InfoAut
Immagine di copertina per il post

Se l’Espresso parla di “operai del web”

Significativo l’utilizzo del termine «Operai 2.0»: parlare di nuova operaietà significa riconoscere che il capitale struttura per i propri fini la cooperazione sociale combinata con i mezzi e che la macchinizzazione crescente di capacità umane, anche complesse, è oramai un dato di fatto grazie allo sviluppo di algoritmi e interfacce informatiche. L’inchiesta si concentra sulla descrizione oggettiva e talvolta “pietista” di alcuni casi piuttosto particolari, è invece compito delle soggettività militanti studiare i dati di eccedenza, potenziale autonomia e conflitto che le soggettività messe al lavoro possono esprimere.


INCHIESTA

‘Noi, i nuovi proletari digitali’. Ecco chi sono gli operai 2.0

Lavorano al computer, senza orari né tutele, per realizzare video, software, siti web. Creativi? Mica tanto. Ecco i manovali del nuovo millennio, che in Italia sono già mezzo milione

DI FRANCESCA SIRONI – FOTO DI ALESSANDRO GRASSANI PER L’ESPRESSO
Click click. Digita, schiaccia, salva, invia. Click click. Guarda, sposta, cambia esporta. Occhi aperti davanti al monitor, mano sul mouse, comandi da eseguire su un software: se oggi chiedessero a Charlie Chaplin di raccontare il proletario contemporaneo, i suoi Tempi Moderni forse li illustrerebbe così, con uno schiavo del click click. Al computer, più che tra gli ingranaggi di una catena di montaggio.

Perché di operai stiamo parlando, ma di operai digitali. Ovvero di quei manovali che tengono in piedi i siti web, che sudano perché film e serie tv arrivino in tempo nei nostri salotti, che alimentano il flusso di app, news, streaming e database su cui si appoggiano ormai molti servizi essenziali. Negli Stati Uniti la loro schiera conta già 4 milioni e 700 mila addetti; secondo le stime del governo Obama da qui al 2022 i posti aumenteranno di un milione e mezzo. Per l’Italia, l’ultimo censimento Istat è del 2011, e di impiegati nella fabbrica virtuale ne fotografava 450.606: mezzo milione.


L’IDENTIKIT
Gli operai 2.0 sono programmatori, “content editor”, montatori, addetti al “buzz marketing”, tecnici della post produzione, “social media manager”, grafici e specialisti degli effetti sui video. Voci come queste inondano le bacheche di annunci di lavoro. Tanto da esser diventate la speranza di un’intera generazione di giovani (e meno giovani), per i quali le offerte sono doppiamente allettanti: oltre a uno stipendio promettono infatti di essere mestieri creativi. Innovativi quanto le tecnologie che maneggiano.

Ma è una promessa vera solo in parte. Perché se le condizioni proposte da questi impieghi non si possono certo paragonare al sudore dell’industria pesante, dietro ai loro profili ammiccanti si celano spesso mansioni ripetitive, meccaniche; in una parola: alienanti. I diritti conquistati dai sindacati, poi, sono spesso solo un ricordo del passato: i galoppini della Rete sono abituati ad andare avanti senza orari, a cottimo, a sgobbare da casa come le sarte di una volta e infine ad accettare, nei casi estremi, mini-attività virtuali pagate due dollari l’ora, o addirittura in gettoni da spendere online.

«È un Far West», sospira Patrizia Tullini, docente di diritto del lavoro all’università di Bologna: «In cui il grosso del potere contrattuale è nelle mani dei committenti». Così, anche se le sirene delle fabbriche sono lontane, le tute blu scomparse, le ciminiere solo archeologia, pure l’industria eterea e rampante dell’informatica ha i suoi manager, i suoi creativi. E i suoi operai. Come quelli di cui abbiamo raccolto le storie.

LIBERO. O MEGLIO COTTIMISTA
Davide Rovere ha 36 anni. Comincia ad avere qualche capello bianco, ma indossa ancora felpe col cappuccio e jeans oversize. Tredici anni fa si è laureato in “Industrial design” a Treviso. Dopo mesi di colloqui a vuoto è partito alla ricerca di miglior fortuna a Milano. Il primo ingaggio lo ha trovato subito, da una casa editrice, come “web editor”. Suonava bene. «Mi hanno dato una scrivania di fianco al magazzino», racconta: «Il mio compito era copiare online gli articoli che uscivano sul giornale». Autore, almeno, dei sommari? «No. Dovevo solo riempire i campi con i testi che mi mandavano via mail». Pagato? «A ore anche se ero il più giovane per cui mi chiedevano di restare per dare una mano coi computer».

È andata avanti per otto mesi. Poi ha deciso di mettersi in proprio. L’ufficio allora è diventato camera sua: una stanza di venti metri quadrati che condivideva in periferia con Matteo Toffalori, un ragazzo di vent’anni anche lui smanettone e aspirante grafico freelance. «Spesso non uscivamo di casa tutto il giorno», ricorda: «Ci accorgevamo alle tre di non aver pranzato. O continuavamo di notte». Sul suo computer, ai piedi del letto, disegnava siti web e dépliant per piccole aziende o artisti emergenti. «Le commesse più noiose sono sempre quelle più redditizie», spiega: «Alle richieste più creative invece mi capita di non chiedere nulla in cambio. Solo perché mi diverto». Stipendio? Come per la maggior parte dei suoi colleghi, ogni volta lo attende una via crucis di fatture pagate a lavoro ultimato, normalmente in ritardo, oppure direttamente in nero.

Da dicembre però qualcosa è cambiato. Ha messo su famiglia. E con Toffalori ha avviato una società, “Reactio”, specializzata in effetti speciali e animazioni 3D: «Non è un’occupazione molto più gratificante o creativa in sé», spiega Matteo: «Passo ore allo schermo, a spostare linee, modificare figure. La soddisfazione dipende tutta dal risultato: se ne posso andare fiero, ne è valsa la pena. Se invece sono costretto a modificarlo trenta volte perché “qui non piace” e “rifai questo”, alla fine mi viene la nausea». Qualche mese fa un’azienda gli ha chiesto di togliere l’immagine di una bottiglietta d’acqua da un filmato di un’ora e mezza. Compenso: 800 euro. «Una follia! Si trattava di passare con il cancellino su ogni fermo immagine, venticinque volte al secondo». Dopo 35 giorni, ha rinunciato. Senza cavarci un euro.

È IL FUTURO O IL RITORNO AL PASSATO?
Digitando “I am a developer” (“Sono uno sviluppatore”) su Google, il motore di ricerca suggerisce di chiudere la frase con “I have no life” (“Non ho una vita”). E la pagina Facebookintitolata così vanta in effetti 867.225 “mi piace”. Persiste l’immagine del programmatore-nerd tagliato fuori dal mondo, chino sullo schermo a digitare comandi per inventare l’applicazione del futuro. Ma insieme a questa figura inizia a farsene strada un’altra. Più concreta e disincantata. Su un forum Marco D. scrive: «Noi programmatori siamo gli operai del nuovo millennio. A meno di non essere geni, è così». Il mito di una generazione insomma è passato dal fondare una start up miliardaria al ritagliarsi un buon lavoro qualunque sia.

Le tute blu digitali sanno però di avere dei vantaggi rispetto al Cipputi caustico inventato da Altan: «L’orario di solito lo gestisci tu», spiega Marco D.: «E poi più aziende cambi, più usi piattaforme diverse, più acquisisci esperienza e quindi ti confronti con competenze nuove». Insomma: non è la pura ripetitività della catena di montaggio. Ci sono in gioco logica, ragionamento, inventiva. Ne è convinto anche Francesco Wil Grandis, autore di una testimonianza  su “Nomadi Digitali” : «Ho vissuto il mio mestiere di programmatore senza stress», racconta. Il padrone l’ha incontrato online, in una piattaforma di outsourcing, ovvero una piazza virtuale in cui le aziende possono trovare professionisti di tutto il mondo e viceversa. Con il suo committente, americano, è stata intesa al primo colpo; per quattro anni ha lavorato per la stessa azienda: buono stipendio, libertà ritagliate su misura, richieste sempre più raffinate. Un caso da manuale.

LA GRANDE ILLUSIONE
I lavori digitali sono invitanti per molti motivi. Perché danno l’idea di essere innovativi. E perché sembrano facili: la quasi totalità dei giovani sa usare benissimo Facebook, ad esempio, per stare con gli amici. E allora perché non farlo diventare un lavoro? Ed ecco nascere un potenziale “social media editor”, una persona il cui compito è alimentare discussioni online su un prodotto. La competizione però è altissima. Con diverse conseguenze.

La prima, ovvia, è l’abbassamento dei salari. La seconda sono le minori garanzie (il classico: «Non ti piace? Vai. Tanto c’è la coda fuori»). E poi c’è un terzo inganno: «Visto che spesso mancano un riconoscimento o un buono stipendio, i lavoratori si autoconvincono sia giusto essere un po’ sfruttati pur di fare un mestiere così innovativo», sostiene Matteo Tarantino, giovane sociologo dell’Università Cattolica di Milano: «In realtà sono operai, ma né le aziende né loro stessi si definiscono così». Perché «l’immaginario è cambiato», spiega: «Ma la sostanza capitalistica resta, anche per l’industria digitale: pochi posti per i veri creativi. Molti per la manodopera a basso valore aggiunto».

DALLA MIA STANZA SENZA FINESTRE
«Quanno dico che lavoro faccio, la gente subito: bello! E io imbarazzato spiego: beh insomma, due cojoni. Certo nun faccio il manovale, ma è comunque un’attività zero creativa e molto ripetitiva». Roberto (il cognome no, ha un contratto e non lo vuole perdere) fa il montatore in una società che importa dall’estero film e trasmissioni tv, a cui vengono aggiunte traduzioni e doppiaggio. Lui, in particolare, è la persona che deve ricevere i video, dividerli fra i colleghi, quindi assemblarli di nuovo controllando tutte le immagini prima che arrivino a milioni di telespettatori.

Di fatto la sua attività consiste nel muovere gli occhi e il mouse: guarda i filmati (ognuno almeno due volte), corregge, separa. E poi di nuovo: taglia, digita, salva, invia. Una routine meccanica. A cui lui, di suo, può aggiungere di rado qualcosa. «Ma non mi lamento», insiste: «Ho un ottimo stipendio, un contratto vero». Nel suo ufficio – senza finestre, e al buio: l’unica luce è quella dei monitor – non ha un gran rapporto coi colleghi: «Mi faccio i fatti miei». Grazie al tempo libero però, obbligatorio per via dei processi che bloccano il computer per ore, è diventato una star su Twitter, con decine di migliaia di followers e battibecchi in diretta con politici, attori, jet set.

«Sono fortunato», ripete.«Anche se lo ammetto, a volte non dormo. Quando arrivano certi cartoni animati mi vorrei impiccare: 130 puntate da 40 minuti, con le canzoncine, i pupazzetti che ballano, le coreografie, e io che mi devo guardare tutto tre volte. Quanno esco nun me se leva il jingle dalla testa». Nella sua stessa azienda c’è a chi va peggio: «Mi sono rifiutato di seguire alcuni documentari “chirurgici”», racconta: «liposuzioni, sangue, organi in vista. Nun je la posso fa. Ma ho colleghi obbligati a mettere i sottotitoli». Significa avere carni sbrindellate sotto gli occhi per giorni. Fermo immagine dopo fermo immagine. C’è a chi tocca anche questo.


TECNICI FANTASMA
Come nelle fabbriche, anche per la manovalanza digitale esistono i tecnici ultra-specializzati. Marco Perini, 33 anni, occhiaie croniche, è uno di questi. Il suo lavoro è far sentire nei video la voce di chi parla, e non quei brusii, fruscii, rumori che i microfoni inevitabilmente intercettano. Si chiama “post-produzione audio” oppure “sound design”. Ma se molti mestieri dell’universo digitale sono poco noti, il suo è proprio ignoto: «Ho ancora clienti che mi chiedono: “Ma non basta alzare il volume?”», commenta, accendendo una delle sue venticinque sigarette quotidiane: «Correggere l’audio significa invece fare almeno quaranta azioni per ogni minuto di registrazione, fra abbassare picchi, coprire, eliminare il sottofondo».

Dietro ogni scena di un film c’è questa meticolosa pulizia compiuta su un software. Una fatica che stentiamo a riconoscere. Come capita per molti altri mestieri digitali: dal moderatore dei commenti online alla massa di operai che ogni notte salva i miliardi di contenuti pubblicati su Facebook, ad esempio. Chi conosce il loro volto? «In Rete tutto deve sembrare naturale, immediato», spiega Ruggero Eugeni , docente di Semiotica dei Media: «Dobbiamo sentirci “utenti”, non consumatori. Ma perché questa retorica resti in piedi è fondamentale che non si avverta il lavoro che c’è dietro. Chi produce deve diventare invisibile». Un fantasma.

«Per l’ultima produzione a cui sono stato chiamato mi hanno offerto 50 euro a puntata», sospira Marco Perini: «Considerando che ogni volta erano quattro ore e mezza di lavoro, mi sono rifiutato di continuare». Il prezzo giusto? «Sarebbe 350 euro. Molti committenti, per fortuna, mi pagano così». Anche perché lui è considerato uno bravo: la Sae, la più grande scuola per queste professioni in Italia, l’ha chiamato come docente. «A me piace il mio lavoro», prova a spiegare: «Quando senti il risultato: è fantastico. Il problema è che per molti non esiste». Si rimette le cuffie: per dieci minuti avrà nelle orecchie la stessa frase – “no perchéee” – detta da una belloccia dello show business. Non può pensare ad altro, quando è su una traccia.

«DAI, SIAMO UNA GRANDE FAMIGLIA»
Poi, c’è l’età. Perché passare le notti alla tastiera, inseguendo l’ultimo software, è entusiasmante a 20 anni. A 30 ci si arrangia. Ma a 40… Chiara Birattari, che li ha appena compiuti, i 40, è una veterana dei mestieri digitali, e questo cambiamento di prospettiva l’ha vissuto di persona. «Il mio primo contratto è stato super: tempo indeterminato in un’agenzia di comunicazione online», racconta: «Quasi un miraggio, oggi». Era il 1998: non era ancora scoppiata la “bolla delle dot com”, il collasso del 2001 seguito alle speculazioni finanziarie sulla Silicon Valley, considerato una sorta di spartiacque dell’industria virtuale.

Prima, i siti web si costruivano “a mano”, programmando in html. Dopo sono nati i blog, i social network, i portali fai-da-te. «Io ho iniziato grazie a un corso della Regione Lombardia», racconta Chiara, occhi azzurri, un diploma all’Accademia di Brera e una seconda vita da attivista politica con il movimento di San Precario: «Era divertente».

Dopo la crisi l’agenzia non le ha pagato lo stipendio per un anno. Lei se ne è andata, facendo causa. E nel 2003 ha trovato un contratto a progetto in una società che si occupa di convention aziendali, con clienti del calibro di Publitalia. «Il mio compito era preparare le presentazioni», racconta: «I manager mandavano i testi. Il capo mi indicava le immagini da usare. E io componevo le schede. Poi, durante le mega-riunioni, ero la ragazza che cambiava slide al cenno del dirigente di turno».

Terribile? «In realtà non era così male. Il problema era l’ambiente», spiega: «Il clima era quello della “grande famiglia”. Secondo i soci ci saremmo dovuti divertire, perché era un lavoro “creativo”, perché le convention erano “begli eventi”. Eppure era pesante. Non me ne rendevo conto, ma stavo anche 15 ore di fila davanti al monitor». A fermarla è stata l’ennesima proposta di un rinnovo precario, insieme a malattie da stress che sono state un allarme. Ora collabora con una rete di professionisti che aiuta piccoli artigiani a presentarsi sul Web: «Siamo partite Iva, ma abbiamo un manifesto comune», spiega: «Farsi pagare il giusto. Costruire un buon rapporto coi clienti. E soprattutto: non fare orari folli».

STIPENDI VIRTUALI
Fin qui, non è che la superficie. L’avanguardia del lavoro digitale nel frattempo è andata ben oltre. L’oltre si chiama crowdworking – letteralmente, “lavoro di folla”, collettivo – ed è un’avanguardia che ha piantato solide basi anche qui: 100 mila italiani racimolano uno stipendio grazie ai mini-job virtuali. Di che lavori si parla? Di guardare centinaia di video per censurare quelli pedopornografici, ad esempio. Oppure di commentare la pagina web di un politico. O ancora di controllare fogli pieni di dati. Tutto per rimborsi che vanno dai 50 centesimi ai pochi dollari l’ora.

Pioniere del settore è Amazon, col suo Turco Meccanico, ma le fabbriche globali sono numerose: CrowdFlower, un concorrente, vanta cinque milioni di iscritti in 280 Paesi. L’ultima novità riguarda i soldi. Virtualizzati, anche quelli: sulla piazza di Amazon i lavoretti sono pagati spesso non con dollari veri, ma con monete immateriali da spendere dentro la stessa piattaforma per acquistare libri, scarpe, dvd.

E se i dipendenti usa-e-getta che vivono negli Stati Uniti possono scegliere fra il ricevere un bonifico concreto oppure solo un tagliandino regalo, per gli stranieri (indiani esclusi) non c’è scampo: tutto lo stipendio va speso dentro il negozio del boss. Come nelle piantagioni coloniali anni Trenta. Mentre in Rete inizia a spuntare anche chi paga in punti-gioco da utilizzare nei videogame. La premessa di un futuro dove anche lo stipendio rischia di diventare virtuale.

Ti è piaciuto questo articolo? Infoaut è un network indipendente che si basa sul lavoro volontario e militante di molte persone. Puoi darci una mano diffondendo i nostri articoli, approfondimenti e reportage ad un pubblico il più vasto possibile e supportarci iscrivendoti al nostro canale telegram, o seguendo le nostre pagine social di facebook, instagram e youtube.

pubblicato il in Bisognidi redazioneTag correlati:

cognitarioperaiprecariweb

Articoli correlati

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Un rito meneghino per l’edilizia

Sul quotidiano del giorno 7 novembre, compare un suo ultimo aggiornamento sotto il titolo “Il Salva-città. Un emendamento di FdI, chiesto dal sindaco Sala, ferma i pm e dà carta bianca per il futuro”.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

La parabola della salute in Italia

È un potente monito in difesa del Servizio sanitario nazionale quello che viene dall’ultimo libro di Chiara Giorgi, Salute per tutti. Storia della sanità in Italia dal dopoguerra a oggi (Laterza, 2024). di Francesco Pallante, da Volere la Luna Un monito che non si limita al pur fondamentale ambito del diritto alla salute, ma denuncia […]

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Cuba: blackout ed embargo

Cuba attraversa la sua maggiore crisi energetica, con la pratica totalità dell’isola e con 10 su 11 milioni di abitanti privati di elettricità.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Movimento No Base: Fermarla è possibile. Prepariamoci a difendere la nostra terra!

Da mesi le iniziative e le mobilitazioni contro il progetto strategico di mega hub militare sul territorio pisano si moltiplicano in un contesto di escalation bellica in cui il Governo intende andare avanti per la realizzazione del progetto di base militare.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Sanità: dalle inchieste torinesi al G7 Salute di Ancona

Due approfondimenti che riguardano la crisi sanitaria per come viene messa in atto dalle istituzioni locali e nazionali.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Alberto non c’è più, ma la lotta è ancora qui!

Alberto non c’è più, ma la lotta è ancora qui.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Comunicato del cs Rivolta di Marghera sulla manifestazione di sabato 28 ottobre

Sabato 28 settembre una straordinaria ed imponente manifestazione ha attraversato le vie di Mestre per ricordare Jack e stringersi forte alla sua famiglia e a Sebastiano. Oltre 10000 persone, forse di più, si sono riprese le vie della città, una città che ha risposto nel migliore dei modi alle vergognose dichiarazioni di Brugnaro e dei suoi assessori. Comitati, associazioni, centri sociali, collettivi studenteschi con la rete “riprendiamoci la città” e una marea di cittadine e cittadini, hanno trasformato una parola d’ordine in una pratica collettiva.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Per Jack, per noi, per tutt*. Riprendiamoci la città, sabato la manifestazione a Mestre.

Mestre (VE). “Per Jack. Per noi. Per tutt*”. Manifestazione in ricordo di Giacomo, compagno 26enne del centro sociale Rivolta ucciso venerdì a Mestre mentre – con un altro compagno poi rimasto ferito – cercava di difendere una donna da una rapina. Il 38enne aggressore si trova in carcere.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

MESTRE: UN COMPAGNO UCCISO E UNO FERITO NEL TENTATIVO DI DIFENDERE UNA DONNA VITTIMA DI RAPINA

La scorsa notte un compagno è stato ucciso ed un altro ferito a Mestre nel tentativo di sventare una rapina nei confronti di una donna. Come redazione di Infoaut esprimiamo la nostra solidarietà e vicinanza nel dolore ai compagni e alle compagne di Mestre.

Immagine di copertina per il post
Bisogni

Cosentine in lotta per il diritto alla salute

Il collettivo Fem.In Cosentine in lotta nasce nel 2019 e da allora si occupa del tema dell’accesso alla sanità pubblica, del diritto alla salute, con uno sguardo di genere.

Immagine di copertina per il post
Approfondimenti

Stati Uniti: soggetti e strategie di lotta nel mondo del lavoro

L’ultimo mezzo secolo di neoliberismo ha deindustrializzato gli Stati Uniti e polverizzato il movimento operaio.

Immagine di copertina per il post
Formazione

Mobilitazione contro la riforma del pre-ruolo: voci dal presidio al rettorato di Unito

Venerdì 1 novembre si è tenuto un presidio al rettorato dell’Università di Torino in Via Po, organizzato da studenti e studentesse, docenti e soprattutto precari e precarie della ricerca e dell’accademia, contro la cosiddetta “riforma del pre-ruolo” a firma ministra Bernini

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Lavoro digitale: intervista ad Antonio Casilli

Collegato con noi c’è Antonio Casilli, professore dell’Istituto Politecnico di Parigi e autore di diversi lavori, tra cui un libro pubblicato in Italia nel 2021, Schiavi del Click.  Fa parte del gruppo di ricerca DiPLab. Intervista realizzata durante la trasmissione Stakka Stakka su Radio Blackout Di seguito la puntata completa: Qui invece l’estratto audio dell’intervista: Allora Antonio, […]

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Stellantis senza freni

Le ore successive allo sciopero del settore automotive a Torino sono state sorprendenti: i media hanno annunciato l’aumento dei compensi che si sono riservati i vari dirigenti del gruppo Stellantis, in primis il Ceo Tavares.

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Addio Pasquale, compagno generoso ed instancabile

Apprendiamo con amarezza che per un malore improvviso è venuto a mancare Pasquale Lojacono.

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Cremona: la polizia sgombera la Prosus, occupata da 4 mesi dai lavoratori

I lavoratori dell’azienda di macellazione Prosus di Vescovato, alle porte di Cremona, che dal 16 ottobre 2023 occupavano lo stabilimento sono stati sgomberati questa notte.

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Prima Classe e sfruttamento di classe

Il commissariamento dell’azienda Alviero Martini Spa di Milano per sfruttamento lavorativo è l’ennesima occasione per riflettere sulle trasformazioni delle filiere del nostro paese e sulle devastanti condizioni di lavoro che stanno dietro il tanto celebrato “Made in Italy”.

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

Genova: corteo con i lavoratori Ansaldo che rischiano 7 anni di carcere per blocco stradale

Un grande striscione con scritto “siamo tutti Ansaldo” apre il corteo di oltre mille persone in solidarietà dei 16 lavoratori denunciati durante lo sciopero del 13 ottobre 2022 a difesa dello storico stabilimento genovese, culminato con l’occupazione dell’aeroporto e scontri con le forze dell’ordine.

Immagine di copertina per il post
Sfruttamento

GKN: bloccati i licenziamenti dei 185 operai e operaie. Confermato il fine anno di lotta a Campi Bisenzio

Lotte operaie. Nessun licenziamento scatterà il primo gennaio 2024 per i 185 lavoratori e lavoratrici Ex GKN di Campi Bisenzio annunciati da Qf Spa in liquidazione.