Respingiamo l’applicazione della riforma, ripartiamo dal conflitto
Stamattina, insieme a decine di studenti, abbiamo bloccato la nomina della commissione statuto. L’azione di stamani è stata il frutto dell’assemblea di ateneo di lunedì in cui evidenti e palesi sono state le divergenze di progettualità e di rivendicazione sul perché fosse necessario bloccare la nomina della commissione statuto.
Queste differenze, sostanzialmente, si basavano sulla concezione della commissione statuto o come organo da contestare in quanto espressione diretta della controparte o come campo dentro cui continuare la battaglia no-Gelmini, cercando prima di tutto di allargare la rappresentanza ai soggetti che si sono mobilitati, e quindi contestando il rettore sulle modalità delle nomine dei membri, ritenute non democratiche e verticistiche, in quanto calate dall’alto e non decise da elezioni a suffragio universale. Questa diversità di rivendicazione e di contenuto in seno a ciò che il movimento autunnale ha sedimentato, pensiamo debbano aprire una riflessione sulla necessità di concepire le lotte contro l’applicazione della Riforma Gelmini come rottura di quell’assetto di governo dell’ateneo, che punta ad assorbire ed a rendere compatibili istanze di trasformazione del sistema di potere universitario.
Vale la pena fare delle considerazioni partendo da quello che è il comportamento e le modalità di azione politica da parte della governance universitaria.
Il rettore e gli altri membri di senato accademico e consiglio di amministrazione hanno tentato di convincere il movimento della necessità della nomina della commissione, della trasparenza e della funzione partecipativa di quest’organo. Le argomentazioni con le quali il rettore persegue il suo primo obiettivo di pacificazione dei conflitti interni alle istituzioni accademiche, sono tutte riconducibili al marchio col quale si è presentato nello scenario politico universitario, sin dalla campagna elettorale. Noi non troviamo alcuna discontinuità tra l’Augello pre-rettore, l’Augello neo rettore, l’Augello del movimento (?) anti-Gelmini e l’Augello di oggi. Le sue argomentazioni sono, infatti, tutte riconducibili alla necessità di “salvare” il nostro Ateneo dalla sventura che capiterà agli altri.
Sono logiche che mirano alla conservazione di quello che è possibile conservare, governare il “meno peggio”. Hanno come base semantica l’idea di comunità accademica, come organica, sinergica ed armoniosa. Esattamente come l’idea che Marchionne ha dell’impresa, (che però vuole imporre a partire dal proprio rapporto di forza) in cui non esistono interessi e bisogni di parte, e il conflitto è giocato tutto verso l’esterno, e la competitività è il fine cui sacrificare ogni diritto. A differenza nostra che pensiamo che il cambiamento sia nella sua essenza il prodotto di scontri che mirano a rovesciare rapporti di e per il potere.
Se non si riconoscono i tratti e le tendenze che hanno costruito, rafforzato, potenziato e massificato il movimento di quest’autunno, come caratteristiche profondamente di parte, antagoniste, difficilmente sapremo costruire nuovi orizzonti di liberazione e di demercificazione del sapere.
Noi abbiamo deciso di bloccare la commissione statuto perchè riconosciamo nella costituzione di quell’organo tutto il portato tecnico del disegno politico complessivo contro cui ci siamo battuti in questi anni. Quella commissione, in sé, rappresenta l’applicazione dei dispositivi di precarizzazione, espropriazione ed ulteriore mercificazione del sapere e della generazione precaria.
Abbiamo bloccato la nomina della commissione, e continueremo a provarci, perché pensiamo che il terreno della costruzione di un’università altra sia innanzitutto quello della individuazione e dello smascheramento delle controparti. Augello è una di queste; e lo è anche la commissione, perché traduce tecnicamente i rapporti sociali dell’università basati sullo sfruttamento e il ricatto del debito, l’umiliazione, il continuo declassamento e la negazione di bisogni. Per questo contrastare la commissione statuto è, qui ed ora, evolvere il movimento contro il ddl in percorsi di lotta e di riappropriazione. Ciò che antagonisticamente differenzia il Rettore e la casta universitaria da noi, non è solo un fatto di status, reddito e posizione di potere: è soprattutto la direzione verso cui le nostre azioni tendono.
Non siamo tutti sulla stessa barca! Da quella parte l’ordine del discorso è: “abbiamo lottato insieme (?), abbiamo perso ed adesso salviamo il salvabile (e tiriamo la cinghia…)”; discorso che serve a farci accettare passivamente la povertà dell’esistente (dentro e fuori le mura universitarie). Dal nostro punto di vista, le manifestazioni, i picchetti, le occupazioni e gli scontri, le assemblee ecc.. hanno indicato e costruito un orizzonte di liberazione in cui l’organizzazione collettiva del rifiuto della precarietà e del sapere-merce, può e deve continuare a sedimentare spazi di autonomia e lotta, dentro-contro-oltre le contraddizioni del nostro ateneo. Ciò che in sintesi ci contrappone, a partire dai nostri ruoli gerarchicamente situati, è l’orizzonte del cambiamento: non come concertazione istituzionale tra poteri baronali, governativi, e imprenditoriali; non come partecipazione svuotata di senso da un fine che è sempre imposto dall’alto, bensì processo di ribellione costituente di un’alterità di bisogni, saperi, desideri.
Non accettiamo che le nostre istanze di trasformazione, di cambiamento radicale, siano costrette dal sistema della compatibilità! Portare il “que se vayan todos” all’interno della nostra quotidiana fabbrica sociale di sfruttamento significa respingere ogni tentativo di cooptazione da parte del movimento e ridare battaglia in ogni occasione, in ogni luogo in cui più forte è il rifiuto studentesco e precario dell’austerità! Noi vogliamo il potere di decidere sulle nostre vite, non partecipare alla gara a chi raccatta più briciole con altri studenti e precari. Noi non accettiamo i sacrifici che la governance, per sopravvivere, ci vuole imporre. Noi non abbiamo paura del commissariamento: abbiamo imparato dagli operai di Mirafiori e Pomigliano a non cedere ai ricatti. Perché solo costruendo il conflitto, additando come nemici coloro che predicano pacificazione sotto la minaccia di “disastri più grandi”, riconoscendoci forti perché “tutti insieme famo paura”, il movimento troverà la continuità con le giornate del 30 novembre e di Roma, e avrà la forza di connettersi a quelle generazioni precarie che stanno infuocando il mediterraneo.
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