Society sono in perfetta continuità con il credo liberista imperante nel Regno Unito dai tempi di Margaret Thatcher. Il «New Labour» lo ha solo attenuato, ma non ha certo cambiato di segno all’operato del governo. Il paradosso sta proprio nella riproposizione di un modello di società e di attività economica che ha provocato la crisi economica. Di fronte a tanta feroce pervicacia, la reazione non può che essere altrettanto feroce.
Si potrà discettare sulla violenza cieca e furiosa, ma è come guardare il dito e non la luna. Ed è una luna che interessa non solo il Regno Unito in fiamme, ma tutti i paesi europei. Italia compresa.
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